Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 25 maggio 2008
La longevità, com’è noto, non è la caratteristica più frequente nelle riviste. Non lo è soprattutto delle riviste politiche, più legate alla contingenza del momento, e in particolare non lo è stata nella prima repubblica per le riviste di una destra emarginata, priva di introiti pubblicitari e con alle spalle un partito intento talora più a vivere che a filosofare.
L’Italiano, rivista ora quindicinale ora mensile “di vita e cultura politica”, è stata una felice eccezione; e questo vuol dire molte cose. Vuol dire, in primo luogo, che il suo fondatore e direttore Pino Romualdi credeva nella cultura non come fiore all’occhiello, ma come sostanza dell’agire politico. Vuol dire che questo leader “realista e sognatore”, tanto per citare l’ossimoro con cui l’ha ricordato Riccardo Migliori nel volume collettivo La memoria della destra (Pantheon), seppe aggregare nei momenti migliori non una corrente ma un gruppo umano in grado di rinnovarsi oltre i limiti generazionali. E vuol dire pure che Romualdi, anche quando fu alla guida di una corrente (o di uno “spiffero”, come usava dire Almirante), fece sempre della sua rivista un punto di riferimento culturale, non settario.
Quando chi scrive, appena diciassettenne, comprò da Marco Tarchi – che ne curava la vendita a Firenze e ne sarebbe divenuto di lì a poco un assiduo collaboratore – il suo primo numero dell’Italiano, dedicato al centenario di Roma capitale, era il settembre del 1970 e la rivista era già al suo undicesimo anno di vita. Era nata alla fine degli anni Cinquanta; nella testata si dichiarava quindicinale, ma usciva con una per altro regolare cadenza mensile, in bei fascicoletti rilegati “con la costola”, del costo di 400 lire, con le pagine bianche, al centro, per gli articoli di maggior peso, le pagine delle rubriche, all’inizio e alla fine, di grammatura più sottile e di corpo più piccolo, le icastiche foto di copertina, accompagnate ora da un commento sardonico ora da uno slogan. Era stata questa la veste del primo Italiano, quello fondato da Leo Longanesi durante il ventennio; e, se significherebbe peccare di eccessiva generosità sostenere che la pur bella rivista di Romualdi potesse emulare la raffinatezza grafica del periodico cui s’ispirava, il fatto che il suo fondatore – già vicesegretario del Partito fascista repubblicano – si fosse richiamato alla rivista di Longanesi, che non aveva aderito alla Rsi e che durante il fascismo era stato accusato “di fronda”, è un indizio della sua liberalità intellettuale. Orgoglioso come pochi altri del suo passato, rievocato sulla rivista in alcuni memorabili articoli, Romualdi era capace come pochi altri di accettare il passato e le idee degli altri senza settarismi e di guardare al futuro senza paraocchi. Per rendersene conto basta ricordare i nomi di alcuni fra gli editorialisti, i commentatori, i collaboratori non occasionali di una rivista che negli anni Settanta, notoriamente non facili, era capace di attingere anche al di là di un semplice bacino partitico. Nei suoi anni migliori, che poi furono anche gli anni migliori del vecchio Msi, L’Italiano fu veramente la rivista di tutte le anime della destra, ultracattoliche e neopagane, guelfe e ghibelline, modernizzatrici e tradizionaliste, da Pino Rauti, rientrato nel Msi nel 1969, ad Armando Plebe a Julius Evola. Due pensatori così lontani per formazione e weltanshauung ma così vicini nel 1973 nel pubblicare sulle pagine della rivista un commosso ricordo del figlio del direttore, Adriano Romualdi, precocemente scomparso nell’estate del 1973.
Con l’arrivo degli “anta” non solo la vista ma anche la memoria diviene presbite; e oltre che presbite selettiva. Si tende a idealizzare il passato ed è lecito domandarsi se buona parte del fascino esercitato dall’“Italiano” su noi studenti liceali o universitari dei primi anni Settanta non fosse dovuto al fatto che i temi, i personaggi, gli eventi evocati su quelle pagine costituissero per noi un’assoluta novità. Per questo chi scrive, prima di affrontare questo articolo, si è sobbarcato il gradevole pensum di sfogliare oltre dieci annate della rivista di Longanesi, dal 1970 agli ultimi, più saltuari, fascicoli del decennio successivo, rileggendo alcuni degli articoli che più l’avevano colpito. E deve dire che la maggior parte di quelle pagine reggono egregiamente all’usura degli anni e anzi meriterebbero in molti casi di essere debitamente antologizzate.
