Dal Secolo d'Italia di sabato 22 marzo 2008
Trascorso da un bel pezzo il tempo in cui l’8 marzo era una festa isolata dagli altri 364 giorni feriali e maschili, ormai gli eventi e le riflessioni sull’altra metà del cielo (e forse sui suoi tre quinti) occupano l’attenzione, le menti e le scene del mondo. Preoccupante appare il nuovo rapporto dei sindacati sul precariato femminile, ma a dati e a tabelle in rosso siamo da tempo abituati.
Nel frattempo sono in uscita nelle sale italiane due film nord-americani che – com’è normale da quelle parti – presentano altrettanti personaggi assai contemporanei attraverso le figure di Juno e di Katye. La prima è protagonista del film omonimo firmato dal regista canadese Jason Reitman ed è una giovane adolescente incinta che, dopo un breve smarrimento, decide di donare il nascituro a una coppia sterile di amici: una sorta di manifesto sulla maternità responsabile in versione non aggressiva. La seconda si chiama Katye, è una nota attrice di soap-opera e nel film Interview fronteggia alla grande la spocchia di un giornalista di guerra che di malavoglia è stato incaricato di intervistarla: una specie di critica dell’eroismo testimoniale.
Non meno interessanti le novità editoriali, tra le quali spicca la traduzione in lingua italiana (Isbn edizioni) di Terror Dream, ultima fatica del Premio Pulitzer Susan Faludi. Com’è cattiva abitudine, il titolo è stato cambiato in peggio, eppure Il sesso del terrore (così è stato tradotto in italiano il film) risulterà per molti uomini difficilmente digeribile per via di una sua tesi dura come un macigno: che cioè l’11 settembre sia soprattutto servito per riproporre e per rivalutare categorie del tutto obsolete. L’autrice allude a quel penoso maschilismo di ritorno che è tornato ad affermarsi nella cultura e nella vita americane messe in pericolo dall’attacco terroristico. Come mai, si domanda Paludi, gli Stati Uniti hanno risposto a un’offensiva portata contro il nostro potere globale con il tentativo di restaurare certi valori della società tradizionale? Come mai il potere si è comportato come se non fossero stati attaccati degli obiettivi militari ma delle famiglie e degli asili? Perché da qualche anno gli americani si comportano come milioni di ridicoli John Wayne e di patetiche Doris Day? Domande assolutamente spiazzanti, alle quali la scrittrice risponde con ammirevole sicurezza.
Per lei è in atto una disperata strategia di riposizionamento da parte di una società maschile in crisi di identità. Insomma il difetto continua ad apparire il solito. L’uomo non riesce proprio a ritrovare un suo ruolo nel mondo, uno straccio di ruolo che sia vero, credibile.
A questi e ad altri problemi si ispirerà Come lo fanno le ragazze di Daniela Giordano (foto a sinistra), trasposizione teatrale dell’omonimo libro-inchiesta di Ilda Bartoloni sulla sessualità delle teenager, in cui la giornalista cerca in qualche modo di unire l’utile delle sue pregresse battaglie di liberazione con il dilettevole dell’ultima giovinezza, quella che io ad esempio non invidio per niente… Perché stavamo meglio noi, di gran lunga. E ciò può essere affermato non già perché ci si rifiuti di rendere il dovuto omaggio al volo liberatorio delle donne degli anni Sessanta, anzi la nostra ammirazione per quei movimenti di cui Bartoloni è testimone (e che in fondo sono andati raccogliendo i frutti di gruppi ancor più pionieri) è scontata, inevitabile. Il femminismo e, soprattutto, il postfemminismo hanno determinato, in tutto l’Occidente, veri passi in avanti ai diritti delle donne. Il fatto però innegabile è che proprio la generazione che negli anni Settanta aveva vent’anni ha potuto vivere un’esperienza profonda di dialettica sentimentale, uno scambio e un dialogo che oggi appaiono perduti e difficilmente ricucibili. Insieme all’urgenza di talune nozioni che all’epoca apparivano – giacché erano – imprescindibili, sembra essersi eclissato qualsiasi spiraglio di luce tra le due porte, ermeticamente chiuse, del maschile e del femminile.
Viviamo a tal punto il tempo dell’autismo sessuale che la “differenza sessuale” suona ormai una retorica da vuoto pneumatico. Al sol leggere Luce Irigaray (a destra) e Camille Paglia (in basso a sinistra) sembra siano trascorsi cento anni, poiché quel processo di identità del femminile è bell’e compiuto. Felicemente dovremmo dire, per quanto consta alle donne. Va infatti contestato il fatto che le battaglie del movimento femminista vengano ancora rilette in chiave polemologica. Questa non è altro che una fesseria che cela, paradossalmente, un successo assai più vasto. Non è un caso che il convegno di presentazione dello spettacolo di Ilda Bartoloni si intitolerà «La libertà del corpo femminile». Non lo è perché il percorso autoidentitario della donna degli anni Sessanta è avvenuto essenzialmente sulla sua stessa pelle e nel suo medesimo corpo.
