domenica 17 febbraio 2008

E il teppismo diventò musica, Rotten-Lydon si racconta (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 17 febbraio 2008

John Lydon, all’anagrafe: più precisamente (perchè i secondi nomi non costano nulla e, pertanto, non sono un’esclusiva dei ricchi) John Joseph Lydon. Poi Johnny Rotten, al tempo dei Sex Pistols. Sex, sesso. Pistols, pistole. Rotten, marcio. Sottinteso Uno: andate a farvi fottere, voi benpensanti & benvestiti. Sottinteso Due: non dite che non vi avevamo avvertito. Avremo altri difetti ma parliamo chiaro. E andiamo dritti allo scopo. E alziamo le mani, se serve.
Poi ancora, passata la tempesta del punk, di nuovo John Lydon. Un nuovo gruppo, dal nome ironico ma assai meno aggressivo, di PIL, Public Image Ltd. Una nuova immagine artistica. E anche personale. Il ragazzino scatenato di Anarchy in the U.K. e di God Save the Queen cresce. Diventa un tipo meno impulsivo, ma non per questo meno spregiudicato. Mettiamola così: Johnny Rotten era un teppistello di periferia; John Lydon è un tipaccio consapevole. Come dice lui, “un bruttissimo stronzo”. Johnny Rotten infrangeva le leggi, quelle giuridiche e quelle morali, per istinto. John Lydon ha completato il percorso e ha afferrato il concetto: le suddette leggi sono catene e museruole per il popolo. Per chi non detiene il potere. Se fai il bravo ti diamo (forse) un osso. Se fai il cattivo ti prendiamo a calci. O a bastonate. O ti portiamo al canile. A proposito: la sai una cosa, bello? Ci muoiono diversi cani, laggiù. Diversi bastardi.
John Joseph Lydon nasce a Londra, in una zona povera e, di conseguenza, degradata. Famiglia irlandese strappata alla propria terra dal suo stesso, endemico sottosviluppo. Sangue irlandese sgocciolato giù per il Regno Unito fino a raccogliersi nell’immensa, lurida pozzanghera dell’hinterland londinese. Una deportazione di fatto, senza nemmeno bisogno di deciderla ufficialmente: mica è colpa della Corona, se l’economia britannica avanza e se l’Irlanda non tiene il passo. Datti da fare, O’Hara. Datti da fare, Lydon. Okay?
Okay. Cerchi lavoro e ti sposti. Trovi il lavoro e perdi il tuo habitat naturale. Pazienza, pensi. Almeno mangio. Almeno tiro avanti. Tiro su i miei figli. Pazienza. Che altro potevo fare?
«Fino a quasi undici anni ho vissuto in un appartamento di due stanze. Senza bagno. Gabinetto esterno. Una topaia, da tutti i punti di vista. (...) Ho tre fratelli. Sono il più grande, ed eravamo nati tutti e tre relativamente vicini. Non so quanti anni abbiano, se devo essere sincero. Non so quand’è il loro compleanno e loro non sanno quand’è il mio. Non siamo quel tipo di famiglia. Non festeggiamo queste cose. Mai avuto interesse. Fino a poco tempo fa, non sentivo neanche mio padre. Non credo di aver mai parlato seriamente con lui fino al giorno in cui mi buttò fuori di casa a calci. “E’ ora che impari a cavartela da solo, bastardo!”. Poi le cose sono cambiate. “Ciao, figliolo. Come stai? Adesso sì che stai badando a te stesso”. Era giusto che facesse così perché sarei diventato un’ameba o un vegetale, a fare il parassita col sussidio di disoccupazione.»
Rotten, marcio. Un insulto che diventa un vessillo. Una condanna annunciata che viene rovesciata in un annuncio di totale estraneità. Un’estraneità deliberata. Perseguita con assiduità. Quasi con rigore. Così che quella condanna sia esorcizzata al più presto, trasformando l’emarginazione in orgoglio. Orgoglio vero, sprezzante, solitario: non la riscossa operosa del proletario che si salva in extremis dalla perdizione e, illuminato dall’arte, o dall’amore, o dal Fato, riversa la sua rabbia in qualche accidente di business. Non è questo, ciò che cerca Johnny Rotten. Non gli basta tirarsi fuori dagli slums a qualsiasi costo. Non gli interessa la solita storia (il solito sogno) del ragazzo povero che vuole diventare ricco e famoso. La sua parola chiave non è “successo”. La sua parola chiave è “individualismo”. In antitesi a qualsiasi tipo di condizionamento: esplicito e occulto, perpetrato in nome del denaro o della religione, presidiato dalla polizia o dal clero. Ogni genere di polizia. Ogni genere di clero.
«Non sono un rivoluzionario, un socialista o cose del genere. Non è questo che mi interessa. La mia politica è un senso assoluto di individualità. Tutti i gruppi politici che conosco su questo pianeta sembrano sforzarsi di sopprimere l’individualità. Hanno bisogno di numeri che votino in blocco. Hanno bisogno di unità. Non importa se è destra o sinistra, a volte le tattiche sono le stesse. Questa gente si batte per l’uniformità di massa.»
E spesso ci riesce, purtroppo. Ci riesce a tal punto che la gente si illude di aver resistito, di essere rimasta integra, di aver mantenuto le proprie capacità di autonomia e di reazione. Ognuno mangia quel che vuole. Guarda i programmi tivù che preferisce. Si informa. Vota per chi lo convince. Ed è sempre, sempre, sempre in grado di concentrare il suo amore su uno sconosciuto, fino a farne una stella.
«C’è qualcosa che non va nel grande pubblico che ha bisogno di icone. Io sono un iconoclasta, e quindi questo mi rende insopportabile. I fan vogliono che diventi una divinità, e se non lo fai sei un problema. Vogliono che ti accolli il fardello ideologico al posto loro. E’ assurdo. Ho sempre sperato di aver chiarito perfettamente che ero anch’io confuso né più né meno di chiunque altro. Ecco perché faccio questo. Anzi, dirò di più. Non sarei mai salito su un palco una sera dopo l’altra se non fossi stato anch’io molto confuso. Se avessi tutte le risposte, non sarei mai stato preso da una cosa del genere.»
Liberissimi di rifiutare-criticare-stroncare il punk. Quello dei Sex Pistols e quello di chiunque altro. Liberissimi di pensare che sia stato un modo di esprimersi troppo rozzo per avere un suo valore artistico intrinseco, che lo ponesse al di sopra di una curiosa manifestazione di insofferenza giovanile. Ma qui non si parla della riuscita estetica. E nemmeno del fenomeno del punk nel suo insieme. Qui si parla di un singolo ragazzino che era disposto a tutto pur di non soffocare nel conformismo. E che, a quanto pare, c’è anche riuscito.
(Johnny Rotten, "L’autobiografia. No Irish, no blacks, no dogs". Arcana, 2007, Pagg. 353, € 16,50)
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ROTTEN ERA, è UN GRANDE, CON UN ANIMO DOLCE MA SEGNATO DA QUELL' INFANZIA TRASCURATA.SI è FATTO STRADA DA SOLO, HA ESPRESSO LIBERAMENTE LE SUE IDEE, COME TANTI IN QUEL TEMPO NON HANNO FATTO.IL SUO CORAGGIO D'ANIMO DOVRà ESSERE D'ESEMPIO.QUINDI RISPETTO PER LE PERSONE CHE HANNO AVUTO PIù FEGATO DI NOI.