giovedì 12 giugno 2008

Mario Appignani, quell'indiano che contestò anche Sanremo (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 6 giugno 2008

Correva l’anno 1977 e nelle università italiane esplose una nuova contestazione. Vent’anni dopo, uno di loro, Mario Camiletti, scriverà: «Il ’77 non può essere catalogato soltanto come una goliardica rivolta generazionale. Nelle motivazioni profonde dell’ala creativa, la più significativa di quell’evento, si profilavano i nuovi orizzonti della società italiana che avevano le loro radici nella storia del paese e non a caso l’accusa più contestata a quei giovani era di imitare l’avanguardia futurista. Quel movimento era rivolto innazitutto contro le involuzioni ideologiche e contro i detriti gruppuscolar-marxisti del ’68. Il tratto caratteristico può essere sintetizzato nella formula: il miglior Nietzsche contro il peggior Marx...». E di quella stagione resta nell’immaginario la simbologia degli indiani metropolitani. «A guardare bene – scrive Lucia Vista nella prefazione al libro autobiografico di Marco Erler Assalto alla diligenza. Quando Appignani rinacque Cavallo Pazzo (edizioni Memori, pp. 309, euro 18) – potevano essere dadaisti o pronipoti dei futuristi, scapigliati incontenibili e inarrestabili. Non volevano un capo anche se uno si candidò ad esserlo, mai contestato, mai riconosciuto. Si chiamava Mario Appignani....». L’autore, noto anche lui con un nome indiano – Nuvola Rossa – conobbe Appignani nel ’73 ai funerali di Anna Magnani, quando aveva quattordici anni e Mario diciotto. «Nel mio cervello – racconta adesso Erler – Mario è stato come una bomba pronta a esplodere, vivendolo come in realtà era, un italiano vero a pieno titolo apparentato con la beat generation che era iniziata in America negli anni ’60». E il futuro Cavallo Pazzo coinvolge subito Marco: «Gli anni ’70 segneranno – gli dice – una svolta mondiale, noi giovani saremo i protagonisti assoluti del cambiamento epocale... La libertà si conquista, nessuno che sta al potere la regala». Inizia da lì un’avventura che legherà i due ragazzi in tante battaglie e tante avventure. Il libro – che viene presentato oggi a Roma (alla Libreria Rinascita di via delle Botteghe Oscure, alle ore 18, con gli interventi dell’autore, Carlo Lizzani, Nicola Caracciolo, Vincenzo Mollica e Domenico Monetti – è l’appassionante ricostruzione delle vicende dei due indiani, legati dai sentimenti e dalla passione per lo sberleffo. Erler racconta Appignani, e Cavallo Pazzo si racconta attraverso le sue lettere e le considerazioni sulle gesta provocatorie con le quali ha cavalcato un ventennio prima di una morte prematura. Con l’avvento della contestazione del ’77, infatti, i due fondano la loro tribù all’interno dell’ala creativa degli indiani metropolitani di Roma. E, sempre in quell’anno, dopo la memorabile cacciata dall’università di Luciano Lama, partecipano alle contestazioni antinucleari a Montalto di Castro, manifestazioni che vedono gli indiani fianco a fianco degli ecologisti di destra dei Gruppi di ricerca ecologica. E non era solo questa la rottura degli schemi che Appignani e Erler riuscirono a compiere. «Alla fine degli anni Settanta – racconta nel libro Massimo Tosti, giornalista di destra che all’epoca dirigeva Il settimanale – ho conosciuto Appignani. Mario veniva spesso al giornale. Mi assediava, fedele allo spirito di Cavallo Pazzo, per chiedere, suggerire, inventare, ascoltare, comporre o scomporre qualche pezzo di denuncia. Era straordinaria, soprattutto, la sua fantasia: e più di una volta, chiacchierando con lui, mi venne da pensare che la libertà, senza fantasia, ha ben poco sapore...». Cavallo Pazzo, del resto, credeva profondamente nella sua “cultura sballata” come amava definirla lui. Perché il suo stile esistenziale nascondeva dei valori ma anche la sofferenza di un’infanzia vissuta in un befrotrofio e nelle violenze. All’epoca di tutto questo e molto altro Cavallo Pazzo parlò nella sua celebre autobiografia, Un ragazzo all’inferno, libro che fu fortemente voluto e promosso da Marco Pannella, che ne curò la prefazione e che vide per anni Appignani al fianco delle sue battaglie libertarie. Ma non solo, Cavallo Pazzo è stato per anni il simbolo della provocazione. Era presente ovunque ci fosse una telecamera o una macchina fotografica, ha fatto irruzione al Festival di Sanremo e ai congressi di partito, alla Mostra del cinema di Venezia come allo stadio Olimpico, dove le sue invasioni di campo durante le partite della Roma divennero leggendarie. Venne reclutato in alcuni film di Bertolucci, Damiani e Brass. Riuscì anche a bloccare una sfilata di alta moda in piazza Navona, naturalmente davanti alle telecamere. Nel ’94 rubò il primo piano alle più belle modelle del mondo piazzandosi sulla passerella all’improvviso con un tricolore in mano gridando «Viva l’Italia». Irruppe più volte al festival di Sanremo per provocare Pippo Baudo e farsi allontanare davanti alle telecamere. Nel libro di Erler c’è questo e altro, fino alla morte di Mario nel ’96. «Era maestro – annota in conclusione Tinto Brass – in una cosa: a dosare lo scandalo in una società che se nutriva».

Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

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