Ci sono quelli del “noi c’eravamo”. Formidabili quegli anni. Ci sono quelli che la pensano al contrario, perché da lì nacquero buona parte dei mali dell’Italia: gli anni di piombo, l’anti-meritocrazia, il relativismo etico. Libertario o liberticida? E a Valle Giulia c’erano i figli di papà descritti da Pasolini o c’erano sognatori turbolenti che voleva portare “la fantasia al potere”? Il ’68, a quarant’anni di distanza, continua a dividere politici, opinionisti ed intellettuali. Con qualche sorpresa. A destra come a sinistra. Se per Marcello Veneziani, editorialista di Libero e autore di vari saggi (l’ultimo è Rovesciare il ‘68. Pensieri contromano su quarant’anni di conformismo di massa), il Sessantotto ha creato «luoghi comuni e nuovi pregiudizi, codici ideologici, da rispettare implacabilmente per essere ammessi al proprio tempo», per Michele Brambilla, vicedirettore de il Giornale, invece, «se oggi è aumentata l’attenzione per i più deboli; se sono caduti certi ipocriti formalismi nei rapporti tra le persone; se il censo non è più il criterio unico per stabilire una gerarchia tra gli uomini; se i matrimoni sono meno “combinati” di un tempo; se ci si può permettere di porre in discussione la parola di chiunque detenga un potere costituito, tutto questo è anche merito del Sessantotto». Sulla sponda gauchiste la situazione non è dissimile. Su Liberazione si è sostenuto che «il ’68 fu all’origine del liberalismo», la qual cosa – per un quotidiano comunista – non è propriamente un complimento. A tale analisi ha fatto eco l’articolo di Michele Serra su Repubblica, chiuso con questa considerazione: «rileggetevi, se ne avete la pazienza, il breve elenco degli Happy Sixties che ho citato poco fa, e chiedetevi se quell’Ordine e quella Morale meritavano di convogliare ancora un paio di generazioni di italiani lungo i binari di quella censura, di quella disciplina nelle fabbriche-caserma, di quella sessuofobia, di quella fragile ipocrisia». Che gli schemi siano saltati lo dimostra anche l’uscita – quasi in contemporanea – di due numeri dedicati al ’68 da parte di riviste politicamente schierate su fronti opposti. Da un lato Micromega, voce della sinistra ultra-laica vicina al movimento dei “girotondi”, con uno speciale dal titolo Sessantotto: mito e realtà con articoli, tra gli altri, di Pancho Pardi, Dario Fo, don Andrea Gallo e Gad Lerner; dall’altro Charta Minuta, house organ della Fondazione Farefuturo che fa capo a Gianfranco Fini, che ha mandato in edicola la monografia Quel che resta del Sessantotto, con contributi di Giampiero Mughini, Franco Cardini e una sorprendente intervista a Francesco Guccini. Il cantautore modenese ha definito il suo ’68 un «proseguimento di una vicenda umana, non soltanto mia, ma di tutta quella generazione che veniva dagli anni Cinquanta, piena di desiderio, a volte inconscio, di cambiamento. Dunque prima che politico, direi che il '68 è stato un fatto propriamente umano». I suoi miti, rivela ancora l’autore de La locomotiva, non erano Marx e Marcuse (mai letti) ma Bob Dylan, Hemingway, l’America. Concetto identico a quello di Francesco Merlo, firma di punta di Repubblica, che – nel commentare un concerto romano della storica coppia Simon & Garfunkel – ha ricordato che «la ribellione non fu e non è quella robaccia di bandiere rosse che vi raccontano gli adulti di professione, i sociologi, i politologi, i ragazzi che si accanirono contro quelle istituzioni che, ora, da uomini, guidano; non fu materia preparatoria per il terrorismo, per la lotta di classe, porcheria omicida da Lotta Continua, da Potere Operaio, da Maotsetung-pensiero… Il Sessantotto di popolo, quello autentico e importante, quello di tutti, non cantava Bella Ciao ma The Boxer». E ancora: «Quei ragazzi non è vero che volevano fare la rivoluzione di stelle rosse e di falci e martelli, a Berkeley a Nanterre o a Valle Giulia. Non erano lì nei campus americani, nei collèges francesi, nei cortili delle nostre università per servire il popolo ma to look for America». Prese di posizione che magari faranno arricciare il naso a qualcuno, certo è, però, che – più che la scuola di Francoforte o i testi di Julius Evola – ciò che veramente colpì, trasversalmente, l’immaginario collettivo di un’intera generazione furono piuttosto le gambe scoperte di Twiggy nella Swinging London, l’epopea “on the road” della beat-generation, gli slogan della Sorbona, i dischi dei Beatles. Il Sessantotto, in definitiva, fu un fenomeno di costume: anti-ideologico ed anti-autoritario. Una rivolta nei confronti dell’eredità plumbea del dopoguerra, un desiderio di cambiamento radicale rispetto all’eredità dei padri, uno slancio forse ingenuo – ma certamente genuino – verso un futuro migliore.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, scrive per il quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. Ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).
martedì 8 aprile 2008
Per cercare l'America cantando "The boxer" (di Pierluigi Biondi)
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1 commento:
Complimenti!
Saluti, Sandro.
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