Dal Secolo d'Italia di venerdì 28 marzo 2008
Il cinema è affascinante. Come nessun’altra arte sa rinnovarsi e offrire nuovo spunti di interesse, nel suo caso specifico non soltanto registi che si affermano, ma volti che sono nuovi o comunque passati attraverso quel filtro, un po’ crudele, che è il successo. Non seguo d’abitudine la “notte degli Oscar”, anche per via dell’orario inumano con cui arriva sulle nostre tv. L'ultima distribuzione di Oscar è stata però particolarmente interessante. La mattina dopo, mio figlio, che insonne l’aveva seguita, mi ha detto «come sono cattivi». «Chi?» gli ho chiesto. «Tutti». Risposta lacunosa per quanto rispecchiante la proverbiale laconicità filiale. Col passare dei giorni, o meglio delle serate dedicate al cinematografo vicino casa, un rito che tiene unita una famiglia altrimenti dispersa, ho capito meglio. Mio figlio ha messo in lista, oltre a Tweeny Todd, la storia di un barbiere ottocentesco dal quale mi guarderei bene di farmi tagliare anche un solo pelo della mia barba, Non è un paese per vecchi, premiato con quattro Oscar. E qui devo tornare a quanto dicevo in apertura. Il volto nuovo. Javier Bardem spaventa al primo istante del suo apparire sullo schermo. Interpreta l’oscuro personaggio di Anton Chigurh, nome che nella sua difficile, anzi problematica grafia (sfido chiunque non abbia visto come me l’edizione in lingua originale, per fortuna qui in Finlandia nessun film viene doppiato, e la voce di Bardem è straordinaria, a sapere come si pronuncia) è di per sé l’estrinsecazione, l’esemplificazione di questo killer che uccide preferibilmente come si fa con gli animali da macello. E forse bisognerebbe iniziare proprio dal nome per capire il senso del personaggio così magistralmente interpretato da Bardem. Del film si è molto parlato e quindi non sarà necessario ripeterne la trama. In sintesi si tratta del rincorrersi tra tre personaggi, il cacciatore Llewelyn Moss (interpretato da Josh Brolin), lo sceriffo Bell (Tommy Lee Jones) e il cattivo, appunto Chigurh. A dire il vero non è che i primi due siano i buoni tout court, e uno dei pregi del film dei fratelli Ethan e Joel Cohen è proprio quello di sfuggire alla dicotomia buono/cattivo. La dannazione di Llewelyn, riuscito a sfuggire a Chigurh ma finito a fucilate dai dealers di droga messicani, è il denaro, da lui trovato per caso nel deserto a confine tra Texas e Messico. Llewelyn non è un criminale, ma quella borsa piena di dollari, abbandonata vicino a un mercante di droga dissanguato dalle ferite riportate nello scontro con i concorrenti, è una tentazione troppo forte. Che alla fine lo perderà. Lo stesso denaro, segnato da un rilevatore che ne indica costantemente la posizione, semina una lunga scia di morti, cattivi, come l’altro killer (Woody Harrelson) mossosi alla sua ricerca, e buoni come Carla Jean, la donna di Llewelyn.
Il film si basa sul bel romanzo di Cormac McCarthy, nato nel 1933, uno dei più grandi scrittori americani del nostro tempo, che vive, in assoluto ritiro e spregio del prossimo, nella sua casa di El
Paso. Un nome che riporta immediatamente alla mente il filone western. Indubbiamente potremmo, in quei paesaggi così familiari al cinema dell’epopea del West, cambiare i panni indossati dai personaggi e la storia ci apparirebbe altrettanto credibile con le sue colt, i winchester e lo sceriffo buono. Ma è una tentazione che dobbiamo evitare. McCarthy, e con lui i fratelli Cohen che fanno un film molto fedele al romanzo, in realtà non guarda indietro, ma al tempo presente e al tempo futuro. Se è vero che «non è un paese per vecchi» è un verso dell’irlandese William B. Yeats, è anche vero che esso si pone come un epigramma su questo due opere, letteraria e cinematografica, per indicare il futuro della società che sarebbe troppo limitante definire “americana”, ma che è “occidentale”, anzi forse oltre di essa, “universale”. Il “vecchio”, cioè le virtù di cui parla lo sceriffo Bell con i suoi colleghi, non tornerà più. Al suo posto avremo quella valigia nera piena di soldi, che ci segue col ticchettio del suo rivelatore. A quel denaro è legata la Morte. E Chigurh ne è l’Angelo sterminatore. Impossibile sfuggirgli, prima o poi comparirà. Un rapporto questo, tra la vita e la morte, che si snoda lungo le strade del Texas e del Messico. Qui sì troviamo dei frammenti di ricordi.
