martedì 24 giugno 2008

"Non lasciarmi" di Kazuo Ishiguro (recensione di Claudio Ughetto)

Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro (Edizioni Einaudi, Torino 2006 Pagine 291)
Recensione a cura di Claudio Ughetto, già pubblicata sul sito di Opifice e su quello di Claudio.

Amarlo o odiarlo follemente? Nei confronti di quest’originale romanzo dello scrittore inglese (sebbene nato in Giappone), entrambe le scelte mi sembrano legittime. Dipende dal nostro temperamento, dallo stato d’animo con cui lo apriamo, da cosa cercavamo quando abbiamo iniziato a leggerlo e da cosa troviamo a metà della lettura. Se ci soddisfa o no. Si può decidere di amarlo follemente o di odiarlo follemente. Non lasciarmi è un romanzo che mette in disaccordo la testa e il cuore, nel quale la logica e la verosimiglianza, le istintive risposte a quelle banali domande sul comportamento umano che nascono quando ci accorgiamo che una storia non regge, sono continuamente disconfermate, procurandoci reazioni che vanno dall’insofferenza a quel tipo di rabbia che porterebbe a lanciare via il libro a cento pagine dalla fine, se non fossimo incantati dalla prosa e dalla narrazione straniante. Io sono tra quelli che hanno deciso d’amarlo follemente, trascinato e commosso da un’esposizione d’emozioni e sentimenti che avrebbe messo in ridicolo qualsiasi altro scrittore, tranne l’autore di Quel che resta del giorno.
È la sua stessa cifra narrativa ad essere inimitabile, capace di restituirci la stranezza dei rapporti umani attraverso punti di vista esclusivi ed anomali, in ambienti fuori dal tempo che mettono in luce il male di vivere senza tuttavia indulgere nel sentimentalismo.
Non lasciarmi è uscito in Italia nel 2006. Benché già allora attratto dagli articoli che gli sono stati dedicati, a volte pertinenti e più spesso fuorvianti, ho deciso di leggerlo solo adesso, in edizione economica. Credo quindi di non fare torto a nessuno se trattandone anticiperò alcune rivelazioni che nel romanzo affiorano soltanto a lettura inoltrata, senza peraltro sorprendere troppo. Pur sfiorando un’ipotesi fantascientifica, neppure così azzardata, ricreando parte della storia inglese e mondiale che va dagli anni sessanta dello scorso secolo fino ad oggi, Ishiguro non ha scritto un romanzo di fantascienza, e neppure una di quelle ucronie cui siamo stati abituati da scrittori geniali come Philip K. Dick e delle quali altri hanno fin troppo abusato. Il mondo esterno vi compare ben poco, soggettivamente percepito da Kath, voce narrante, che non può che averne una visione parziale. Per buona parte della narrazione, i rapporti tra Kath e i suoi amici Ruth e Tommy si svolgono all’interno di un universo chiuso: il collegio di Hailsham, nel quale è educata una gioventù priva di padri e di madri, al cospetto di “tutori” non proprio repressivi ma reticenti a informare i ragazzi su quale futuro li attenderà. La preoccupazione dei tutori è piuttosto quella di indurli a realizzare dei prodotti creativi: dipinti, poesie, scritti che poi la misteriosa Madame ritirerà per mettere nella “Galleria”, favoleggiata dai ragazzi in chiacchiere di corridoio e anche in seguito, quando la consapevolezza del proprio destino li indurrà ad interrogarsi sul significato di quel loro soggiorno esclusivo.Dalla prima pagina Kath si presenta come un’”assistente”, nel disordine evocativo dei ricordi viaggia in auto da un luogo all’altro dell’Inghilterra per occuparsi di “donatori”, molti dei quali sono stati con lei in quel collegio che è diventato introvabile, il cui ricordo scatena dei rimpianti quasi leopardiani sull’incanto di ciò che è stato e non potrà più essere. Eppure, cosa c’è di bello in un’infanzia istituzionalizzata? Erano davvero così comprensivi questi tutori che talvolta sembravano guardare i ragazzi come se non fossero umani? C’erano episodi di bullismo, a Hailsham: preso in giro dai compagni perché non era creativo, Tommy è stato rassicurato da una tutrice che si è poi pentita di quell’istintiva schiettezza. A questi ragazzi non è permesso fumare, mai: i loro corpi sono “speciali”, devono essere perfetti. È Miss Lucy a dirlo, la tutrice che ha mentito a Tommy dicendogli che la creatività non è importante. La stessa Miss Lucy che dirà ai ragazzi la verità, ciò che gli altri tutori dicono e non dicono: quando usciranno da quella scuola, completamente condizionati, diventeranno “assistenti” e “donatori”; ben presto, prima dei 30 anni, saranno usati per esperimenti scientifici e per fornire organi ad altre persone, e moriranno quando avranno finito un “ciclo” che generalmente consiste in quattro donazioni. Compito degli assistenti è supportare i donatori per tutto il ciclo, perché c’è anche chi muore prima. Gli assistenti doneranno a loro volta, andando incontro allo stesso destino, sebbene un po’ più in là nel tempo e tra insostenibili sensi di colpa. Arrivata a 31 anni, Kath si sente diversa da coloro con cui è cresciuta, perché non ha ancora donato, e gli stessi Ruth e Tommy sembrano lasciarle intendere che è venuto anche per lei il tempo di sottoporsi al ciclo. Non si può essere assistenti per anni, caricandosi di tanto dolore, vedendo man mano spegnersi coloro che si ama.