È in pratica avvenuto che le care amiche si sono allora velocemente persuase di quanto più valesse per la loro liberazione la coscienza di possedere un corpo ennesimamente più ricco, più sensibile e più autonomo di quanto lo fosse quello dei loro cosiddetti “competitori”. Fu quella la madre di tutte le battaglie. E fu in quel frangente che ebbe inizio la disastrosa Caporetto del maschio occidentale. Poi, certo, si sarebbe scatenata la necessaria artiglieria su contraccezione, aborto, violenza sulle donne, abbattimento di ogni figura e di ogni simbolo del patriarcato, ma la disfatta era già avvenuta e nessun uomo poteva dirsi superstite. D’improvviso infatti egli possedeva un corpo vecchio di duemila anni. Non gli sarebbe stato facile recuperare tanto distacco in poco tempo. Quel medesimo processo autoidentitario avrebbe dovuto affrontarlo anch’egli, ma con quale fatica...
Oltre quarant’anni dopo nulla si è ancora compiuto e tra il maschile e il femminile permangono troppe distanze, che né la cura né la cosmesi, né tanto meno la chirurgia potranno mai colmare. È, soprattutto, un problema di testa. Il corpo femminile suscita ammirazione per via dei suoi complessi meccanismi. Esso è decentrato in un’infinita rete di cunei, deviazioni e labirinti che esaltano la spazialità della sua superficie. Al contrario, il corpo maschile suscita naturale compassione per via del suo essere così concentrato in un sol punto e, come se non bastasse, vincolato a fattori di resistenza temporale.
Inutile sottolineare l’abisso che separa chi è semplicemente teso al piacere e chi è votato al desiderio. Tra chi è bisognoso e chi è curioso. Tra chi è destinato allo svuotamento e chi, assai più felicemente, all’accumulazione. Tra chi miseramente ogni volta precipita al grado zero del desiderio e chi è in grado di rimanere sempre al culmine dell’opera, ossia al livello 99 dell’eccitazione. Signori Maschi, c’è ancora un abisso, non neghiamolo. Ma allo stesso modo, Signore Femmine, non nascondetevi dietro a un dito, e cioè dietro all’evidenza che voi stesse siete candidamente incerte tra il bel destino di un uomo finalmente sensibile e autonomo (anche dal vostro potere) e il triste fato di un’eterna macchietta machista, che sotto sotto non disdegnate. C’è per fortuna operante un movimento culturale, ispirato ai “Groupes d’hommes” fine anni Novanta di Guy Corneau e di Patrick Guillot, che sta lavorando con intelligenza a una sintesi autocosciente del maschile. C’è anche in Italia, con i gruppi di “Maschile Plurale”. Sono per lo più gli stessi uomini che trent’anni fa amavano e parlavano con le donne in lotta, condividendo con loro sogni e necessità. Di ragazzi, purtroppo, nemmeno l’ombra. Come smaterializzati. La loro scomparsa era d’altronde il prezzo postumo che le giovani figlie delle eroine di quell’epoca avrebbero dovuto pagare. Noi invece ci siamo ancora, ma obiettivamente siamo un po’ fuori mercato.
Nel frattempo sono in uscita nelle sale italiane due film nord-americani che – com’è normale da quelle parti – presentano altrettanti personaggi assai contemporanei attraverso le figure di Juno e di Katye. La prima è protagonista del film omonimo firmato dal regista canadese Jason Reitman ed è una giovane adolescente incinta che, dopo un breve smarrimento, decide di donare il nascituro a una coppia sterile di amici: una sorta di manifesto sulla maternità responsabile in versione non aggressiva. La seconda si chiama Katye, è una nota attrice di soap-opera e nel film Interview fronteggia alla grande la spocchia di un giornalista di guerra che di malavoglia è stato incaricato di intervistarla: una specie di critica dell’eroismo testimoniale.
Non meno interessanti le novità editoriali, tra le quali spicca la traduzione in lingua italiana (Isbn edizioni) di Terror Dream, ultima fatica del Premio Pulitzer Susan Faludi. Com’è cattiva abitudine, il titolo è stato cambiato in peggio, eppure Il sesso del terrore (così è stato tradotto in italiano il film) risulterà per molti uomini difficilmente digeribile per via di una sua tesi dura come un macigno: che cioè l’11 settembre sia soprattutto servito per riproporre e per rivalutare categorie del tutto obsolete. L’autrice allude a quel penoso maschilismo di ritorno che è tornato ad affermarsi nella cultura e nella vita americane messe in pericolo dall’attacco terroristico. Come mai, si domanda Paludi, gli Stati Uniti hanno risposto a un’offensiva portata contro il nostro potere globale con il tentativo di restaurare certi valori della società tradizionale? Come mai il potere si è comportato come se non fossero stati attaccati degli obiettivi militari ma delle famiglie e degli asili? Perché da qualche anno gli americani si comportano come milioni di ridicoli John Wayne e di patetiche Doris Day? Domande assolutamente spiazzanti, alle quali la scrittrice risponde con ammirevole sicurezza.
