giovedì 14 febbraio 2008

La vocazione maggioritaria sta nel Dna della destra (Filippo Rossi presenta il nuovo numero di Charta Minuta)

Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di giovedì14 febbraio 2008

I vecchi missini nel loro intimo la sapevano già. Magari non lo dicevano e non se lo dicevano nemmeno tra di loro, perché pensare di essere un partito a vocazione maggioritaria quando si veleggia attorno al cinque-sei per cento dell’elettorato, quanto meno si può essere accusati di velleitarismo.
E cosi, per tutto il secondo dopoguerra, quel “movimento sociale” che mai si è definito e considerato di “estrema destra” ha scommesso per forza della storia sul fattore nostalgia. Già, perché se da una parte è innegabile che il Msi fosse intriso di nostalgia per una stagione italiana di grande politica e di cultura del fare, dall’altra è altrettanto innegabile che la ricchezza culturale che si muoveva all’interno di quel mondo fosse sovrabbondante rispetto a un partitino di destra irriducibile al modello di quelli che esistono in tutti i paesi occidentali. In effetti, per andare oltre la retorica della battaglia politica dettata dall’esigenza di sopravvivenza, bisogna farsi un’altra domanda: di cosa erano veramente nostalgici quegli uomini? Di un regime autoritario, rispondono accomunati tutti i prevenuti di professione. In realtà, a bene vedere, quegli uomini, gli Almirante, i Romualdi, i Michelini, i Niccolai, i Valensise, i Tatarella, i Rauti, insieme alle migliaia di militanti e di dirigenti, magari in forme diverse, avevano semmai nostalgia della politica “che decide”, di un tempo in cui loro stessi o i loro predecessori erano stati al governo del paese, gli anni del consenso, gli anni del fascismo maggioritario. Solo così, infatti, è spiegabile l’anomalia di un partito di destra che mai è defluito su posizione estremiste o xenofobe; solo così è spiegabile un partito che, posto fuori dall’arco costituzionale, si ostinava pervicacemente a dividersi in una destra e una sinistra, in guelfi e ghibellini, in conservatori e modernizzatori, in componenti culturali e politiche che potevanoe possono concepirsi solo in un grande movimento a vocazione maggioritaria. Senza dimenticare, ad esempio, che solo un partito che si prefigge di governare la complessità si azzarda ad avere anche un sindacato di riferimento come è stato la Cisnal.
Si potrebbe dire, allora, senza timore di troppe smentite, che, nei fatti, il destino politico di quel Msi, finalmente venuto meno il quadro dell’immediato secondo dopoguerra, non poteva che essere quello di contribuire alla creazione di un grande obiettivo quello di rappresentare movimento che voglia e sappia parlarea tutti gli italiani. Ogni altra scelta sarebbe un vero e proprio tradimento del proprio dna, della propria storia. Perché il Msi, in sostanza, era un partitodi governo che si sentiva provvisoriamente all’opposizione. Un partito che, nonostante tutto, non riusciva a essere fazioso. Tanto che, nel momento in cui ha deciso di superarsi in un contenitore più ampio, a Fiuggi nel 1995, è stato naturalmente scelto un nome che aveva in nuce la vocazione maggioritaria che si sta concretizzando definitivamente in questi giorni: “Alleanza nazionale”. Scompariva– non tutti l’hanno adeguatamente sottolineato – invece quella scritta “destra nazionale” che faceva riferimento a una parte e non a tutta la comunità nazionale. È anche per questo che, oggi, nel momento in cui la politica italiana sta finalmente inverando quel dna con la nascita di due grandi partiti a vocazione maggioritaria, Charta minuta, il mensile della Fondazione Farefuturo, ha deciso di dedicare il numero in edicola – «Una politica a colori» – all’accelerazione delle democrazia italiana, alla nascita di una politica che non pensi più solo al proprio cortile e alla difesa paranoica diinteressi settari. Perché – come spiega il direttore Adolfo Urso nell’editoriale – «c’è bisogno di unadestra che si liberi dalla demagogia e dal pressapochismo, che non vuole compiacere ma decidere, che guarda al bene comune e non al proprio interesse o a quello dei propri accoliti». Di una destra, insomma, che sappia uscire definitivamente dalle secchedi una politica inaridita sulla difesa di un particularepiù immaginario che reale. Perché il luogo della politica è la piazza, non il cortile, è la strada, non il viottolo. E i paesaggi della politica devono essere spazi aperti, non piccoli condomini. La lezione di Farefuturo è chiara: la politica non può avere come- obiettivo quello di rappresentare congreghe, sette e cricche varie. Deve, per rimanere fedele a se stessa, navigare in mare aperto, mettendo l’accento sulla decisione e non sulla rappresentanza. È per questo che non si capiscono posizioni difensivistiche che hanno solo l’obiettivo di difendere un simbolo (vedi l’Udc), una singola battaglia (vedi Giuliano Ferrara) o una presunta rendita di posizione identitaria (vedi la Destra di Storace). Una destra moderna non può permettersi di essere impolitica, deve accettare la sfida della complessità: «Lo schieramentoche si richiama alla libertà – spiega Benedetto Della Vedova – non può e non deve essere fondato sull’adesione a un corpo chiuso ed esaustivo di “valori” che ne definiscono l’identità. Al contrario, deve costituirsi sul modello del partito plurale e sulla piena e ricca libertà di opinione, di associazione e di coscienza: sui temi etici come su quelli economici e sociali.
