Mi sono innamorato di Daniel Pennac all’università. Prima di questo incontro fortuito guardavo i suoi libri in biblioteca che erano piccoli e in edizioni tascabili, e con il solito disgusto di chi si sente un grande intellettuale, dicevo che era meglio confrontarmi con il mattone di Céline (ancora non l’ho fatto!). Comunque tornando all’incontro era l’esame di lingua francese, e io che sono una sega in lingue avrei preferito non fare mai l’esame, ma obbligato, guardando nella bibliografia per sostenerlo scorsi “Comme un roman” proprio di Pennac. Ne rimasi sconvolto. Sconvolto da questo libro, tanto che mi sono imparato a memoria la pagina 72 dove si parla del poeta Georges Perros e del suo modo di insegnare: “Lui (Perros) arrivava il martedì mattina, con i capelli scompigliati dal vento e dal freddo, sulla suo moto azzurra arrugginita. Curvo, con addosso un cappotto da marinaio, e la pipa in bocca o in mano. Svuotava sulla cattedra una tracolla piena di libri. Ed era la vita”. Talmente sconvolto che contattai subito il mio ex professore di italiano, chiedendogli se lui aveva mai letto Pennac. Mi rispose che aveva dovuto smettere perché era stato colpito dalla “pennacchite”.
L’ultima fatica di Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennachioni, è “Diario di scuola” ed la storia autobiografica di un somaro, che si sente somaro e vive nel ghetto scolastico degli ultimi. Scolaro che poi ha insegnato per un quarto di secolo nelle banliue parigine (vivendoci anche), oltre a scrivere romanzi di grande successo. E’ un libro stranamente lungo per questo autore, che ci ha abituato a “una narrazione che gode senza vergogna delle gioie della lingua e del pensiero, che ama il sorriso ma non sente la necessità martellante della risata…un testo dove spesso la bocca e lo stomaco ridono, ma il cervello è al lavoro” (come è scritto nella postfazione di un suo libro in edizione italiana), che anche se non ha perso questa abitudine, distribuisce il tutto in 240 pagine di libro. Ma, anche se lungo e non continuo, è totalmente impregnato di una realtà vissuta. Mi è capitato di parlare con amici di quanto sia inutile il ruolo pedagogico che oggi ha la letteratura, e di quanto si sia persa la ricerca dello stile e del romanzo in sé, e questo libro di Pennac come quello citato in precedenza sono sicuramente pedagogici. Ma di una pedagogia vissuta e anche sofferta, senza troppi piagnistei. Se in “Come un romanzo” l’autore scrivendo una lista di dieci diritti del lettore, poneva come primo il diritto di non leggere, proprio a voler dire che la lettura non è un dogma e che non si è buone persone solo se si legge un libro, continua in “Diario di scuola” dicendo che era idiota il passato che considerava inutile leggere e che è appunto altrettanto idiota il presente che impone ai giovani la lettura ai libri, come rimedio allo sfracello della scuola e degli studenti. Ed è in questo sfracello che l’autore si inserisce, parlando prima della sua vita da studente, che ha visto anni ripetuti, colleggio e addirittura un anno di sforzi per imparare a 6 anni la lettera A. Parlando della sua vita da studente parla anche dei suoi professori: i più odiati e più derisi erano proprio quelli che dicevano “io non ci posso fare niente con questi qui!”, poiché non capivano che lo scontro con gli studenti è uno scontro tra sapere e non sapere, e che anche un professore anni addietro era colui che non sapeva (chi di noi non ci ha messo un anno per imparare una cosa?). Odia Pennac anche i programmi dove definiscono le banlieu fucine di delinquenti e di disoccupazione, poiché questa società di “Nonna Marketing” dimentica che è proprio questa identificazione a rendere impossibile il cambiamento dei somari. E continuando a parlare di professori, quelli che lo hanno salvato erano coloro che amavano la loro materia, che in quell’ora di lezione parlavano con amore solo della materia, e non si rassegnavano al ruolo auto-imposto alla nullafacenza per i somari. Questi professori proprio come il Perros dell’altro libro, non sono i professori amiconi del bar, ma sono coloro che non si bloccano al non-sapere, sono coloro che non si rassegano alla ricetta della gioventù allo sbaraglio (quale gioventù non lo è stata, per fortuna?)