Per lei è in atto una disperata strategia di riposizionamento da parte di una società maschile in crisi di identità. Insomma il difetto continua ad apparire il solito. L’uomo non riesce proprio a ritrovare un suo ruolo nel mondo, uno straccio di ruolo che sia vero, credibile.
A questi e ad altri problemi si ispirerà Come lo fanno le ragazze di Daniela Giordano (foto a sinistra), trasposizione teatrale dell’omonimo libro-inchiesta di Ilda Bartoloni sulla sessualità delle teenager, in cui la giornalista cerca in qualche modo di unire l’utile delle sue pregresse battaglie di liberazione con il dilettevole dell’ultima giovinezza, quella che io ad esempio non invidio per niente… Perché stavamo meglio noi, di gran lunga. E ciò può essere affermato non già perché ci si rifiuti di rendere il dovuto omaggio al volo liberatorio delle donne degli anni Sessanta, anzi la nostra ammirazione per quei movimenti di cui Bartoloni è testimone (e che in fondo sono andati raccogliendo i frutti di gruppi ancor più pionieri) è scontata, inevitabile. Il femminismo e, soprattutto, il postfemminismo hanno determinato, in tutto l’Occidente, veri passi in avanti ai diritti delle donne. Il fatto però innegabile è che proprio la generazione che negli anni Settanta aveva vent’anni ha potuto vivere un’esperienza profonda di dialettica sentimentale, uno scambio e un dialogo che oggi appaiono perduti e difficilmente ricucibili. Insieme all’urgenza di talune nozioni che all’epoca apparivano – giacché erano – imprescindibili, sembra essersi eclissato qualsiasi spiraglio di luce tra le due porte, ermeticamente chiuse, del maschile e del femminile.
Viviamo a tal punto il tempo dell’autismo sessuale che la “differenza sessuale” suona ormai una retorica da vuoto pneumatico. Al sol leggere Luce Irigaray (a destra) e Camille Paglia (in basso a sinistra) sembra siano trascorsi cento anni, poiché quel processo di identità del femminile è bell’e compiuto. Felicemente dovremmo dire, per quanto consta alle donne. Va infatti contestato il fatto che le battaglie del movimento femminista vengano ancora rilette in chiave polemologica. Questa non è altro che una fesseria che cela, paradossalmente, un successo assai più vasto. Non è un caso che il convegno di presentazione dello spettacolo di Ilda Bartoloni si intitolerà «La libertà del corpo femminile». Non lo è perché il percorso autoidentitario della donna degli anni Sessanta è avvenuto essenzialmente sulla sua stessa pelle e nel suo medesimo corpo.
È in pratica avvenuto che le care amiche si sono allora velocemente persuase di quanto più valesse per la loro liberazione la coscienza di possedere un corpo ennesimamente più ricco, più sensibile e più autonomo di quanto lo fosse quello dei loro cosiddetti “competitori”. Fu quella la madre di tutte le battaglie. E fu in quel frangente che ebbe inizio la disastrosa Caporetto del maschio occidentale. Poi, certo, si sarebbe scatenata la necessaria artiglieria su contraccezione, aborto, violenza sulle donne, abbattimento di ogni figura e di ogni simbolo del patriarcato, ma la disfatta era già avvenuta e nessun uomo poteva dirsi superstite. D’improvviso infatti egli possedeva un corpo vecchio di duemila anni. Non gli sarebbe stato facile recuperare tanto distacco in poco tempo. Quel medesimo processo autoidentitario avrebbe dovuto affrontarlo anch’egli, ma con quale fatica...
Oltre quarant’anni dopo nulla si è ancora compiuto e tra il maschile e il femminile permangono troppe distanze, che né la cura né la cosmesi, né tanto meno la chirurgia potranno mai colmare. È, soprattutto, un problema di testa. Il corpo femminile suscita ammirazione per via dei suoi complessi meccanismi. Esso è decentrato in un’infinita rete di cunei, deviazioni e labirinti che esaltano la spazialità della sua superficie. Al contrario, il corpo maschile suscita naturale compassione per via del suo essere così concentrato in un sol punto e, come se non bastasse, vincolato a fattori di resistenza temporale.
