Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia di martedì 24 giugno 2008
Capita spesso che parlando dello scrittore Piero Chiara si faccia riferimento a Giovannino Guareschi. Luino come Brescello e il Lago Maggiore come il Po, anzi “le piccole storie del grande lago” come le “piccole storie del grande fiume”. Ora, che nell’un caso e nell’altro ci si immerga nella vita della provincia con occhi e cuori confidenti fino alla complicità compiacenza autobiografica, è vero: purché si faccia attenzione a non insistere troppo sul Chiara “settentrionale”, un lombardo a due passi dalla Svizzera, che racconta “gente di confine”. Non ci piove sul fatto che Chiara – a proposito, il Premio letterario a lui intitolato compie vent’anni: splendida giovinezza, non c’è che dire – nasce a Luino e che qui, o comunque da queste parti, la sua “meglio umanità”, nel senso delle sue più vive e colorite creature letterarie, vive, opera (poco) e ozia (molto): ma non bisogna dimenticare che il terribile Pierino, figlio di madre nordica, nata sul versante piemontese del Lago Maggiore, è di padre meridionale: un impiegato alle Regie Dogane, trasferito dalla Sicilia nella Padania profonda. Insomma, se noi penetriamo nelle storie di Piero, un certo sulfureo odor di Trinacria, con profumazioni ironiche alla Pirandello ed erotiche alla Brancati, lo avvertiamo, eccome. E ne troviamo conferma andandoci a rovistare dentro grazie anche a una raccolta di saggi, dapoco approdata in libreria, in cui ci sioccupa dello scrittore nei suoi rapporti col cinema e in cui il materiale è stato raccolto sotto un titolo ruspante: Come il maiale (a cura di Federico Roncoroni e Mauro Gervasini, Marsilio, pp. 175, euro 18). Che c’entra il maiale? Chiediamo spiegazioni al “colpevole” e cioè a Chiara. Il quale, a un intervistatore che gli chiese perché mai cedesse i diritti dei suoi romanzi al cinema, rispose: «Perché i miei libri sono come il maiale per i contadini: non si buttavia niente!». E in un’altra intervista, da bravo scettico che poco o nulla si illude sulla fedeltà dei cinematografari nei confronti delle opere letterarie, aggiunse: «Vendere un libro al cinema è come vendere un cavallo: si può sperare che il padrone lo tratti bene, non lo sforzi, lo nutra a dovere, ma poi non si può andare a controllare come sta. Il nuovo padrone lo può anche macellare». Diciamola tutta: Chiara dava per scontato che, in qualche maniera, i suoi romanzi sarebbero stati “macellati”. Del resto, contrariamente a tanti intellettuali del secolo scorso, non è che subisse particolarmente il fascino della Decima Musa. Amava il teatro e anche la fotografia, ma il cinema non figura tra i suoi diretti interessi. E nemmeno tra quelli dei suoi personaggi cui sono cari invece i caffè, il biliardo, i tavoli da gioco, e carissime le alcove. E tuttavia, per la contraddizione che lo consente, «dieci film portano nel cast il nome di Piero Chiara, e non solo come autore di un racconto o di un romanzo da cui prende spunto la storia portata sullo schermo, ma come responsabile in prima persona di una vera e propria (e originale) sceneggiatura. Così come la televisione ha sfruttato lo sceneggiatore Chiara dopo averlo utilizzato come inventore di storie perla pagina scritta» (Paolo Mereghetti, prefazione a Come il maiale). L’anno di svolta è il 1970, quando escono Venga a prendere il caffè… da noi al cinema e I giovedì della signora Giulia in televisione. I “giovedì”, distribuiti in cinque puntate con la sceneggiatura timbrata da Pierino, hanno i caratteri della commedia gialla e mettono in campo un avvocato che tira le fila di un losco intrigo, una moglie sospettata di condurre una doppia vita e un poliziotto impegnato a sbrogliare l’intricata matassa. Una curiosità: il poliziotto è interpretato dal superdetective Tom Ponzi nella sua unica apparizione in tv. Ma il ’70 cinematografico di Chiara è soprattutto il “caffè bollente”, molto stimolante e alla fine troppo amaro che Lattuada ci serve, tirandolo fuori da un romanzo di culto del Luinese: La spartizione (1964). Storia di provincia lombarda e lacustre – e per forza! Siamo nell’amato microcosmo di Luino, anni Cinquanta, Dc bacchettona, vizi privati e pubbliche virtù – ma attraversata da suggestioni che fanno pensare alla Sicilia di Pirandello e di Brancati. Dato che il protagonista – interpretato da Ugo Tognazzi – Emerenziano Paronzini, un tipo di mezza età ghiotto di soldi, cibo e sesso, dopo avere impalmato la più