Il film si basa sul bel romanzo di Cormac McCarthy, nato nel 1933, uno dei più grandi scrittori americani del nostro tempo, che vive, in assoluto ritiro e spregio del prossimo, nella sua casa di El
Paso. Un nome che riporta immediatamente alla mente il filone western. Indubbiamente potremmo, in quei paesaggi così familiari al cinema dell’epopea del West, cambiare i panni indossati dai personaggi e la storia ci apparirebbe altrettanto credibile con le sue colt, i winchester e lo sceriffo buono. Ma è una tentazione che dobbiamo evitare. McCarthy, e con lui i fratelli Cohen che fanno un film molto fedele al romanzo, in realtà non guarda indietro, ma al tempo presente e al tempo futuro. Se è vero che «non è un paese per vecchi» è un verso dell’irlandese William B. Yeats, è anche vero che esso si pone come un epigramma su questo due opere, letteraria e cinematografica, per indicare il futuro della società che sarebbe troppo limitante definire “americana”, ma che è “occidentale”, anzi forse oltre di essa, “universale”. Il “vecchio”, cioè le virtù di cui parla lo sceriffo Bell con i suoi colleghi, non tornerà più. Al suo posto avremo quella valigia nera piena di soldi, che ci segue col ticchettio del suo rivelatore. A quel denaro è legata la Morte. E Chigurh ne è l’Angelo sterminatore. Impossibile sfuggirgli, prima o poi comparirà. Un rapporto questo, tra la vita e la morte, che si snoda lungo le strade del Texas e del Messico. Qui sì troviamo dei frammenti di ricordi.
Come scriveva giustamente Walter Vescovi sul Secolo, cogliamo l’eco del road movie, che poi è quella del romanzo on the road, quel fuggire dalla vita che aveva segnato i personaggi di Jack Kerouac e della generazione beat. Lo stesso stile di McCarthy, secco come quello di Ernst Hemingway, sembra essere uscito dagli anni Trenta. E quel forte condimento da tortilla messicana appartiene a John Steinbeck. Ma la storia è tutta della nostra epoca. Chigurh da Angelo sterminatore si fa, passo dopo passo, incarnazione del Male, ancora una volta legato a quei dollari. Una denuncia del capitalismo statunitense? Forse, ma forse molto di più. Mi veniva in mente, mutatis mutandis, il Sauron del Signore degli Anelli, che può essere sconfitto, ma non distrutto. Così, nell’episodio finale del film, quando il terribile killer resta coinvolto in un inaspettato incidente d’auto, si rialza, seppur ferito gravemente, e se ne va a piedi lungo una strada. Il Male per sempre on the road. Quando lo reincontreremo?