Inutile sottolineare l’abisso che separa chi è semplicemente teso al piacere e chi è votato al desiderio. Tra chi è bisognoso e chi è curioso. Tra chi è destinato allo svuotamento e chi, assai più felicemente, all’accumulazione. Tra chi miseramente ogni volta precipita al grado zero del desiderio e chi è in grado di rimanere sempre al culmine dell’opera, ossia al livello 99 dell’eccitazione. Signori Maschi, c’è ancora un abisso, non neghiamolo. Ma allo stesso modo, Signore Femmine, non nascondetevi dietro a un dito, e cioè dietro all’evidenza che voi stesse siete candidamente incerte tra il bel destino di un uomo finalmente sensibile e autonomo (anche dal vostro potere) e il triste fato di un’eterna macchietta machista, che sotto sotto non disdegnate. C’è per fortuna operante un movimento culturale, ispirato ai “Groupes d’hommes” fine anni Novanta di Guy Corneau e di Patrick Guillot, che sta lavorando con intelligenza a una sintesi autocosciente del maschile. C’è anche in Italia, con i gruppi di “Maschile Plurale”. Sono per lo più gli stessi uomini che trent’anni fa amavano e parlavano con le donne in lotta, condividendo con loro sogni e necessità. Di ragazzi, purtroppo, nemmeno l’ombra. Come smaterializzati. La loro scomparsa era d’altronde il prezzo postumo che le giovani figlie delle eroine di quell’epoca avrebbero dovuto pagare. Noi invece ci siamo ancora, ma obiettivamente siamo un po’ fuori mercato.
Giuliano Compagno ha pubblicato 16 volumi, tra saggistica, comica e narrativa, tra cui i romanzi Generazione zero, L'assente, Il sesso è una parola, Memoria di parte sino ai più recenti Critica della ragion pura e Siamo come negozi (Coniglio editore). Ha scritto per il teatro di Giancarlo Cauteruccio. Ha tradotto opere di Bataille, Beckett, Bullough, Jarry, Klossowski. Appartiene al Novecento. La sua richiesta di entrare nel Ventunesimo secolo è stata respinta. Non ha presentato ricorso.
1 commento:
Argomento spinoso e interessante, forse affrontato mettendo troppa carne al fuoco (ammirevole comunque l'intento).
Credo leggero il libro della Faludi, anche se mi sembra che 'sti americani ragionino in base a dei paradigmi che non sono i nostri, quindi mi munirò del dovuto beneficio d'inventario.
Alla fine l'articolo di Compagno mi sembra fin troppo ottimista, vicino a certe interpretazioni libertarie che vedono l'identità di categoria affermarsi attraverso l'individualismo e la possibilità di affermarsi nella società del capitale e del consumo. Insomma: nel 68 la categoria giovani si affermò in quanto soggetto che esprime dei bisogni, i bisogni ottengono delle risposte ecc. Questo garantirebbe le differenze, mettendo un po' in sordina la lotta di classe e dei sessi.
In realtà, come dissi qualche settimana fa a delle mie amiche femministe, rischiando di farmi odiare, all'interno della società capitalista la sinistrorsa lotta femminista si è ridotta alla conquista del potere all'interno dell'universo maschile e capitalista, senza modificarlo, semmai mettendo il maschio in crisi all'interno di tali paradigmi. D'altro canto, la donna non ha perso la sua "differenza" poiché si è entrati nella retorica della "mamma lavoratrice", garantita in entrambi i settori (o che pretende d'esserlo ecc).
Trovo quindi fuorviante il riferimento alla Irigaray e al femminismo differenzialista, che in sé non è affatto obsolescente. Proprio questo sottolinea invece la filosofa francese: la donna non è tuttora riuscita ad esprimere la propria differenza, sia dal punto di vista dei "diritti sul corpo" (maternità o no - alla faccia di Ferrara -, verginità o no - noto l'interesse delle femministe differenzialiste per il monacesimo e il misticismo medioevali), ma soprattutto per quanto riguarda l'espressione di un immaginario che possa convivere (nella differenza) con quello maschile.
Le femministe differenzialiste, al conrario di Camille Paglia, non sono interessate ai paradigmi della società consumista e capitalista, si distaccano "lacaniamente" da ciò che il maschio ha fondato.
La differenzialista Luisa Muraro, per esempio, nella sua radicalità, rifiutò anni addietro la proposta di diventare senatore in Parlamento. Non credo sia utile rappresentare le donne in una istituzione parlamentare, fondata dai maschi, disse più o meno. La donna auspicata dalle femministe differenzialiste deve ancora nascere, all'interno delle categorie filosofiche "Io/Tu", dell'amore come risposta alla competizione (alla faccia del sesso forte) e fuori da una cultura (consumista e capitalista) che compromnette di per sé i fondamenti dell'identità.
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