Dal Secolo d'Italia di mercoledì 11 giugno 2008
Il ’68: un anno lungo quarant’anni. Esorcismi e rimpianti. Formidabili e memorabili quegli anni? Ma è vero che c’erano dentro anche quelli di destra? Nel quarantennale, adesso che è passata la ricorrenza del Maggio, il velo è stato finalmente squarciato. Per sempre. Lo hanno ammesso a chiare lettere – ed era ora – anche Bruno Gravagnuolo su l’Unità – parlando di «Sessantotto in camicia nera» – e Guido Caldiron sul quotidiano del Prc, Liberazione. E Franco Piperno ne scrive esplicitamente nel suo ultimo libro ’68. L’anno che ritorna (Rizzoli, pp. I 179, euro 16,50). Quindi si scava, e si ammette, finalmente. E saltano le bugìe e le mezze verità. Si scava, si racconta, si rilegge: e si scopre che Gianfranco Fini ha avuto ragione a fare autocritica per quello che a destra non fu, ma che avrebbe potuto essere (e che doveva essere per essere autenticamente se stessi). E non c’è solo la vicenda di Valle Giulia, ricordata recentemente su queste colonne anche da Adalberto Baldoni e di cui nella ricorrenza – il 1° marzo – se ne è parlato in un intero paginone. Ma c’è anche altro. E in tutta Italia. Ognuno ha la sua esperienza. La mia, ad esempio. Anni pisani, Sessantotto e dintorni, l’Università fiammeggiante. Ti ci rituffi dentro e vive ancora sono le emozioni. Ripensi, ritrovi. A rimuovere non ci pensi nemmeno. È roba anche tua, quella. Certo, le immagini col tempo sbiadiscono, i colori si confondono. Così non mi ricordo più il gioco cromatico del faccione di Mao: oro in campo rosso o rosso in campo oro? A ogni modo, il distintivo si vendeva nelle librerie Feltrinelli insieme ai poster, alle bombolette e ai libri di Marcuse. Mi ricordo di una rivista acculturatissima imbracciata come un’arma nobile dai contestatori più vanitosi: si chiamava Quindici, la dirigeva Alfredo Giuliani e, tanto per dare un po’ di numeri, era stata partorita nel ’67, “fece” le prime occupazioni universitarie, poi il ’68, e morì nel ’69, già un pochino invecchiata, tra i pianti neoavanguardisti e gli entusiasmi neorivoluzionari. Pisa d’altronde “scoppiava”: facoltà imbandierate di rosso, sfilate di eskimo in Sapienza, Mao-Castro- Ho Chi Minh e altri “mantra” rivoluzionari ritmati con calore. Libretti rossi, rosso nel cuore un fiore c’è spuntato, giù le mani dal Vietnam, Cuba ubriaca di eroismi terzomondisti, il Che che non c’era più perché l’avevano fatto fuori, ma che da allora sarebbe stato come la Madonna di Fatima o quella di Lourdes. Miracoloso. Una sventagliata di luce bruna firmata Korda, che scaldava i sensi delle giovinette rosaluxembourghiane. Un fior di icona il dottor Guevara, destinato ad apoteosi transgenerazionali con i suoi occhi febbricitanti: i babbi lo avevano sui poster, i figli e i nipoti lo avrebbero portato sulle magliette. E non piaceva solo agli ultrasinistri: anche tanti destri lo tenevano nello studio o in qualche strano “covo” dove c’era anche la barbetta sapiente di Ho-Chi-Minh, accanto a strane bandierone rosse con suggestivi fregi runici (i fiorentini Franco Cardini e Luigi de Anna mi correggano, se sbaglio).
