Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 1 giugno 2008
E’ bello il titolo, quello sì. Per brevità chiamato artista. De Gregori riprende una definizione standard, tratta dai contratti discografici, e la innalza ad emblema dell’eccessiva disinvoltura con cui si appiccicano etichette alle persone, come se le si potesse racchiudere in una sola parola: comoda, fino allo sbraco, per chi la usa; ma angusta, fino all’insofferenza, per chi vi si ritrova ingabbiato; e fuorviante, nella sua pretesa di identificare un individuo attraverso un termine definitivo e di carattere generale, per entrambi: per chi osserva e si illude di aver capito tutto (o quanto meno l’essenziale) solo perché è in grado di ricondurlo a una specifica voce dello schedario collettivo, come appunto “l’artista”; e per chi è osservato, e si ritrova avviluppato in una rete di aspettative, di luoghi comuni, di pregiudizi che discendono non già dalle sue effettive caratteristiche di individuo ma dal suo inserimento, così consueto e così superficiale, in una determinata categoria, per esempio“il cantautore”.
E’ bello il titolo. E sono ottime le intenzioni. «Mi interessava – afferma De Gregori nel suo nuovo sito –mettere al centro del mio lavoro la parola “ARTE” nel senso romantico del termine... qualcosa che consapevolmente intende lasciare un segno poetico e intellettuale... non solo un mestiere che ha a che fare con una distribuzione e con un mercato.»
Gli aspetti positivi, purtroppo, finiscono qui. Per il resto, infatti, il nuovo album di Francesco De Gregori è un lavoro mediocre, che si aggiunge ai precedenti senza apportare un granché. Senza palesare né una vera ragion d’essere né, men che meno, un’autentica urgenza. Uno di quei dischi – non a caso di durata complessiva modesta, con i suoi 38 minuti scarsi – che sembrano chiusi anzitempo, utilizzando fino all’ultima le poche canzoni di cui si dispone e privandole, per così dire, del loro sacrosanto diritto a maturare appieno.
Gli chiedono: «E’ stato laborioso realizzare il disco?» Risponde: «Direi per niente. E’ stato tutto molto rilassato, forse perché abbiamo condiviso tutti questa idea che non è che la versione discografica di una canzone sia per forza di cose l’unica possibile, o per forza la migliore, quindi non andavamo alla ricerca di un’idea astratta di perfezione e così è più facile lavorare con leggerezza.»
Il classico caso in cui un principio giusto degenera in un teorema sballato. Un conto è affermare che le proprie canzoni, specialmente a distanza di parecchio tempo, possano essere riproposte in maniera diversa, un po’ come se si trattasse di fare una cover di un pezzo altrui; ben altro è pubblicare nove brani inediti, come avviene in questo Per brevità chiamato artista, e considerare (liquidare) la versione che compare sull’album come “una delle tante” che si potevano elaborare, in attesa di tirarne fuori chissà quante altre. Certo: a differenza di altre forme espressive, a cominciare dai film, le canzoni si prestano a innumerevoli rimaneggiamenti successivi; ma il fatto che si possa non significa affatto che si debba. Non significa, per riprendere lo stesso De Gregori di Buoni amici, che sia lecito non distinguere più «la regola dall’eccezione».
E’ una questione delicata, l’identità finale di un’opera d’arte. Una questione che non si può ignorare come se non esistesse. L’autore ha poteri illimitati di scelta solo nella fase della creazione originaria: in quel momento, e solo in quel momento, egli può assumere qualsiasi decisione, in un senso o nell’altro. Può aggiungere e togliere. Può essere esplicito oppure allusivo. Può adottare una veste formale sfarzosa o, al contrario, uno stile scarno. E’ lui, il padrone assoluto. Il dominatore incontrastato. L’artefice unico. In quel suo piccolo e inviolabile universo – di parole, di suoni, di immagini – l’artista è come Dio che plasma il mondo e lo riempie a suo piacimento.
Ma dopo, una volta che le decisioni sono state prese, si deve avere la consapevolezza che la prospettiva è cambiata. Si deve avere la lucidità di capire, e la forza di accettare, che quell’opera è uscita dalla nostra disponibilità ed è diventata un’entità autonoma, con caratteristiche sue proprie che non ci è più dato di mutare ogni qual volta lo desideriamo. La forma è divenuta sostanza. L’ipotesi è diventata un dato di fatto. E se proprio si vuole tornare sullo stesso tema, sulle stesse tipologie umane che ci hanno già ispirato in precedenza, allora bisogna farsi carico di nuove invenzioni. Se Romeo e Giulietta sopravvivono all’odio delle rispettive famiglie, e vivono per sempre “felici e contenti”, o se all’opposto Renzo e Lucia si perdono, schiantati dalle sopraffazioni di Don Rodrigo, non si tratta di una legittima “rilettura” degli originali: si tratta di tutt’altre storie, che è doveroso scrivere daccapo.
Gli arrangiamenti, per restare al caso della musica, non sono solo una sovrastruttura da cambiare a capriccio. Gli arrangiamenti sono lo sviluppo di certe potenzialità insite nelle idee di partenza. Ed è qui che casca l’asino, nel nuovo album di De Gregori: stavolta, più che arrangiamenti, i suoi sembrano ipotesi di arrangiamento. Quasi degli appunti informali, veloci, messi giù per avere memoria di quello che si è già fatto: nel presupposto che poi, in seguito, arrivi qualcosa di meglio. Qualcosa che sia più originale. Più imprevedibile. Più compiuto.
Come ammonisce il proverbio, invece, “chi troppo vuole nulla stringe”. Nell’ansia di riservarsi, a priori, una libertà totale, De Gregori sforna un album affrettato e approssimativo: che forse, solo forse, verrà rigenerato dalle modifiche apportate nei concerti, ma che intanto finisce sugli scaffali e appare un po’ fuori posto. Non proprio un intruso a una riunione esclusiva, ma certo un invitato di cui si poteva fare a meno. Un ospite che non si può più mandare via, ora che è arrivato e che si è unito agli altri, ma che avrebbe fatto meglio a prepararsi con maggior cura, prima di venire alla nostra porta: possibile, con tutti gli abiti che gli abbiamo visto sfoggiare in altre occasioni, che ora avesse solo questa giacchetta striminzita e questi pantaloni sgualciti?
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.
2 commenti:
lollyprka non esiste!
Zamboni la pagheray cara!! !
PS: ricevi i trackback?
Non so cosa siano! :))
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