A questo pensavo per alcuni giorni, finché è venuto il seguente appuntamento con mio figlio. Questa volta stava a me decidere e ho optato per L’amore al tempo del colera. Il motivo è semplice: volevo rivedere Javier Bardem. Il film di Mike Newell, che tradisce troppo spesso la sua origine americana (ad esempio nella versione originale il dolce spagnolo della Colombia si trasforma in un anacronistico inglese con pronuncia spagnola) è tratto dal romanzo che Gabriel Garcìa Marquez scrisse nel 1985, cioè tre anni dopo aver conseguito il Nobel per la letteratura. È la storia di Florentino Areza e del suo straordinario amore per Fermina Daza (una bella ma un po’ svagata Giovanna Mezzogiorno). Una storia che attraversa la sua intera vita, dalla giovinezza alla vecchiaia. Florentino è una persona estremamente delicata. Lavora al telegrafo, ma la sua passione sono le parole. Ne sa scrivere di bellissime, per lui e per gli altri. E il delicato, dolce, armonioso Florentino ha il volto di Javier Bardem. È straordinario vederlo dopo averlo quasi odiato nel film dei Cohen. Javier/Florentino è diventato ora così umano, così genuinamente innamorato della vita, tanto da ricrearla di giorno in giorno, di anno in anno, addirittura nobilitando con la stupenda bellezza dell’atto d’amore perfino due vecchi, lui e Fermina, che finalmente si incontrano al termine di una lunga esistenza che li ha fatti sfiorire nei corpi. È un inno di straordinaria bellezza alla vita e alla bontà. Florentino infatti da giovane si era innamorato di Fermina Daza e aveva giurato a se stesso che non avrebbe amato nessun'altra e che la avrebbe attesa, fosse anche per tutta la sua umana esistenza. E così avviene. Fermina si sposa con un aristocratico medico, don Juvenal Urbino, restandone dopo molti anni vedova. E Florentino, che per ingannare l’attesa tiene un accurato elenco delle donne che ha posseduto, è arrivato a 622, finalmente potrà stringerla tra le sue braccia.
Ecco, il bene e la vita, distrutti a nord del Rio Grande, questo mitico confine tra le due Americhe, si ricompongono nella Cartagena de Indias di García Marquez. Una città adagiata pure su un fiume, il Magdalena, che le navi di Florentino, che le ha ereditate dallo zio e mentore, percorrono inoltrandosi nella foresta amazzonica. Ancora un viaggio, che però non è quello fluviale di Joseph Conrad di Cuore di tenebra, o di Aguirre di Werner Herzog (film del 1972), destinati all’incontro ineluttabile con la morte. Florentino fa svuotare delle sue merci la nave dove si trova in viaggio con Fermina, una specie di luna di miele di un matrimonio mai consumato. È il rifiuto del denaro; quella truce borsa nera che il Bardem/Chigurh aveva cercato a nord del Rio Grande, il Bardem/Florentino la getta via per calarsi tra le braccia della sua amata. Quando la settantenne Fermina si spoglia, ne vediamo il corpo raggrinzito, celato non con vergogna ma con la consapevolezza timida del tempo che passa. Non c’è scena erotica del cinema che superi questa nella sua immensa delicatezza. Come non c’è dialogo più spaventoso di quello che Chigurh instaura con il venditore di un negozio sperduto nel deserto di Sonora, dove il confine tra la vita e la morte passa da una moneta gettata in aria.
Tra il colombiano Florentino Areza e lo statunitense Anton Chigurh non possiamo che stare con il primo. Con lui la vita continua, con Chigurh finisce. E Florentino Areza lo ammiriamo, per via della sua costanza e della sua fede nella purezza dell’amore. E un po’ anche lo invidiamo. Per quelle 622 diversioni che questa fede hanno aiutato a conservare.
