Articolo di Toni de Santoli
Dal Secolo d'Italia di martedì 10 giugno 2008
Una canzone così non se l’aspettava nessuno. Una canzone così arrivò per alcuni come una frustata secca, per altri, invece, giunse come la brezza la più soave che il mare possa regalare sotto il sole che dardeggia. Con quell’evocazione della nostalgia, il sogno dell’Africa e quell’invito a viaggiare «all’incontrario». Questo, 40 anni fa, nel giugno, appunto, del 1968, fu l’impatto che in Italia ebbe Azzurro. Musica di Paolo Conte, parole di Vito Pallavicini, il “pezzo” (controcorrente) venne affidato al solo cantante italiano che avrebbe potuto interpretarlo con efficacia, sentimento, senso ritmico: Adriano Celentano. L’Adriano che due anni prima aveva lanciato Il ragazzo della Via Gluck (esempio di impegno ecologico ante litteram) e che due anni dopo, nel ’70, avrebbe fatto imbufalire Botteghe Oscure, la Cgil, l’intera intellighenzia di sinistra con l’ancor celebre motivo Chi non lavora non fa l’amore… Davvero singolare, e interessante, il caso di Celentano. Il Molleggiato d’Italia fra il ’59 e il ’60 – con i testi rock di Piero Vivarelli – raggiunge in poche battute la fama musicale (ma anche qualcosa di più che colpisce i più attenti) come l’Elvis Presley italiano per la sua carica musicale e, appunto, per le sue movenze sul palco. Ma, dopo nemmeno due o tre anni, il personaggio muta… O ridiventa davvero se stesso… S’impone come autore e interprete d’una musica, per così dire, nazional-popolare e quindi schietta, effervescente, ma anche morbida: il Molleggiato assume a pieno titolo il ruolo storico di unico successore del Vittorio De Sica che nell’indimenticato film di Mario Camerini, Gli uomini che mascalzoni, del 1932, lanciò in Italia e nel resto del mondo la magnifica (struggente, ma non troppo) Parlami d’amore, Mariù. Fra Parlami d’amore, Mariù e Azzurro c’è un vuoto di oltre trent’anni. (questo detto con tutto il rispetto dovuto ai Bindi, ai Paoli, agli Endrigo, ai Dorelli). Un vuoto appunto colmato da Conte, Pallavicini e Celentano. Colmato da tre uomini molto diversi l’uno dall’altro, ma il cui amalgama, e forse proprio per questo, è immediato, solido, scintillante. Conte è un avvocato piemontese, Pallavicini un ingegnere chimico lombardo, Celentano un proletario milanese di fresche origini pugliesi.
La musica che risuona nell’Occidente d’allora è meravigliosa. È la musica dei Beatles, dei Rolling Stones, Stones, dei Love Affair, degli Isley Brothers, delle Supremes, dei Four Tops, di Martha and the Vandellas, di Ike and Tina Turner, di Dionne Warwick, Bob Dylan, Petula Clark, Cilla Black, Dusty Springfield, Jacques Dutronc, Michel Polnareff. È la musica, squisita, di Otis Reding, James Brown, Tom Jones e di tanti altri astri del Pop. Ma Azzurro è qualcos’altro… Secondo noi, è qualcosa di ancora “misterioso” per la melodia che nel suo “dondolìo” e nel suo incalzare non ha eguali, per il testo che non ha nulla di aulico, eppure è poetico, poetico in modo asciutto; per l’interpretazione appunto di Celentano, che in un certo senso appare quasi “colloquiale” (altro che Rap…). Gli italiani (salvo i radical chic che conoscono Brel e Brassens, ma non conoscono Tosti, Bixio, Buti, Schipa…) ne restano incantati. Hanno l’impressione d’ascoltare una canzone, “la” canzone, che aspettavano da tempo, da tanto tempo. Il brano è dolce e amarognolo al tempo stesso. È semplice, ma anche ermetico («il treno dei desideri dei miei pensieri all’incontrario va…»). Induce all’allegria, ma anche a un certo raccoglimento. Eppoi spazia, spazia parecchio: «Cerco un po’ d’Africa in giardino fra l’oleandro e il baobab». Grande tema l’Africa a quell’epoca: prima la rivolta dei Mau Mau in Kenya, l’estendersi della decolonizzazione, poi il Congo, il Katanga, il Biafra. È un’Africa che sussulta, sanguina e cerca a fatica una sua strada. Non è ancora, tuttavia, l’Africa disperata e senza speranza d’oggigiorno. Azzurro ci dimostra quindi anche questo: che il Continente Nero è vicino,vicinissimo, anche per il suo richiamo così esotico, al pensiero di Conte e Pallavicini.