E alla fine del libro, proprio continuando il suo attacco alla demagogia, Pennac dice la parola che “parlando di istruzione, ti linciano”: amore. Cita questa parola che è traboccante oggi in tutte le salse e in tutte le forme, ma che solo in termini di istruzione non viene mai nominata, poiché è sostituita dai registri, dalle valutazione, dal profitto, e dalla sensazione di non farcela mai. Amore che non significa una scuola a piedi scalzi, ma che significa amore per ciò che si insegna, e appunto la prospettiva che ogni studente possa farcela. Mi ricordo sempre il mio professore di italiano che parlava del fallimento di uno studente come del fallimento della scuola. E Pennac non nega che qualcuno si è perso, e non nega che se gli ex studenti non li riconoscessero per strada lui non si ricorderebbe nemmeno, non nega che tornato a casa il professore ha la sua vita e non solo i suoi studenti. Ma non gli si può negare che nella pagine di questo libro ci sia un non-ricetta ottima, per i malanni ormai divenuti ossessivi nella scuola. E almeno anche se non serve a niente, sai che bello avere tanti professori che ti fanno imparare le pagine di Kafka per poi fare sfida di memoria tra studenti. Avremmo perso il gusto di leggerlo da soli, e dire “Alla faccia dei programmi!” ma almeno avremmo iniziato prima!
L’ultima fatica di Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennachioni, è “Diario di scuola” ed la storia autobiografica di un somaro, che si sente somaro e vive nel ghetto scolastico degli ultimi. Scolaro che poi ha insegnato per un quarto di secolo nelle banliue parigine (vivendoci anche), oltre a scrivere romanzi di grande successo. E’ un libro stranamente lungo per questo autore, che ci ha abituato a “una narrazione che gode senza vergogna delle gioie della lingua e del pensiero, che ama il sorriso ma non sente la necessità martellante della risata…un testo dove spesso la bocca e lo stomaco ridono, ma il cervello è al lavoro” (come è scritto nella postfazione di un suo libro in edizione italiana), che anche se non ha perso questa abitudine, distribuisce il tutto in 240 pagine di libro. Ma, anche se lungo e non continuo, è totalmente impregnato di una realtà vissuta. Mi è capitato di parlare con amici di quanto sia inutile il ruolo pedagogico che oggi ha la letteratura, e di quanto si sia persa la ricerca dello stile e del romanzo in sé, e questo libro di Pennac come quello citato in precedenza sono sicuramente pedagogici. Ma di una pedagogia vissuta e anche sofferta, senza troppi piagnistei. Se in “Come un romanzo” l’autore scrivendo una lista di dieci diritti del lettore, poneva come primo il diritto di non leggere, proprio a voler dire che la lettura non è un dogma e che non si è buone persone solo se si legge un libro, continua in “Diario di scuola” dicendo che era idiota il passato che considerava inutile leggere e che è appunto altrettanto idiota il presente che impone ai giovani la lettura ai libri, come rimedio allo sfracello della scuola e degli studenti. Ed è in questo sfracello che l’autore si inserisce, parlando prima della sua vita da studente, che ha visto anni ripetuti, colleggio e addirittura un anno di sforzi per imparare a 6 anni la lettera A. Parlando della sua vita da studente parla anche dei suoi professori: i più odiati e più derisi erano proprio quelli che dicevano “io non ci posso fare niente con questi qui!”, poiché non capivano che lo scontro con gli studenti è uno scontro tra sapere e non sapere, e che anche un professore anni addietro era colui che non sapeva (chi di noi non ci ha messo un anno per imparare una cosa?). Odia Pennac anche i programmi dove definiscono le banlieu fucine di delinquenti e di disoccupazione, poiché questa società di “Nonna Marketing” dimentica che è proprio questa identificazione a rendere impossibile il cambiamento dei somari. E continuando a parlare di professori, quelli che lo hanno salvato erano coloro che amavano la loro materia, che in quell’ora di lezione parlavano con amore solo della materia, e non si rassegnavano al ruolo auto-imposto alla nullafacenza per i somari. Questi professori proprio come il Perros dell’altro libro, non sono i professori amiconi del bar, ma sono coloro che non si bloccano al non-sapere, sono coloro che non si rassegano alla ricetta della gioventù allo sbaraglio (quale gioventù non lo è stata, per fortuna?)
E alla fine del libro, proprio continuando il suo attacco alla demagogia, Pennac dice la parola che “parlando di istruzione, ti linciano”: amore. Cita questa parola che è traboccante oggi in tutte le salse e in tutte le forme, ma che solo in termini di istruzione non viene mai nominata, poiché è sostituita dai registri, dalle valutazione, dal profitto, e dalla sensazione di non farcela mai. Amore che non significa una scuola a piedi scalzi, ma che significa amore per ciò che si insegna, e appunto la prospettiva che ogni studente possa farcela. Mi ricordo sempre il mio professore di italiano che parlava del fallimento di uno studente come del fallimento della scuola. E Pennac non nega che qualcuno si è perso, e non nega che se gli ex studenti non li riconoscessero per strada lui non si ricorderebbe nemmeno, non nega che tornato a casa il professore ha la sua vita e non solo i suoi studenti. Ma non gli si può negare che nella pagine di questo libro ci sia un non-ricetta ottima, per i malanni ormai divenuti ossessivi nella scuola. E almeno anche se non serve a niente, sai che bello avere tanti professori che ti fanno imparare le pagine di Kafka per poi fare sfida di memoria tra studenti. Avremmo perso il gusto di leggerlo da soli, e dire “Alla faccia dei programmi!” ma almeno avremmo iniziato prima!
