Dal Secolo d'Italia di martedì 18 marzo 2008
I fatti di questi giorni stanno lanciando da una parte all’altra dello scacchiere politico lo slogan «siamo tutti tibetani». Eppure, quello che il Dalai Lama chiama «genocidio culturale» viene da lontano e la sensibilizzazione dell’Occidente verso i diritti del popolo asiatico ha, almeno in Italia, tutta una sua storia. È vero: i Radicali di Pannella seguono da anni la lotta tibetana per i diritti umani. Nonostante ciò, ancora l’altro giorno, parlando nella sua conversazione quotidiano a Radio radicale, Marco Pannella commetteva comunque un lapsus pronunciando la parola “talebani” invece di “tibetani”. Cose che capitano, certo. Ma qualcosa di non troppo coincidente deve comunque esserci tra un popolo organizzato teocraticamente e la visione politica dei radicali. Come dimenticarsi, allora, di altri filoni di solidarietà col popolo tibetano? Come dimenticarsi, ad esempio, che la fascinazione per il paese dei monaci buddhisti ha, nella nostra cultura nazionale, la fima di Giuseppe Tucci, il più grande esploratore italiano del Novecento?
Suoi quei libri – A Lhasa e oltre o Santi e briganti del Tibet ignoto – che ci hanno fatto conoscere la terra del Dalai Lama. «Prodigioso viaggiatore e infaticabile esploratore», lo definì un altro grande del secolo scorso, lo storico delle religioni Mircea Eliade. È intorno al 1928 la sua prima puntata esplorativa in Tibet, anticipazione delle vere e proprie missioni scientifiche seguenti. C’erano già stati i britannici che avevano messo su una loro legazione a Chedù, nel Tibet meridionale. E ci sarà anche Sette anni in Tibet, il libro scritto da Heinrich Harrer, l’austriaco campione di sci e alpinista, che nel ’39 realizza il suo sogno di andare nell’Himalaya; e che, essendo poi scoppiata la guerra, sarà costretto a soggiornare lì, appunto. Per sette anni. Ma a diventario leggendario in tutta l’Asia sarà l’taliano Tucci, è lui che ha fatto conoscere meglio al mondo, con le sue edizioni critiche e le traduzioni originali il complesso mondo tibetano. Lo studioso marchigiano amava talmente il Paese delle nevi, dove tra il ’28 e il ’48 compì ben otto spedizioni, che a 72 anni si ritirò a vivere a San Polo dei Cavalieri, un paesino laziale di montagna che gli ricordava in qualche modo il Tibet. Scrisse ne La via dello Swat: «Il Tibet è stato il più grande amore della mia vita, e lo è tuttora. In otto viaggi, ne ho percorso gran parte in lungo e in largo, ho vissuto nei villaggi e nei monasteri, mi sono genuflesso dinanzi a maestri e immagini sacre». Lo studioso ed esploratore, combattente nella Grande Guerra, nel ’29 fu nominato accademico d’Italia e nel ’33 fondò insieme a Giovanni Gentile l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (l’IsMeo), con lo scopo principale di sviluppare le relazioni culturali tra l’Italia e i paesi asiatici.
L’Istituto Luce ha riprodotto il video della spedizione tibetana di Tucci del 1933 dove si vede anche l’alzabandiera della spedizione italiana sulle note di Giovinezza. E dove è possibile vedere le immagini – per la prima volta – del popolo delle nevi nella sua quotidianità. Successivamente Tucci – nel 1948 – riuscì a visitare la capitale Lhasa, nel Tibet centrale. Prima di lui diversi altri occidentali c’erano andati ma egli fu comunque uno di quelli che la fece conoscere al mondo e, sicuramente, quello che ne riportò più tesori: basti pensare solo alle preziose raccolte di testi sacri del buddhismo. Che probabilmente gli erano stati dati direttamente dal XIV Dalai Lama, allora un bambino di solo tredici anni, affinché li salvasse portandoli con sé, perché i cinesi erano già ai confini del Tibet e premevano da anni per entrare. Cosa che poi avvenne, nel 1951, con l’annessione e l’invasione e, soprattutto durante la rivoluzione culturale maoista degli anni ’66-76, con la distruzione dei monasteri e del templi.