L’inizio di Azzurro è una carezza, un abbraccio, un risveglio: «Cerco l’estate tutto l’anno e all’improvviso eccola qua… Lei è partita per le spiagge e sono solo quassù in città… Sento fischiare sopra il tetto un aeroplano che se ne va… Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me…». Sono quarantadue parole. Solo quarantadue. E, in modo addirittura giornalistico, offrono subito un ben preciso quadro, con linearità, con efficacia. Potrebbe averle scritte Umberto Saba queste quarantadue mirabili parole. Ma eccoci al guizzo “fuori moda”, forse anche un leggero, innocente sberleffo alla massificazione (la si chiamava così) già in atto nell’Italia del 1968: in Azzurro c’è infatti il treno al posto dell’automobile. «... mi accorgo di non avere più risorse senza di te e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te…». Ecco: il giovanotto rimasto sotto il solleone in città, pensa di prendere il treno per andare a trovare la ragazza e “non” l’automobile, quando l’Italia intera non voleva fare altro che montare in macchina e la Cinquecento ce l’avevano in parecchi, o, comunque, c’era sempre un amico, un conoscente, un parente in possesso d’una quattroruote. Ma prendere il treno (Milano-Bologna-Rimini o Cesenatico…?) per imbarcarsi in un viaggio sentimentale, è ben più suggestivo, più “letterario” e “cinematografico” che saltare sulla macchina. Azzurro, forse, ci vuole dire anche questo. D’altro canto, lo stesso Conte, pochi anni fa, disse a un giornalista di aver sempre avvertito l’esigenza di «scrivere una canzone fuori moda, che cerchi in fondo a noi le risonanze della nostra identità». Quindi aggiunse: «Questo brano è un po’ marcetta, ma le marcette sono radicate nel nostro cuore», vale a dire nel cuore degli italiani. Eppure, a noi non sembra tanto marcetta questo intramontabile motivo composto – si noti – da un brillante jazzista qual èappunto Paolo Conte.
Azzurro uscì il 15 giugno 1968. C’era l’aria del Maggio francese. La Primavera di Praga viveva, ma non lo sapeva, i suoi ultimi giorni: l’Urss già preparava l’invasione della Cecoslovacchia, che sarebbe infatti avvenuta poco più di due mesi dopo (e che a Praga, in Piazza San Venceslao, avrebbe portato al sacrificio di Jan Palach). Negli Stati Uniti, il presidente Johnson decideva di non ricandidarsi alla carica di capo della Casa Bianca e lo scontro adesso era fra Richard Nixon e il nuovo candidato democratico Humphrey. A Chicago, Detroit, Los Angeles e in altre città ancora divampava la questione razziale. In Vietnam, intanto, il conflitto fra americani da una parte e nordvietnamiti e vietcong dall’altra, si faceva sempre più cruento: all’inizio dell’anno Hanoi aveva sferrato l’ambiziosissima Offensiva del Tet. Robert Kennedy e Martin Luther King venivano assassinati. Mosca, sotto la guida di Breznev, ricattava e intimidiva l’Occidente. In Italia andavano di moda il cinema “impegnato”, la musica “impegnata”. Nei salotti di Firenze,per esempio, parecchi coetanei ti rivolgevano occhiateun poco ostili, o comunque sussiegose, se solo dimostravi di non apprezzare Pier Paolo Pasolini o Carlo Lizzani e se confessavi di non leggere i saggi di Sartre e Brecht. Alcuni giovanotti, tristemente piegati nello spirito, mentivano quando dicevano di aver visto Teorema e Uccellacci e uccellini… Era un’epoca singolare: da un lato s’avvertiva il sopraggiungere, indispensabile, di un vento nuovo e piacevole, dall’altro ti coglieva invece un certo senso di soffocamento. Le ragazze finalmente si mostravano più “spigliate”, parecchio più “spigliate” di prima, ma, al tempo stesso, notavi d’essere guardato, scrutato, osservato. E, soprattutto, giudicato. In modo sommario.