SIMONE MIGLIORATO. Classe 1986, aspirante studente universitario, portiere di calcio e amante della letteratura e della scrittura. Vive a Roma, cercando di muoversi tra i tanti sforzi possibili. Cura il blog Dritto verso Itaca e questo è il suo profilo su myspace.
14 commenti:
Eccomi qui :)
Grazie Rob!
Grazie a te!
Bel pezzo e, inutile dirlo, lo condivido tutto.
Anche se, a dirla tutta, devo l'amore per Pennac a mia moglie che me l'ha fatto scoprire. E io scettico... perchè io - tzè - di francesi leggevo solo i collabos.
:))
E io che pensavo di essere il solo ad amarlo qui dentro :)
Se non ricordo male... con Claude siamo almeno tre.
:)
Claude? Claude Ughettò?
Se è lui non ci credo. Mentre scrivevo questo articolo dicevo "Sicuramente mi dirà che assomiglia a Herman Hesse!"
:)
Lui, se non ricordo male... E cmq tutti noi abbiamo le nostre debolezze... come ho già detto io sono appassionato lettore di Grisham :)
Chi non ha peccato, scagli la prima pietra !
Caro Rob, forse di Pennac abbiamo parlato, ma non credo di aver mai detto di "amarlo".
Anni fa avevo letto "Il paradiso degli orchi", perché un mio amico aveva detto che io scrivevo un po' così (stavo lavorando alla prima parte di "Una falciola di Terra"), e mi aveva segnalato anche Benni.
Pennac non mi era dispiaciuto, soprattutto per fantasia e visionarietà, senso del comico e qualche sprazzo d'umorismo. Però la scrittura non mi aveva entusiasmato: per dirla con Moresco, Pennac mi sembra uno che tende a scrivere "facile", più che "semplice". Però di Francese, per dirla con Simone, non so una sega, quindi il mio giudizio è arbitrario.
Lo stesso vale per Benni, del quale ammiro la visionarietà e una certa capacità di creare degli interi mondi, però la scrittura non è altrettanto adeguata.
"Adeguata" per i miei parametri. Se uno come Pennac ha tutti questi lettori è chiaro che la sua scrittura è efficacissima ed adeguatissima :-)
In ogni caso non faccio nessun paragone con Hesse, e neppure con Sepulveda o Coelo, che per me sono il peggio del peggio.
Con Pennac ho anche una certa immedesimazione. Anch'io con la scuola ho sempre avuto dei grossi problemi. All'università ci sono arrivato a 30 anni.
A proposito di "debolezze", non dimenticate che piango qualdo leggo Harry Potter :-)
Benvenuto Claude !
Vabbé, Claude, diciamo che gli hai dato la sufficienza piena :))
Benni, tra l'altro, non è affatto male.
E detto questo me ne vado a letto!
Ciao Simone
Bé... nel complesso direi che Pennac un bel 7 se lo merita. Ci fossero più scrittori così in Europa non sarebbe male.
Comunque, caro Simone, questo libro di Pennac, da quel che ho capito molto autobiografico, mi ha fatto venire voglia di leggerlo. Dal tuo articolo mi sembra di rilevare in Pennac le mie stesse convinzioni non solo sulla scuola, ma anche sul senso dell'educare in sé.
Ciao.
Comunque aggiungerei che per me la pedagogia è sempre dannosa in sé, perché parte dal principio di educare le persone a vivere secondo certi principi dati per assodati. Compresa la convinzione che i libri debbono per forza insegnare qualcosa, e non semplicemente metterci in moto il cervello per arrivare a delle conclusioni inaspettate.
Io so che si può insegnare ed imparare attraverso la relazione, e che all'interno di questo processo non è mai uno solo quello che impara. Inoltre, mai dare per scontato che in questo processo la luce debba prevalere sulle ombre. Spesso l'ombra, le periferie e il disagio di cui parla Pennac, sono proprio la zona in cui questo processo può esercitarsi meglio. Un ragazzino di buona famiglia che prende buoni voti può anche diventare un buon cittadino, ma un ragazzino disagiato che apre un libro per passione e con spirito di trasgressione è un'altra cosa.
Detto questo, caro Simone: Céline devi proprio leggerlo. E' un accorato consiglio pedagogico :-))))
Céline! Céline! Céline!
:)
Cèline, c'est vrai! :)
Il problema sono quei 26 euro che non ho ! :(
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