A questo pensavo per alcuni giorni, finché è venuto il seguente appuntamento con mio figlio. Questa volta stava a me decidere e ho optato per L’amore al tempo del colera. Il motivo è semplice: volevo rivedere Javier Bardem. Il film di Mike Newell, che tradisce troppo spesso la sua origine americana (ad esempio nella versione originale il dolce spagnolo della Colombia si trasforma in un anacronistico inglese con pronuncia spagnola) è tratto dal romanzo che Gabriel Garcìa Marquez scrisse nel 1985, cioè tre anni dopo aver conseguito il Nobel per la letteratura. È la storia di Florentino Areza e del suo straordinario amore per Fermina Daza (una bella ma un po’ svagata Giovanna Mezzogiorno). Una storia che attraversa la sua intera vita, dalla giovinezza alla vecchiaia. Florentino è una persona estremamente delicata. Lavora al telegrafo, ma la sua passione sono le parole. Ne sa scrivere di bellissime, per lui e per gli altri. E il delicato, dolce, armonioso Florentino ha il volto di Javier Bardem. È straordinario vederlo dopo averlo quasi odiato nel film dei Cohen. Javier/Florentino è diventato ora così umano, così genuinamente innamorato della vita, tanto da ricrearla di giorno in giorno, di anno in anno, addirittura nobilitando con la stupenda bellezza dell’atto d’amore perfino due vecchi, lui e Fermina, che finalmente si incontrano al termine di una lunga esistenza che li ha fatti sfiorire nei corpi. È un inno di straordinaria bellezza alla vita e alla bontà. Florentino infatti da giovane si era innamorato di Fermina Daza e aveva giurato a se stesso che non avrebbe amato nessun'altra e che la avrebbe attesa, fosse anche per tutta la sua umana esistenza. E così avviene. Fermina si sposa con un aristocratico medico, don Juvenal Urbino, restandone dopo molti anni vedova. E Florentino, che per ingannare l’attesa tiene un accurato elenco delle donne che ha posseduto, è arrivato a 622, finalmente potrà stringerla tra le sue braccia.
Ecco, il bene e la vita, distrutti a nord del Rio Grande, questo mitico confine tra le due Americhe, si ricompongono nella Cartagena de Indias di García Marquez. Una città adagiata pure su un fiume, il Magdalena, che le navi di Florentino, che le ha ereditate dallo zio e mentore, percorrono inoltrandosi nella foresta amazzonica. Ancora un viaggio, che però non è quello fluviale di Joseph Conrad di Cuore di tenebra, o di Aguirre di Werner Herzog (film del 1972), destinati all’incontro ineluttabile con la morte. Florentino fa svuotare delle sue merci la nave dove si trova in viaggio con Fermina, una specie di luna di miele di un matrimonio mai consumato. È il rifiuto del denaro; quella truce borsa nera che il Bardem/Chigurh aveva cercato a nord del Rio Grande, il Bardem/Florentino la getta via per calarsi tra le braccia della sua amata. Quando la settantenne Fermina si spoglia, ne vediamo il corpo raggrinzito, celato non con vergogna ma con la consapevolezza timida del tempo che passa. Non c’è scena erotica del cinema che superi questa nella sua immensa delicatezza. Come non c’è dialogo più spaventoso di quello che Chigurh instaura con il venditore di un negozio sperduto nel deserto di Sonora, dove il confine tra la vita e la morte passa da una moneta gettata in aria.
Tra il colombiano Florentino Areza e lo statunitense Anton Chigurh non possiamo che stare con il primo. Con lui la vita continua, con Chigurh finisce. E Florentino Areza lo ammiriamo, per via della sua costanza e della sua fede nella purezza dell’amore. E un po’ anche lo invidiamo. Per quelle 622 diversioni che questa fede hanno aiutato a conservare.
Luigi G. de Anna (3.8.1946), giornalista e scrittore, si è laureato in Lettere nel 1973 (Università di Firenze). Nel 1988 ha presentato la sua tesi di dottorato: "Conoscenza e immagine della Finlandia e del Settentrione nella cultura classico-medievale". Dal 1997 è professore di Lingua e cultura italiane presso l'Università di Turku, in Finlandia. Gran parte del suo lavoro di ricerca è incentrato sulle relazioni culturali tra Italia e Finlandia. A Turku, De Anna è stato fra i fondatori della Società di Lingua e cultura italiane che pubblica la rivista 'Settentrione'.
2 commenti:
Non ho visto questo film ma dalla recensione riportata mi sembra molto bello.
Giovanni
Neanche io l'ho visto, ma - soprattutto dopo aver letto l'articolo di de Anna - penso che lo vedrò presto.
Ciao Giovanni.
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