Dal Secolo d'Italia di giovedì 13 marzo 2008
Non è stato sottolineato da molti ma la colonna sonora dell’apertura della campagna elettorale del Pdl al Palalido di Milano non era certo casuale. La folla ha infatti ballato e si è riconosciuta nei successi della disco music degli anni Ottanta, a cominciare a Ymca, la canzone dei Village People che uscì nel ’78. E non a caso proprio trent’anni fa – il 13 marzo del ’78 – arrivava nelle sale cinematografiche italiane La febbre del sabato sera, il film cult firmato da John Badham e che lanciava nell’immaginario un attore fino ad allora sconosciuto, il ventitreenne John Travolta, insieme alla orecchiabilissima e glamour musica dei Bee Gees. Eppure, in quei giorni l’Italia era immersa nel tunnel della violenza e della nevrotizzazione ideologica, tutto era pesante e tragico. Il 7 gennaio di quell’anno a Roma c’era stata la strage di Acca Larenzia: due ragazzi di destra erano stati massacrati a colpi di mitraglietta e un altro era caduto sotto il fuoco di un capitano dei carabinieri che sparava ad altezza d’uomo. Un clima di violenza senza precedenti i cui strascichi colpiranno per almeno altri tre-quattro anni. Il 16 marzo, tre giorni dopo l’arrivo di quel film in Italia, si verificherà il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della sua scorta, una tragedia e si concluderà due mesi dopo con il barbaro assassinio dello statista cattolico. E attorno a tutto ciò un clima appesantito dall’intesa tra Dc e Pci per i governi di unità nazionale, dalla politica repressiva introdotta in nome della cosiddetta emergenza, dalla stessa situazione internazionale che stava registrando gli ultimi fuochi della guerra fredda…
Ecco, dentro questa atmosfera plumbea e pesante quel film si incuneava inaspettatamente aprendo un inatteso varco di libertà e di leggerezza. L’era delle discoteche – che si stavano sostituendo alle cantine e ai club degli anni Sessanta – era già iniziata anche in Italia da almeno un paio d’anni e già imperversavano i vari Barry White, Ritchie Family, Status Quo, Gloria Gaynor, Donna Summer e gli Abba. Ma il film di Badham colpì e influenzò l’immaginario perché nessuno fino ad allora aveva mai pensato alle discoteche come ai nuovi luoghi agonistici in cui si gareggia, in cui si primeggia, dove l’estetica prevale sull’ideologia, in cui si va vestiti bene, con giacca e pantalone bianco in lino, si beve, ci si conosce, ci si diverte.
Lo ha riconosciuto un sociologo attento alle trasformazioni giovanili quali Sabino Acquaviva: «La febbre del sabato sera diede vita in Italia a una profonda rivoluzione nel costume il cui ricordo, da molti punti di vista, resterà indelebile. Con quel film iniziò un radicale mutamento nei gusti di molti giovani che avrebbe appunto lasciato un segno consistente anche dal punto di vista politico. Sembrò anche cancellare un antico tipo di impegno sociale e un certo tipo di coerenza ideologica…». In effetti, a dispetto della schematica sceneggiatura, basata su un reportage statunitense dedicato alla doppia vita dei frequentatori delle discoteche comparso sul New York Magazine e firmato da Nick Cohn, quella pellicola ebbe la capacità di fornire un’autorappresentazione alla maggior parte dei ragazzi che sul finire degli anni Settanta stavano abbandonando i miti dell’ideologia e la mitizzazione fuori tempo e fuori contesto delle tragiche rivoluzioni proto-novecentesche.
Al centro della vicenda due ragazzi normali: l’italo-americano Tony Manero, interpretato da Travolta, e Annette, interpretata da Donna Pescow. E il film descrive la metamorfosi di Tony da commesso di vernici a re della discoteca. Doppiato in Italia da Flavio Bucci, Manero-Travolta era un personaggio davvero nuovo: non il figlio di genitori borghesi che va nei locali per conquistare la ragazzina di turno, ma l’operaio postmoderno che vive una realtà lavorativa e familiare non proprio esaltante e che trova nella discoteca, nel ballo e nel look, un modo per proiettarsi altrove, per dare espressione alla sua individualità. E il “travoltismo” si diffuse – come stava avvenendo in tutto il mondo – anche da noi. Davvero pochi personaggi del cinema hanno avuto imitatori come il Tony Manero del sabato sera. Insomma, per dirla con Giampiero Mughini, «l’Italia voleva tornare a ridere, a far tardi la sera, a godersi l’insostenibile leggerezza dell’essere. Tutti volevano dimenticare i giorni lividi dell’orrore, tutti volevano prendere quel che c’era e prenderlo subito e ne volevano tanto. Tutti volevano indossare delle belle giacche…».