Il 24 giugno 1968 cadde il terzo governo Moro (quadripartitoDc, Psi, Psdi, Pri) e, alla guida di un monocolore democristiano, Giovanni Leone assunse per la seconda volta la carica di presidente del Consiglio. Partito di maggioranza relativa, la Dc di quei tempi appariva tuttavia spiazzata. Spiazzata e sorpresa prima dal Maggio francese, poi dalla contestazione nostrana. Non capiva dove andasse il mondo. Non capiva dove andasse l’Italia. Era vistosamente indietro di dieci o quindici anni sul piano sociale, culturale, politico. Non aveva nessuna fiducia nella giovane generazione italiana, che essa fosse di sinistra, di destra, perfino di centro. Sembrava quasi che alla Dc i giovani, i quali reclamavano per sé più spazio e chiedevano a viva voce ascolto e attenzione, dessero fastidio. Come se essi fossero un ingombro, una presenza appunto irritante, perfino inutile, insopportabilmente rumorosa, mai contenta, mai soddisfatta, recalcitrante… La società italiana cominciava a sfaccettarsi, ma lo Scudocrociato non voleva rendersene conto. La Fiat intanto lanciava sul mercato la “125 Special” e la“850” e nelle sale cinematografiche uscivano Berretti verdi, di Ray Kellogg, col fiero John Wayne; Il giorno della civetta, di Damiani, Romeo e Giulietta, di Zeffirelli, C’era una volta il West, di Leone, Odissea nello spazio, di Kubrick. La Nazionale di calcio italiana vinceva gli Europei e alle Olimpiadi di Città del Messico Klaus Di Biasi trionfava nei tuffi.
L’Italia cambiava, eccome se cambiava, sebbene in modo disordinato, un po’ convulso e qua e là superficiale. In noi italiani, e anche in quelli che impazzivano per i Beatles, Joan Baez, Bob Dylan, restava tuttavia qualcosa d’antico che si riassume nell’osservazione, o nella percezione, del reale attraverso il retaggio genetico. Attraverso la nostra storia, la nostra lingua, la varietà dei nostri temperamenti. Quel “qualcosa”non precisissimamente definibile, doveva essersi assopito o in parecchi casi addirittura addormentato. A risvegliarlo, furono Adriano Celentano, Paolo Conte, Vito Pallavicini. Fu, appunto, Azzurro. Che, in quattro e quattr’otto, vendette un milione di copie e solo dopo il 16 novembre di quell’anno uscì dalle prime dieci posizioni della classifica dei 45 giri. Altre canzoni italiane avevano in passato riscosso un meritato successo (Volare, Il cielo in una stanza, Sapore di sale e altre ancora) Ma Azzurro è qualcosa di più, poiché non è manieristico, non è costruito, non è certo languido. Non è da rivista come Volare, non è sentimentale e un poco decadente come Il cielo in una stanza, non è di timbro e impasto alla francese come Sapore di sale. È una canzone italiana. Una meravigliosa canzone italiana. È un'aria nazional-popolare.
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