Del resto, agli inizi, non si stava tutti insieme appassionatamente, in nome della rivolta generazionale? Agli inizi-inizi, precisa qualcuno. Breve fiamma, breve sogno. Non solo Valle Giulia e qualche altra isoletta che-ci fu, prima che il non-c’è-più o il non-si-può-più cancellasse l’illusione. Del resto su queste cose hanno scritto in tanti, rievocando atmosfere, suggestioni, propositi ecc. Ad esempio, Adalberto Baldoni (ultima fatica Sessantotto. L’utopia della realtà, libro+2dvd, Istituto Luce, pp. 150, euro 49,50), Nicola Rao (La fiamma e la celtica, Sperling & Kupfer, pp. 410, euro 12), Alessando Gasparetti (La destra e il ’68, Settimo Sigillo, pp. 239, euro 20), Marco Iacona (1968. Le origini della contestazione globale, Solfanelli, pp.160, euro 10).
Ma bisognerebbe scavare più in profondità, andare dentro le singole situazioni, vedere città per città, facoltà per facoltà, caso per caso. E le sorprese sarebbero all’ordine del giorno. Per quel che ci riguarda, vi proponiamo cartoline e foto-tessere della Pisa ’68-70. Col beneficio d’inventario che comportano i quarant’anni trascorsi, e il fatto che, in quel tempo, tra i fumi e le fiamme di ideologia & politica, eravamo impegnati anche nella tesi di laurea, nei tira&molla del servizio militare, nella preparazione dei lieti sponsali. Evochiamo. Immagine numero uno: destra giovanile scombinata. I ragazzi della Giovane Italia e del Fuan amareggiati. Addirittura angosciati. Come? Scoppiava una rivolta contro il vecchio, in fondo contro tutto quello che era stato costruito dalla liberazione in poi e il Msi difendeva i parrucconi? Faceva la “guardia bianca” a Dio-Patria-Famiglia-Ordine-Disciplina- Baroni Universitari-Esami fantozziani invece di denunciare, smascherare, cavalcare la tigre del cambiamento? I neri erano davvero incazzati neri. Siamo noi i trasgressivi, siamo noi i rinnovatori, siamo noi quelli dell’immaginazione al potere, siamo noi quelli delle grandi sfide, dei mirabili paradossi. E che l’abbiamo letti a fare, sennò, Evola e D’Annunzio?
E non ce la ricordiamo la lezione non-conformista della Repubblica sociale? E dove li mettiamo i fascio-anarchici francesi, i rivoluzionario- conservatori tedeschi, i samurai e i kamikaze nipponici? E li buttiamo nella spazzatura i fascismi che non furono, ma come sarebbe stato bello se… di José Antonio, di Codreanu, di Berto Ricci? E il Novecento italiano delle riviste e delle avanguardie non ci ha insegnato nulla? E perché il Msi non fa dei poster con la faccia impunita del futurista Marinetti? Sì, è vero, facevamo un gran casino. I nostri erano stati d’animo tempestosi, contraddittori. Terribilmente impolitici. Ma leggevamo, dibattevamo e cercavamo come matti, in piena onestà, e una forza politica “intelligente”, chissà, poteva dare davvero ordine, proporre una coraggiosa sintesi che non fosse biascicata litania nostalgica, trasformare le incasinate ed esagitate emozioni in un programma. Quanto meno, cercare di capire e non limitarsi a rispondere con i “mazzieri” del “law and order” lanciati contro i camerati “trasversali”. Si ruggiva, ci si sbranava. C’era chi voleva ritagliarsi una nicchia all’interno del movimento studentesco, chi strillava contro gli “stracci rossi” degli occupanti cinesi in nome della retorica tricolore, chi prendeva paradossalmente a modello la Grecia dei colonnelli, chi si dilettava con l’assurdo cantando: «Il Vietnam è nazionalista / ed un dì sarà fascista…». Insulti, urti, frenesie, fughe, diaspore. Ognuno con una sua destra, che quasi mai era “di destra”, ognuno con un suo “fascismo” e l’Italia, e l’Europa, e la rivoluzione, e tutti contro tutti.