Una sensazione che era rafforzata anche dal contemporaneo successo televisivo della serie Happy Days, con un personaggio come Fonzie per molti versi assimilabile a Tony Manero, e dal clamoroso successo della stessa colonna sonora di Saturday Night Fever. Del resto quella musicale fu un’altra rivoluzione silenziosa avviata dal film: si rompeva con lo stile sola-chitarra dei cantautori cosiddetti impegnati e un certo gusto glamour prendeva piede anche tra i ragazzi italiani. Quel gruppo musicale, i Bee Gees, che già aveva mietuto grandi successi (My word, Massachussets, Run to Me…) lanciava il nuovo genere ballabile e soft. E quelle canzoni conquistarono nel corso dell’anno le hit parade di tutto il mondo: Night Fever è ancora oggi un pezzo gettonatissimo in tutte le discoteche.
Sull’impatto politico del film ha scritto anche Gaetano Cappelli, uno dei più brillanti romanzieri italiani, collegandolo alla sua maturazione dall’ala creativa e libertaria del ’77 al superamento dell’ideologia sinistrese. Nel suo romanzo Il primo (Marsilio) descrive un ragazzo di sinistra “in crisi” proprio nel mezzo del ’78: «Era un ragazzo appassionato di musica, ogni tipo di musica: ma la sua vera passione, da tener nascosta nell’ambiente in cui vivevamo, era, da qualche tempo, la disco music… Era infatti uno dei tanti la cui fede politica aveva superato la grande, sofferta crisi del movimento degli studenti per poi, però, sbriciolarsi all’uscita, nello stesso anno, de La febbre del sabato sera. Quel film – annota Cappelli – fu, per molti, un’autentica rivelazione e Tony Manero, il magazziniere ribelle senza causa che trova nell’esibizione sulla pista l’unico possibile riscatto dallo squallore della quotidianità, un nuovo eroe da emulare come dimostrava la riapertura e il moltiplicarsi delle discoteche abbandonate per un intero decennio».
Inevitabile, in tutto questo fermento, il collocare a destra il fenomeno travoltismo. I quotidiani e i settimanali cominciano a parlare dei “travoltini”, quasi una nuova incarnazione dei pariolini o dei vomerini di qualche anni prima o una prefigurazione dei paninari della seconda metà degli Ottanta. Sarà frequente tra il ’78 e l’80 vedere ragazzi vestiti come Travolta anche nei comizi di Almirante o in tanti sabato pomeriggio normali della provincia italiana. Ed era il sintomo di una tendenza profonda: tanti giovani stavano scoprendo che le differenze di classe stavano perdendo qualsiasi rilevanza politica e sociale e che si stava lentamente affermando una realtà all’insegna delle persone, dei rapporti individuali, dell’estetica.
Più che l’ideologia contavano i linguaggi, il modo di esprimersi e di vestirsi, la stessa voglia di divertirsi… «Quella “febbre” – racconta per tutti Gimmi Fragalà, in quegli anni tra i travoltini di Napoli, sempre in discoteca con la musica di Umberto Tozzi e dei Bee Gees – ci contagiò…Sentivamo che qualcosa stava cambiando mentre si chiudeva il decennio di piombo…». Dei “travoltini” si occupò un anno dopo Maria Luisa Agnese su Panorama, dedicando al fenomeno un ampio servizio intitolato «Freud, Evola e Travolta». Al centro dell’inchiesta l’identikit dei nuovi giovani di destra che, veniva sottolineato, andavano matti «per la musica pop, il cinema e la fantascienza». Un’immagine inedita e sorprendente che – annotava la Agnese – «sconvolge del tutto l’immagine tradizionale e stereotipata del giovane fascista». Qualcuno, come lo studioso di sinistra, Pasquale Alferj si diceva allarmato e parlava addirittura del «tentativo, sottile e ambizioso, di ricucire una vera e propria egemonia culturale, riprendendo, da destra, il concetto gramsciano di egemonia». Francesco Berardi Bifo (a sinistra) si spingeva oltre denunciando che il fenomeno «attraversa e contagia una cultura più ampia». E il suo j’accuse si ritorceva contro la sinistra colpevole, a suo dire, «di aver perso quella funzione di guida che aveva mantenuto fino agli inizi degli anni Settanta, riuscendo a imporre, fra i giovani, i suoi miti, da Mao a Bob Dylan. Oggi – concludeva, affranto, Bifo – i nuovi miti sono invece papa Wojtyla, Superman e Travolta».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Ecco, dentro questa atmosfera plumbea e pesante quel film si incuneava inaspettatamente aprendo un inatteso varco di libertà e di leggerezza. L’era delle discoteche – che si stavano sostituendo alle cantine e ai club degli anni Sessanta – era già iniziata anche in Italia da almeno un paio d’anni e già imperversavano i vari Barry White, Ritchie Family, Status Quo, Gloria Gaynor, Donna Summer e gli Abba. Ma il film di Badham colpì e influenzò l’immaginario perché nessuno fino ad allora aveva mai pensato alle discoteche come ai nuovi luoghi agonistici in cui si gareggia, in cui si primeggia, dove l’estetica prevale sull’ideologia, in cui si va vestiti bene, con giacca e pantalone bianco in lino, si beve, ci si conosce, ci si diverte.