Venendo alla mobilitazione dell’opinione pubblica occidentale – sia dopo l’invasione che negli anni della distruzione dei monasteri – balza inoltre in evidenza l’attivismo di una intellettuale italiana come Cristina Campo, la cui visione tradizionalista fu sempre molto apprezzata negli ambienti più colti della destra. Tutte le tragedie politiche, fossero esse macroscopiche come la distruzione di una civiltà, oppure più silenziose come l’indigenza cronica di un clochard, nascevano secondo la Campo dall’oblio dell’ordine eterno del mondo, della dimensione soprannaturale che fonda l’esistenza storica di persone e popoli. E alla luce di questo assioma la scrittrice e poetessa fiorentina si mobilitò contemporaneamente tanto nell’attività a favore della preservazione della liturgia cattolica preconciliare quanto nell’aiuto ai profughi ungheresi fuggiti da Budapest invasa dai carri armati del Patto di Varsavia, ma anche attraverso l’attenzione nei confronti del Tibet invaso e distrutto dall’esercito cinese. A sostegno della libertà del Tibet scrisse lettere e interventi e, successivamente, si adoperò – firmandone l’accorata introduzione – per far pubblicare dalle edizioni Borla – dirette in quella fase da un altro intellettuale di destra come Alfredo Cattabiani – il libro Nato nel Tibet di Chogyam Trungpa (immagine a destra), un maestro di meditazione fuggito dal Tibet in seguito all’invasione militare cinese del 1949. Quel libro fu importantissimo ed ebbe il vero merito di far conoscere al lettore medio occidentale l’esistenza della battaglia del popolo tibetano per la libertà. E apparve, come dicevamo, in una collana dalla chiara connotazione destrorsa, diretta da due figure come Augusto Del Noce ed Elémire Zolla, proprio grazie alle pressioni di Cristina Campo. Per la scrittrice battersi per la libertà del Tibet equivaleva a difendersi dalla massificazione che stava colpendo anche l’Occidente. «Il mondo del dopoguerra – ha scritto la sua biografa Cristina De Stefano – era per lei un pianeta inabitabile, dove ogni gesto è intercambiabile e quindi ormai privo di senso». Cosa direbbero, se ci fossero ancora, la Campo e Tucci davanti alla tragedia che sta colpendo il Tibet in questi giorni?
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Suoi quei libri – A Lhasa e oltre o Santi e briganti del Tibet ignoto – che ci hanno fatto conoscere la terra del Dalai Lama. «Prodigioso viaggiatore e infaticabile esploratore», lo definì un altro grande del secolo scorso, lo storico delle religioni Mircea Eliade. È intorno al 1928 la sua prima puntata esplorativa in Tibet, anticipazione delle vere e proprie missioni scientifiche seguenti. C’erano già stati i britannici che avevano messo su una loro legazione a Chedù, nel Tibet meridionale. E ci sarà anche Sette anni in Tibet, il libro scritto da Heinrich Harrer, l’austriaco campione di sci e alpinista, che nel ’39 realizza il suo sogno di andare nell’Himalaya; e che, essendo poi scoppiata la guerra, sarà costretto a soggiornare lì, appunto. Per sette anni. Ma a diventario leggendario in tutta l’Asia sarà l’taliano Tucci, è lui che ha fatto conoscere meglio al mondo, con le sue edizioni critiche e le traduzioni originali il complesso mondo tibetano. Lo studioso marchigiano amava talmente il Paese delle nevi, dove tra il ’28 e il ’48 compì ben otto spedizioni, che a 72 anni si ritirò a vivere a San Polo dei Cavalieri, un paesino laziale di montagna che gli ricordava in qualche modo il Tibet. Scrisse ne La via dello Swat: «Il Tibet è stato il più grande amore della mia vita, e lo è tuttora. In otto viaggi, ne ho percorso gran parte in lungo e in largo, ho vissuto nei villaggi e nei monasteri, mi sono genuflesso dinanzi a maestri e immagini sacre». Lo studioso ed esploratore, combattente nella Grande Guerra, nel ’29 fu nominato accademico d’Italia e nel ’33 fondò insieme a Giovanni Gentile l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (l’IsMeo), con lo scopo principale di sviluppare le relazioni culturali tra l’Italia e i paesi asiatici.