Pino Masi, che era stato il guardaspalle del deputato missino Beppe Niccolai e che come cantante nazionalpopolare avrebbe in seguito avuto la benedizione di Dario Fo, si convertì prima a Potere Operaio, poi a Lotta Continua. Non fu il solo: torme di neofascisti con la patacca del Che all’occhiello… Solo per essere “alla moda” e in tanti? Via… Lello Fermentino, ex “giovane italiano” di belle speranze, fu per qualche tempo, a Lettere, il “leader” dei “riformatori”, tutti Kant, imperativi categorici e difesa dell’autorità baronale, poi divenne un barbuto barricadiero pronto a scontrarsi con la polizia. Gianni Benvenuti, una bella, breve, bruciante vita di missino e poi di eretico nella Fiamma tricolore, alla Facoltà di Lingue creò il Fru (Fronte di Rinnovamento Universitario), di destra ma autonomo dal partito e promosse riuscitissime occupazioni, forte anche del suo fascino fascio-carismatico che sdilinquiva le fanciulline in fiore.
Il Fuan “ufficiale”, partito con un’attenzione del genere “cavalcare la tigre”, ben presto disse “no” a chi aveva velleità movimentiste. In contemporanea con la scelta “tradizionalista” di molti tra i suoi esponenti di spicco: Giulio Soldani, futuro cattedratico, i fratelli Attilio e Renato Tamburrini – romani “de Roma” approdati a Pisa per l’università – ma anche Marco Tangheroni, da lì a qualche anno uno dei più insigni medievisti italiani, e anche lui destinato a vita breve e folgorante, sarebbero diventati convinti militanti di Alleanza cattolica, l’associazione fondata da Giovanni Cantoni e modellata, secondo alcuni, su una sorta di ferreo clerico- leninismo, tutto studio, dottrina e rigore.
Immagini, foto-tessere. Interessante quella di Umberto Carpi. Veniva da Merano e si diceva che avesse militato nella Giovane Italia. A Pisa divenne uno dei “leader” di Potere Operaio. In seguito sarebbe stato comunista, rifondarolo, diessino. La carriera: docente di spicco, preside della Facoltà di Lettere, sottosegretario nel governo D’Alema. Un compagnone, forse ex camerata, studioso della cultura del Ventennio e particolarmente attratto dalle fascio-eresie di destra e di sinistra: da prof. ha dato tesi su anarchici in camicia nera come Marcello Gallian e su “razzisti sulfureo-esoterici” come Julius Evola; da sindaco di Crespina, una bellissima località del Pisano, ha promosso nel 2003 una Mostra («Il ritratto storico nel Novecento. 1902-1952»), dove la cultura e le icone fasciste hanno spadroneggiato, mandando in bestia i “bella ciao” locali. Ma torniamo al “joli Mai” pisano, alle sue anime e animacce. Ovviamente c’era anche la “nostra”. Noi, il sottoscritto, quelli de L’Orologio. Il giornale- bandiera era nato a Roma, nella prima metà degli anni Sessanta, ad opera di Luciano Lucci Chiarissi, un avvocato che, giovanissimo, era stato nella Rsi. E che faceva parte di quella leva di “fasci” anarchicheggianti e libertari, antimonarchici, anticonservatori, antiamericani, gollisti di sinistra, “mediterranei”, che si sentivano eredi di Berto Ricci e che nel dopoguerra avevano vanamente lavorato per fare del Msi un partito terzaforzista (su destra e sinistra nel fascismo e nel primo neofascismo si leggano Fascisti rossi e La rivoluzione in camicia nera di Paolo Buchignani, editi da Mondadori, Fascisti senza Mussolini di Giuseppe Parlato, Il Mulino, e il recentissimo Gli orfani di Salò di Antonio Carioti, Mursia).