Lo ha riconosciuto un sociologo attento alle trasformazioni giovanili quali Sabino Acquaviva: «La febbre del sabato sera diede vita in Italia a una profonda rivoluzione nel costume il cui ricordo, da molti punti di vista, resterà indelebile. Con quel film iniziò un radicale mutamento nei gusti di molti giovani che avrebbe appunto lasciato un segno consistente anche dal punto di vista politico. Sembrò anche cancellare un antico tipo di impegno sociale e un certo tipo di coerenza ideologica…». In effetti, a dispetto della schematica sceneggiatura, basata su un reportage statunitense dedicato alla doppia vita dei frequentatori delle discoteche comparso sul New York Magazine e firmato da Nick Cohn, quella pellicola ebbe la capacità di fornire un’autorappresentazione alla maggior parte dei ragazzi che sul finire degli anni Settanta stavano abbandonando i miti dell’ideologia e la mitizzazione fuori tempo e fuori contesto delle tragiche rivoluzioni proto-novecentesche.
Al centro della vicenda due ragazzi normali: l’italo-americano Tony Manero, interpretato da Travolta, e Annette, interpretata da Donna Pescow. E il film descrive la metamorfosi di Tony da commesso di vernici a re della discoteca. Doppiato in Italia da Flavio Bucci, Manero-Travolta era un personaggio davvero nuovo: non il figlio di genitori borghesi che va nei locali per conquistare la ragazzina di turno, ma l’operaio postmoderno che vive una realtà lavorativa e familiare non proprio esaltante e che trova nella discoteca, nel ballo e nel look, un modo per proiettarsi altrove, per dare espressione alla sua individualità. E il “travoltismo” si diffuse – come stava avvenendo in tutto il mondo – anche da noi. Davvero pochi personaggi del cinema hanno avuto imitatori come il Tony Manero del sabato sera. Insomma, per dirla con Giampiero Mughini, «l’Italia voleva tornare a ridere, a far tardi la sera, a godersi l’insostenibile leggerezza dell’essere. Tutti volevano dimenticare i giorni lividi dell’orrore, tutti volevano prendere quel che c’era e prenderlo subito e ne volevano tanto. Tutti volevano indossare delle belle giacche…».
Una sensazione che era rafforzata anche dal contemporaneo successo televisivo della serie Happy Days, con un personaggio come Fonzie per molti versi assimilabile a Tony Manero, e dal clamoroso successo della stessa colonna sonora di Saturday Night Fever. Del resto quella musicale fu un’altra rivoluzione silenziosa avviata dal film: si rompeva con lo stile sola-chitarra dei cantautori cosiddetti impegnati e un certo gusto glamour prendeva piede anche tra i ragazzi italiani. Quel gruppo musicale, i Bee Gees, che già aveva mietuto grandi successi (My word, Massachussets, Run to Me…) lanciava il nuovo genere ballabile e soft. E quelle canzoni conquistarono nel corso dell’anno le hit parade di tutto il mondo: Night Fever è ancora oggi un pezzo gettonatissimo in tutte le discoteche.
Sull’impatto politico del film ha scritto anche Gaetano Cappelli, uno dei più brillanti romanzieri italiani, collegandolo alla sua maturazione dall’ala creativa e libertaria del ’77 al superamento dell’ideologia sinistrese. Nel suo romanzo Il primo (Marsilio) descrive un ragazzo di sinistra “in crisi” proprio nel mezzo del ’78: «Era un ragazzo appassionato di musica, ogni tipo di musica: ma la sua vera passione, da tener nascosta nell’ambiente in cui vivevamo, era, da qualche tempo, la disco music… Era infatti uno dei tanti la cui fede politica aveva superato la grande, sofferta crisi del movimento degli studenti per poi, però, sbriciolarsi all’uscita, nello stesso anno, de La febbre del sabato sera. Quel film – annota Cappelli – fu, per molti, un’autentica rivelazione e Tony Manero, il magazziniere ribelle senza causa che trova nell’esibizione sulla pista l’unico possibile riscatto dallo squallore della quotidianità, un nuovo eroe da emulare come dimostrava la riapertura e il moltiplicarsi delle discoteche abbandonate per un intero decennio».