Ishiguro sembra chiederci di abbandonare ogni considerazione logica, esigendo una sospensione della credulità che può reggere solo se assumiamo il punto di vista esclusivo di questi ragazzi. Come possono andare incontro al loro destino senza ribellarsi, fuggire, rivendicare la propria umanità? Ce lo chiediamo arrabbiandoci, sperando che qualcosa succeda. Una roba come la rivolta dei cloni. Invece nei pensieri di Kath, e nel romanzo stesso, permane il rimpianto per ciò che non è stato e avrebbe potuto essere: l’insieme d’amicizie incrinate, amori inespressi e vite soltanto immaginate. Il resto è inevitabile. L’idea di cominciare a vivere sul serio, a 30 anni, un’età in cui oggigiorno si è ancora considerati dei “ragazzi”, sembra non sfiorare questi cloni nati per essere fatti a pezzi con ogni cura. Anche essere un “donatore” ha un senso in un mondo del genere, che ci fa orrore solo a pensarlo.
In Ricambi, romanzo del 1996, lo scrittore Michael Marshall Smith[1] usa il genere fantascientifico per descrivere un mondo non poi così differente. In quel caso i cloni sono sorvegliati in una Fattoria, in condizioni più inumane rispetto a quelli che vivono a Hailsham. Marshall Smith, scrittore meno raffinato di Ishiguro, ci porta ad assumere il punto di vista del custode, rendendoci partecipi della sua redenzione a favore dei cloni. In questo caso, il genere è usato come strumento d’intrattenimento (con tanto d’astronavi, pistole, inseguimenti ecc) per farci riflettere sugli orrori che la biogenetica già adesso lascia presagire.
Ricambi è un buon romanzo d’azione, con qualche pretesa di denuncia e un messaggio di per sé scontato: anche un protagonista disincantato come Jack Randall, veterano di guerra ridottosi a custode di cloni, alla fine può fare la scelta più giusta. Assumendo il punto di vista del clone, invece, portandoci a pensare come lui, Ishiguro i costringe ad un gioco più sottile, ricordandoci che è compito della letteratura indurci a riflettere ogni volta in modo inedito su temi universali. La letteratura è anche gioco, persino quando a prima vista sembra volerci deprimere. È nelle domande più urticanti che ci rispecchiamo, scoprendoci non dissimili da un clone melanconico. Più che alle aberrazioni dell’ingegneria genetica o alle implicazioni etiche correlate alla ricerca dell’immortalità, Ishiguro sembra interessato a come ogni essere umano, di qualsiasi epoca, spende la propria vita. C’induce a chiederci quali sono le cose che valgono, s’è possibile spendere l’esistenza senza poi avere troppi rimpianti. Un’esistenza da dedicare alla realizzazione di noi stessi, ai desideri e ai tormenti dell’anima, ma anche alle persone che ci sono vicine.
Ishiguro scrive d’amicizia e soprattutto d’amore, perché come Kath e Tommy potremmo accorgerci troppo tardi che avremmo potuto amare con maggiore intensità, quando è ormai impossibile chiedere delle proroghe. Per il momento non smetteremo di morire, arrabattandoci tra caso e necessità. Come accade a questi cloni dalla vita breve.
NOTE[1] Michael Marshall Smith (nella foto a destra), Ricambi, pag. 375, Garzanti.
Claudio Ughetto è nato a Giaveno (TO) nel 1965, dove risiede. Di mestiere fa l'educatore in un Consorzio pubblico. I suoi interessi sono molteplici: letteratura e filosofia, arti figurative e tutto ciò che riguarda l'immaginario. Da anni si sente vicino alla cultura non conformista, nella convinzione che la dicotomia destra/sinistra sia ormai inefficace per leggere e affrontare le questioni contemporanee. Scrive per Diorama Letterario, Arianna e Opifice. Un suo racconto è stato pubblicato nell'antologia Tutti esplosi. Le trame di Opifice (prefazione di Massimo Carlotto, Giulio Perrone editore, euro 12). Di recente ha pubblicato il suo primo romanzo Una falciola di terra (Il Filo, 2007, euro 18).

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