Nessuno spazio per un partito “confessionale” perché «la laicità – spiega sulla rivista Luciano Lanna – è lo spazio proprio e specifico della politica». Laicità come capacità di trasformare i conflitti nella forma civile della dialettica politica: «È un grande errore – sono le parole del governatore della California, Arnold Schwarzenegger, di cui Charta ospita un’intervista – guidare una nazione come se si fosse illuminati da Dio». Serve un partito, quindi, «con una vocazione inclusiva – dice ancora Della Vedova – tale da utilizzare in modo fecondo le diverse ispirazioni culturali, ideali e religiose di coloro che vi aderiscono o lo votano». Avere il coraggio di costruire un movimento che assomigli ai suoi elettori, tra cui ci sono cattolici e no, lavoratori dipendenti e autonomi, italiani da sempre e immigrati, famiglie e coppie di fatto, tradizionalisti e libertari, eterosessuali e omosessuali. La destra – questa la tesi di Farefuturo – non può ridursi alla rappresentanza di settori limitati o segmenti della società civile. Per accettare questa sfida bisogna disarmare un bipolarismo urlato, rissoso, “raccatta-tutti”, un bipolarismo sorretto solo dalla logica dello scontro, della contrapposizione di un “noi” contro “loro”: «È un bipolarismo – spiega Michele Salvati – funzionale solo alla polarizzazione delle istituzioni ma assolutamente incapace di garantire la governabilità del paese». Per dirla con Camillo Ricci: «Deve tornare il primato dei contenuti sulla propaganda». Compito di una politica a vocazione maggioritaria è trovare, infatti, una sintesi che non precluda la scelta e la decisione. «E questo anche perché – spiega il sociologo Sabino Acquaviva nella sua analisi su Charta – le antiche distinzioni non connotano quasi più vere differenze nella scelta dei valori e dei fini... L’analisi dei problemi e le proposte di nuovi tipi di organizzazioni sociali e politiche seguono altre vie, l’opposizione alle quali spesso, definendosi di destra o di sinistra, confonde idee e problemi». Secondo Acquaviva, chi si ostina a utilizzare rigidamente le vecchie categorie in realtà non fa che «confondere idee»: crede di semplificare, in realtà complica il fare politica, perché costringe a rispettare stereotipi che non hanno più nessun valore né retorico né reale: «La vera rivoluzione, il vero cambiamento, è in una maniera differente di ragionare politicamente, capace, a sua volta, di rivoluzionare il progetto politico. La grande rivoluzione culturale e strutturale che stiamo vivendo è molto più radicale e diversa dal cimitero di rivoluzioni fallite nei secoli che sono alle nostre spalle». È in questo quadro prospettico che – secondo Alessandro Campi – «la destra ha l’occasione per completare in piena autonomia il percorso d’innovazione avviato a Fiuggi nel 1995, che ha visto nascere anche in Italia una destra politica pienamente legittimata a governare, ma ancora troppo timorosa del proprio passato, poco incline a battersi sino in fondo per le proprie idee e troppo poco fiduciosa nella sua capacità a rappresentare i segmenti dinamici della società italiana».
Ha avuto ragione Giulio Tremonti che, l’altrasera a Ballarò, ha risposto per le rime a un Dario Franceschini che continuava a definire il nuovo Pdl come partito “conservatore”: «Cerchiamo di non offendere! – gli ha risposto Tremonti – noi siamo popolari, non conservatori». E proprio contro l’idea di una deriva conservatrice della destra italiana, Charta minuta, con Flavia Perina, si chiede come si ci si possa proporre come “partito degli italiani” senza dimostrare distanza da suggestioni confessionali. Come ha spiegato Angelo Panebianco, la prima caratteristica di un grande partito a vocazione maggioritaria è quella di «non restringere, pena il suicidio elettorale, il suo bacino d’influenza». Una affermazione che deve diventare certezza. Forti di una convinzione che risiede nel dna della destra italiana: il passo da una “alleanza nazionale” a un “partito del popolo” è veramente molto breve. E non deve certo far paura. Anzi.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".

1 commento:

Anonimo ha detto...

duce, duce