Inevitabile, in tutto questo fermento, il collocare a destra il fenomeno travoltismo. I quotidiani e i settimanali cominciano a parlare dei “travoltini”, quasi una nuova incarnazione dei pariolini o dei vomerini di qualche anni prima o una prefigurazione dei paninari della seconda metà degli Ottanta. Sarà frequente tra il ’78 e l’80 vedere ragazzi vestiti come Travolta anche nei comizi di Almirante o in tanti sabato pomeriggio normali della provincia italiana. Ed era il sintomo di una tendenza profonda: tanti giovani stavano scoprendo che le differenze di classe stavano perdendo qualsiasi rilevanza politica e sociale e che si stava lentamente affermando una realtà all’insegna delle persone, dei rapporti individuali, dell’estetica.
Più che l’ideologia contavano i linguaggi, il modo di esprimersi e di vestirsi, la stessa voglia di divertirsi… «Quella “febbre” – racconta per tutti Gimmi Fragalà, in quegli anni tra i travoltini di Napoli, sempre in discoteca con la musica di Umberto Tozzi e dei Bee Gees – ci contagiò…Sentivamo che qualcosa stava cambiando mentre si chiudeva il decennio di piombo…». Dei “travoltini” si occupò un anno dopo Maria Luisa Agnese su Panorama, dedicando al fenomeno un ampio servizio intitolato «Freud, Evola e Travolta». Al centro dell’inchiesta l’identikit dei nuovi giovani di destra che, veniva sottolineato, andavano matti «per la musica pop, il cinema e la fantascienza». Un’immagine inedita e sorprendente che – annotava la Agnese – «sconvolge del tutto l’immagine tradizionale e stereotipata del giovane fascista». Qualcuno, come lo studioso di sinistra, Pasquale Alferj si diceva allarmato e parlava addirittura del «tentativo, sottile e ambizioso, di ricucire una vera e propria egemonia culturale, riprendendo, da destra, il concetto gramsciano di egemonia». Francesco Berardi Bifo (a sinistra) si spingeva oltre denunciando che il fenomeno «attraversa e contagia una cultura più ampia». E il suo j’accuse si ritorceva contro la sinistra colpevole, a suo dire, «di aver perso quella funzione di guida che aveva mantenuto fino agli inizi degli anni Settanta, riuscendo a imporre, fra i giovani, i suoi miti, da Mao a Bob Dylan. Oggi – concludeva, affranto, Bifo – i nuovi miti sono invece papa Wojtyla, Superman e Travolta».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
Egr. Signor Roberto, mi complimento per la scelta dell'argomento e dell'articolo di stampa. Mi permetto di intervenire in questo blog per aggiungere qualche informazione sulla "febbre del sabato sera", nell'auspicio di fare cosa gradita e utile. Premetto che NYC è il luogo dove le discoteche moderne sono nate nei primi mesi del 1970, e che "Saturday night fever" è appunto ambientato nella Grande Mela. La trama del film, che molti in Italia considerano verosimile,
è stata ricavata da un articolo di stampa scritto dal giornalista musicale inglese Nik Cohn.
L'incarico di descrivere le notti disco gli fu dato nel 1976 dal New York Magazine. Ma, stranamente, non gli venne lasciato il tempo per visitare i locali di cui avrebbe dovuto parlare. Nik non sapeva nulla delle discoteche di New York, e così raccontò una realtà che conosceva bene, quella dei club dei mod inglesi (per la precisione londinesi). L'articolo si intitola "the tribal rites of the new Saturday night" e venne pubblicato il 7.6.1976. Si tratta
quindi di un caso unico nella storia della stampa USA : un importante periodico decise di
raccontare frottole ! Per noi italiani, purtoppo, leggere frottole sulla stampa è la regola
pressochè priva di eccezioni, ma invece questo non si verifica quasi mai negli USA, e men che
meno in modo intenzionale. Perchè ciò è accaduto a proposito delle febbri disco ? Le segnalo che
una possibile risposta a tale domanda, documentata e imparziale, è contenuta nel mio blog, che
si chiama satanhasthebestdiscodancetunes. Il blog è quasi tutto in inglese, ma la home page è tradotta in italiano. Cordiali saluti.
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