Chi scrive non sarebbe chi è se non avesse letto a diciott’anni le splendide pagine di Adriano Romualdi sulle ultime ore dell’Europa, i geniali articoli con cui Franco Petronio ha insegnato a una generazione ad amare Céline e Pound, ma anche i nobili interventi di Fabio Lonciari in materia di politica estera e di difesa dell’italianità del litorale adriatico; i caustici “dialoghi di Platone” in cui Rutilio Sermonti demoliva molti idoli forieri di un politicamente corretto che ancora non si chiamava così; l’acutissima inchiesta curata nel 1971 da Alfredo Mantica sugli “enciclopedisti del XX secolo”; gli interventi sulla “dittatura occulta” dei media di un fratello maggiore, quale era per noi diciottenni Gianfranco de Turris; e naturalmente le limpide analisi del direttore, che costituirono, come del resto gli interventi del figlio Adriano, un provvidenziale vaccino contro ogni deriva terzomondista e terzaforzista in nome di una virile e realistica, ma non succube, solidarietà europea e occidentale.
Senza togliere nulla all’Italiano dei dodici anni prima – quello che nel 1950 patrocinava a Roma uno splendido convegno sul tema “L’Europa una fede un programma” il cui ospite d’onore era Ezra Pound – e neppure alla rivista degli anni Ottanta – l’organo “migliorista” in cui sarebbero maturate tante belle intelligenze della futura Alleanza nazionale – occorre riconoscere che il mensile di Romualdi conobbe il suo stato di grazia in quella prima metà degli anni Settanta in cui del resto lo stesso Msi conosceva il suo momento magico. Erano gli anni in cui uscivano tre settimanali schierati a destra – il Candido, il Borghese e Lo Specchio di Nelson Page, per tacere di Gente – in cui andavano in edicola numerose riviste di cultura, dalla Destra a Intervento, dalla Torre al Conciliatore, al Cavour, in cui la nascita della Rusconi di Alfredo Cattabiani faceva paventare alla sinistra il rischio di una “restaurazione culturale” e anche il gruppo rautiano dava vita a periodici qualificati, come Civiltà e ancor più forse Presenza di Pino Rauti.
Momenti belli e irripetibili, cui seguirono i plumbei anni della demonizzazione, dell’emarginazione, della persecuzione giudiziaria che non risparmiò alcuni giovani collaboratori della rivista, come il presidente del Fuan romano Gianluigi Indri. Tutto questo, tuttavia, non tolse nulla alla vitalità della rivista, così come la pur irrimediabile perdita di Adriano Romualdi fu, almeno in parte, compensata dalla cooptazione di molte giovani e giovanissime intelligenze, destinate ad avere un futuro nel mondo della politica, dell’università, del giornalismo: da Gennaro Malgieri a Marco Zacchera, che esordì nel febbraio 1973 ammonendo che «i partiti elettorali contano i voti, ma non contano», da Marco Tarchi al precocemente scomparso Alessandro Massobrio, da Luigi Filippi a Biagio Cacciola, da Piero Vassallo a Eugenio Sacco, da Maurizio Cabona a Stenio Solinas, che ancora minorenne si interrogava su «Kerouac uomo di destra». Né mancarono presenze fugaci ma significative, come quelle del vignettista francese Jack Marchal, che nel marzo-aprile 1977 suggeriva «Una interpretazione non conformista della musica pop», e di Carlo Terracciano, che esordiva nello stesso numero con una recensione di Barry Lyndon. Nomi che, insieme a quelli dei “fratelli maggiori” de Turris, Pierfrancesco Zarcone, Daniele Gaudenzi – curatore della godibilissima rubrica “Uomini, cose e fatti”, - Carlo Sburlati, Mario Bernardi Guardi, Luigi dal Ponte, Gabriella Chioma, facevano dell’arrivo della rivista in libreria o in edicola (era in vendita nei chioschi delle stazioni ferroviarie) un appuntamento importante.
Meno raffinato, forse, ma senz’altro più longevo dell’omonima rivista di Longanesi, L’Italiano di Romualdi assicurava così una continuità fra le generazioni fondata non sulle quote rosa o verdi o blu, ma sull’unica discriminante possibile: la competenza, le capacità, il coraggio. Merito di tanti giovani intelligenze che si bruciarono carriere universitarie per firmare sulle sue pagine, ma naturalmente anche e soprattutto di Pino Romualdi. L’uomo che veniva da lontano, ma che più di tutti, forse, fu capace di guardare oltre.
Enrico Nistri, giornalista dal 1980 e scrittore, ha collaborato e collabora con testate scientifiche come la Nuova rivista storica, Il pensiero politico, L’antologia Viesseux e quotidiani come Il giornale e il Secolo d’Italia. Ha pubblicato numerosi saggi, fra cui Eserciti e società nell’era moderna (D’anna), Le strade di Strapaese (Alba), Di castello in castello. L’aretino (I libri del Bargello). Con la Loggia de’ Lanzi ha pubblicato i volumi Anni trenta, I tre anni che sconvolsero la destra (e non solo) e, pur non sentendosi federalista, il libro-intervista con Riccardo Migliori Il federalismo della destra.
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