Fuoriuscito dal Msi, Lucci Chiarissi era rimasto amico, tra gli altri, di Beppe Niccolai; e al pari di un altro amico, Giano Accame, che proprio per questo aveva rotto col settimanale il Borghese, credeva che la destra dovesse stare naturalmente “dentro” la contestazione, non “fuori” e men che meno “contro”. Così L’Orologio aveva partorito dei gruppi politicamente scorrettissimi, e quello di Pisa era tra i più attivi: tra l’altro riuscì a organizzare, alla Casa dello Studente, un convegno “nazional- europeo” contro il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, che vide la partecipazione di oltre trecento studenti. E poi i volantinaggi contro l’imperialismo Usa-Urss funzionavano bene e vendevamo il giornale nelle edicole e per le strade. Anche grazie all’apporto di un materiale umano tutto estri e simpatici malestri: da Alfredo Coppa (in seguito antropologo “di sinistra” all’Università La Sapienza di Roma) a Ulderico Nisticò (calabrese, grecista e attualmente fior di saggista per Ar e Rubbettino), da Giulio Guerra (anche lui con un futuro in Alleanza cattolica e all’Università) a Pino Brini (“da grande”, avvocato di grido, per nulla immemore di “giovinezza, giovinezza…” ecc. ecc.).
Eravamo una famigliola folleggiante: la abitavano vari personaggi animati da spiritelli dionisiaci, ma che pure si davano un gran da fare per spiegare che cosa doveva essere una “iniziativa italiana nel tempo europeo”. Noi, i “nazionalpopolari” o “nazpop”, come ci definivamo, “un po’ per celia e un po’ per non morir”. Al primo, secondo, terzo incontro con la politica politicante, che non voleva la saldatura, ma la contrapposizione generazionale. Addio, sogni di gloria, addio castelli in aria. Giunta, cacofonicamente, l’ora dell’“ora et labora”, smettendola di fare gli estetizzanti, ma anche, chissà, i lungimiranti ribelli, “al di là della destra e della sinistra”, gli “orologi” smisero di funzionare.
Tutto questo anche se la “nostalgia canaglia”, terribilmente “kitsch” se si vuole, funziona ancora. Illuminando altri volti della Pisa “d’antan”. Massimo D’Alema “lider maximo” che, a colpi di raffinatezze dialettiche e parole d’ordine- disordine, furoreggiava nelle assemblee. Nero-ricciuto come un barbiere del Sud e sprezzante come un Divo della Hollywood sul Tevere, col Fabio Mussi che gli stava sempre accanto in attesa di un imperativo…
E Adriano Sofri, con quella faccia un po’ così, un po’ tanto dostoevskijana – attorcigliamenti interiori, tormenti morali ed estasi intellettuali – che tribunalesche sentenze inchioderanno anni dopo a un “va e uccidi”, ma che, secondo Beppe Niccolai a tanti altri dei nostri, non aveva niente a che fare con l’assassinio di Calabresi… «Ero un suo nemico soggettivo e oggettivo – diceva Beppe – e ai comizi mi scatenava contro tutta Lotta Continua. Ma non credo che abbia fatto ammazzare Calabresi, risparmiando me. Lui e i compagni mi vedevano tutti i giorni in bicicletta per Pisa, conoscevano i miei orari e i miei percorsi. Non mi detestavano meno del commissario: lui era un’icona poliziesca, io, un’icona fascista. Non hanno ammazzato me, non hanno ammazzato neanche lui».
Ma, evocando quegli anni, è maledettamente difficile parlare di colpevolezza e di innocenza. Del ’68 che fu e di quello che non fu. Del come eravamo, del come siamo, della storia che c’è nel mezzo e di quell’altra che – chissà – forse sta cominciando solo ora…
Mario Bernardi Guardi (Pisa) è scrittore e giornalista, conferenziere e organizzatore culturale. Ha pubblicato in volume saggi su Nietzsche, Borges, Jünger, la cultura mitteleuropea, i tic e i tabù della sinistra, Gobetti, Berto Ricci, Risorgimento e Antirisorgimento. Attualmente scrive su Libero, Il Foglio, Il Tempo, Secolo d'Italia, Il Domenicale, Linea e Palomar.
Nessun commento:
Posta un commento