L’Istituto Luce ha riprodotto il video della spedizione tibetana di Tucci del 1933 dove si vede anche l’alzabandiera della spedizione italiana sulle note di Giovinezza. E dove è possibile vedere le immagini – per la prima volta – del popolo delle nevi nella sua quotidianità. Successivamente Tucci – nel 1948 – riuscì a visitare la capitale Lhasa, nel Tibet centrale. Prima di lui diversi altri occidentali c’erano andati ma egli fu comunque uno di quelli che la fece conoscere al mondo e, sicuramente, quello che ne riportò più tesori: basti pensare solo alle preziose raccolte di testi sacri del buddhismo. Che probabilmente gli erano stati dati direttamente dal XIV Dalai Lama, allora un bambino di solo tredici anni, affinché li salvasse portandoli con sé, perché i cinesi erano già ai confini del Tibet e premevano da anni per entrare. Cosa che poi avvenne, nel 1951, con l’annessione e l’invasione e, soprattutto durante la rivoluzione culturale maoista degli anni ’66-76, con la distruzione dei monasteri e del templi.
Venendo alla mobilitazione dell’opinione pubblica occidentale – sia dopo l’invasione che negli anni della distruzione dei monasteri – balza inoltre in evidenza l’attivismo di una intellettuale italiana come Cristina Campo, la cui visione tradizionalista fu sempre molto apprezzata negli ambienti più colti della destra. Tutte le tragedie politiche, fossero esse macroscopiche come la distruzione di una civiltà, oppure più silenziose come l’indigenza cronica di un clochard, nascevano secondo la Campo dall’oblio dell’ordine eterno del mondo, della dimensione soprannaturale che fonda l’esistenza storica di persone e popoli. E alla luce di questo assioma la scrittrice e poetessa fiorentina si mobilitò contemporaneamente tanto nell’attività a favore della preservazione della liturgia cattolica preconciliare quanto nell’aiuto ai profughi ungheresi fuggiti da Budapest invasa dai carri armati del Patto di Varsavia, ma anche attraverso l’attenzione nei confronti del Tibet invaso e distrutto dall’esercito cinese. A sostegno della libertà del Tibet scrisse lettere e interventi e, successivamente, si adoperò – firmandone l’accorata introduzione – per far pubblicare dalle edizioni Borla – dirette in quella fase da un altro intellettuale di destra come Alfredo Cattabiani – il libro Nato nel Tibet di Chogyam Trungpa (immagine a destra), un maestro di meditazione fuggito dal Tibet in seguito all’invasione militare cinese del 1949. Quel libro fu importantissimo ed ebbe il vero merito di far conoscere al lettore medio occidentale l’esistenza della battaglia del popolo tibetano per la libertà. E apparve, come dicevamo, in una collana dalla chiara connotazione destrorsa, diretta da due figure come Augusto Del Noce ed Elémire Zolla, proprio grazie alle pressioni di Cristina Campo. Per la scrittrice battersi per la libertà del Tibet equivaleva a difendersi dalla massificazione che stava colpendo anche l’Occidente. «Il mondo del dopoguerra – ha scritto la sua biografa Cristina De Stefano – era per lei un pianeta inabitabile, dove ogni gesto è intercambiabile e quindi ormai privo di senso». Cosa direbbero, se ci fossero ancora, la Campo e Tucci davanti alla tragedia che sta colpendo il Tibet in questi giorni?
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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