Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di martedì 4 marzo
Dal Secolo d'Italia di martedì 4 marzo
Spiace dirlo, ma avevamo ragione noi del Secolo. Peccato per la débacle degli ascolti, ma, ora che i giochi sono fatti, certo non si può dire che il Sanremo di Pippo Baudo non sia stato politicamente schierato. Possiamo anche sorvolare sulla vincitrice che, forse più per patriottismo che per ideologia, continua a sbandierare di essere nata nello stesso ospedale di Che Guevara: «Per me – ha confidato Lola Ponce davanti a milioni di telespettatori – il Comandante rappresenta un messaggio, un’idea: rispettando i valori si arriva sempre in un bel posto». Ma per il resto questo Sanremo ha snocciolato – per dirla con Giampiero Mughini che ce l’aveva con il rapper Frankie Hi Energy – un perfetto «pasticcio sinistrese».
«Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione, sesso, razza o religione: tutti pronti per l’azione», ha cantato Frankie in quota sinistra estrema, facendo sobbalzare sulla sedia da giurato il buon Mughini, sconfortato dalla slavina di luoghi comuni. Per il resto, un pastone in salsa veltroniana: basti pensare a una Giorgia che, confidando nella forza del subliminale, si sbilancia in un paraculo: «Ce la possiamo fare»; o a un Jovanotti che ha svelato in stile avanspettacolo: «Una volta mi è capitato di fare la pipì con Berlusconi a San Siro, e lui non si è lavato le mani», per poi lanciarsi in un peana di Obama, evidente avatar “made in Usa” del Walter nostrano: «Dovremmo votarlo anche noi».
Ma a parte le inutili e infantili pisciatine sinistresi di chi ha voluto marchiare il territorio dell’immaginario italiano, il Sanremo baudista è diventato allegoria perfetta del modus politicandi veltroniano: nella costruzione dello spettacolo, nella scelta di protagonisti e comprimari, nell’eterna voglia compromissoria e, soprattutto, nella ricerca paranoica delle mille figurine Panini rappresentative di uno spicchio di società. Finanche nel parlare flemmatico. Lo ha ammesso lo stesso Baudo: «Non è un mistero la mia collocazione politica. Sono storicamente, familiarmente, psicologicamente, idealmente di centrosinistra». Sostanzialmente doroteo. La traduzione? L’ha spiattellata Aldo Grasso sul Corriere della Sera: «Baudismo è il governo delle grandi intese, quello che fa convivere Toto Cutugno e Frankie Hi Energy; è il potere che-nonmolla-mai; è il “nuovo” che avanza anche se sta sempre fermo (il famoso rinnovamento nella continuità); è una curiosa forma di eclettismo sociale, la capacità cioè di rivolgersi a tutti, di apparire interclassista, di promuovere l’innovazione e nello stesso tempo salvaguardare la tradizione...».
Il baudismo ha, infatti, proposto agli italiani un caravanserraglio senza anima in stile veltroniano con dentro un po’ di tutto. Perché questo Sanremo è un po’ il Partito democratico. Perché Pippo Baudo è come Walter Veltroni. È il suo modo di pensare l’Italia costruita sulla rappresentanza individuale di settori merceologici: il primo mette un rapper, l’altro un operaio; il primo mette un melodico, l’altro un industriale; l’uno mette Minghi, l’altro un cattolico; l’uno mette un cantautore, l’altro un gay... e così via, con una spruzzata di giovani un po’ raccomandati e un po’ secchioni, in un elenco della spesa che non ci prova nemmeno a costruire l’Italia del futuro. Nessuna sintesi culturale, nessuna anima politica, ma solo l’assemblamento cinico e casuale di mille Italie in una giacca patchwork multicolore: una di quelle che andavano di moda in quegli anni Sessanta di cui Veltroni è tanto innamorato. Ma Sanremo l’ha dimostrato: è un espediente che non funziona. Pippo ci ha provato a tentare di ripetere il successo dei suoi anni Sessanta e non c’è proprio riuscito. E perché adesso l’operazione dovrebbe andare bene a Walter sul piano elettorale?
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
«Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione, sesso, razza o religione: tutti pronti per l’azione», ha cantato Frankie in quota sinistra estrema, facendo sobbalzare sulla sedia da giurato il buon Mughini, sconfortato dalla slavina di luoghi comuni. Per il resto, un pastone in salsa veltroniana: basti pensare a una Giorgia che, confidando nella forza del subliminale, si sbilancia in un paraculo: «Ce la possiamo fare»; o a un Jovanotti che ha svelato in stile avanspettacolo: «Una volta mi è capitato di fare la pipì con Berlusconi a San Siro, e lui non si è lavato le mani», per poi lanciarsi in un peana di Obama, evidente avatar “made in Usa” del Walter nostrano: «Dovremmo votarlo anche noi».
Ma a parte le inutili e infantili pisciatine sinistresi di chi ha voluto marchiare il territorio dell’immaginario italiano, il Sanremo baudista è diventato allegoria perfetta del modus politicandi veltroniano: nella costruzione dello spettacolo, nella scelta di protagonisti e comprimari, nell’eterna voglia compromissoria e, soprattutto, nella ricerca paranoica delle mille figurine Panini rappresentative di uno spicchio di società. Finanche nel parlare flemmatico. Lo ha ammesso lo stesso Baudo: «Non è un mistero la mia collocazione politica. Sono storicamente, familiarmente, psicologicamente, idealmente di centrosinistra». Sostanzialmente doroteo. La traduzione? L’ha spiattellata Aldo Grasso sul Corriere della Sera: «Baudismo è il governo delle grandi intese, quello che fa convivere Toto Cutugno e Frankie Hi Energy; è il potere che-nonmolla-mai; è il “nuovo” che avanza anche se sta sempre fermo (il famoso rinnovamento nella continuità); è una curiosa forma di eclettismo sociale, la capacità cioè di rivolgersi a tutti, di apparire interclassista, di promuovere l’innovazione e nello stesso tempo salvaguardare la tradizione...».
Il baudismo ha, infatti, proposto agli italiani un caravanserraglio senza anima in stile veltroniano con dentro un po’ di tutto. Perché questo Sanremo è un po’ il Partito democratico. Perché Pippo Baudo è come Walter Veltroni. È il suo modo di pensare l’Italia costruita sulla rappresentanza individuale di settori merceologici: il primo mette un rapper, l’altro un operaio; il primo mette un melodico, l’altro un industriale; l’uno mette Minghi, l’altro un cattolico; l’uno mette un cantautore, l’altro un gay... e così via, con una spruzzata di giovani un po’ raccomandati e un po’ secchioni, in un elenco della spesa che non ci prova nemmeno a costruire l’Italia del futuro. Nessuna sintesi culturale, nessuna anima politica, ma solo l’assemblamento cinico e casuale di mille Italie in una giacca patchwork multicolore: una di quelle che andavano di moda in quegli anni Sessanta di cui Veltroni è tanto innamorato. Ma Sanremo l’ha dimostrato: è un espediente che non funziona. Pippo ci ha provato a tentare di ripetere il successo dei suoi anni Sessanta e non c’è proprio riuscito. E perché adesso l’operazione dovrebbe andare bene a Walter sul piano elettorale?
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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