brutta delle tre sorelle Tettamanzi, compiuto scorrerie (apprezzatissime) in camera delle cognate e messo gli occhi anche sulla procace domestica di facile virtù, si becca un colpo apoplettico e finisce paralitico in carrozzella. Non occhieggia forse, in una storia del genere (e il finale, nel libro di Chiara, è molto più tragico: quel porco di Emerenziano se ne va all’altro mondo), l’insulare demone meridiano (e notturno) che scocca scintille tentatrici e fatali, anzi letali, per il “masculo” convinto di essere un virilissimo cacciatore che non sbaglia mai il bersaglio e un astutissimo padrone del gioco? Un anno dopo, Chiara scrive soggetto e sceneggiatura di Homo eroticus, diretto da Marco Vicario. La storia del siculissimo superdotato e superseduttore cameriere Michele Cannaritta (provvisto da Madre Natura, al pari del celeberrimo Bartolomeo Colleoni, di tre testicoli e di un membro di spropositate dimensioni) sembra scritta apposta per l’altrettanto siculissimo attore Lando Buzzanca, che da allora diventa un“mito”, «un’icona pop, simbolo pantografato del machismo italico, come dimostra Lando, storico” pornofumetto edito da Renzo Barbieri»(come spiega nel libro Andrea Bruni in un saggio intitolato proprio “Homo eroticus: dalla poetica di Piero Chiara alla farsa all’italiana“). Anche se – nota la critica – Buzzanca, tratteggiando il Cannaritta «con inusitata misura, senza mai cedere a guittate e cachinni» (ancora Andrea Bruni), mostra di capire che la “vis comica” parla svariati linguaggi e la deformazione caricaturale, grottesca e oscena le appartiene a pieno diritto. Fermo restando, e a questo Chiara particolarmente tiene, che quando la materia di una storia è il sesso, un bravo artista, giocando con le allusioni, con il non-detto, può attirare ancor più il lettore nella magìa-malìa dell’eros. Nel copione di Una spina nel cuore, diretto da Alberto Lattuada nel 1986, l’anno della sua morte, lo scrittore annota: «Questa scena, disgustosa, la sopprimerei. Far vedere un coito è il più miserabile degli espedienti cinematografici... Basterebbe vedere che si avviano verso il letto. È enorme l’effetto del lasciar immaginare invece di far vedere. È il segreto del successo. Almeno nel romanzo. Ricordate “la sventurata rispose” del Manzoni e il “quel giorno più non vi leggemmo avante” di Dante. Se ne parla ancora». Dieci anni prima, quando Dino Risi aveva girato il film tratto dal libro La stanza del vescovo, Chiara, pur apprezzandone la realizzazione e specialmente l’interpretazione diUgo Tognazzi, aveva scritto: «Che poi un’artista (Ornella Muti), in particolare una donna, si mostri come una giumenta durante la monta, mi sembra un gesto di disprezzo per l’immagine femminile e per la stessa dignità umana». Insomma, questo Chiara “homo eroticus”, spirito libero e libertino, nonché dichiarato liberale in tempi in cui le penne impegnate dovevano stare e scrivere a sinistra; questo gran lombardo capace di imbandire pietanze dolci e amare negli ozi lacustri di Luino, percorsi da ancestrali echi mediterranei; questo autodidatta non immemore di ricette letterarie che dai classici della satira giungono alla commedia umana di Pirandello e Brancati; questo raffinato studioso di Boccaccio e di Giacomo Casanova; questo complice e irriverente biografo di d’Annunzio; questo intellettuale che amava il caffè, il teatro e il biliardo, ma non il cinema predatore e dilapidatore delle creazioni letterarie e dei cari fantasmi dell’immaginazione, e che tuttavia collaborò a dieci film (e vi compariva anche in deliziosi cammei attoriali); questo amabilissimo Chiara fu in fondo un difensore dello stile. Un saper vivere lieve e ironico, il suo: gli ozi e le chiacchierate lungolago, il gioco, il piatto che piange, i sorrisi e le malinconie, le passioni, le trasgressioni, le omissioni, i giochi della sorte e della morte. Un’epigrafe: «Ho assistito alla vita qualche volta da seduto, qualche volta in piedi, partecipando al banchetto o rimanendo a bocca asciutta, ma sempre con grande piacere». Una prece per il piacere: la terra gli sia lieve.Mario Bernardi Guardi (Pisa) è scrittore e giornalista, conferenziere e organizzatore culturale. Ha pubblicato in volume saggi su Nietzsche, Borges, Jünger, la cultura mitteleuropea, i tic e i tabù della sinistra, Gobetti, Berto Ricci, Risorgimento e Antirisorgimento. Attualmente scrive su Libero, Il Foglio, Il Tempo, Secolo d'Italia, Il Domenicale, Linea e Palomar.
Nessun commento:
Posta un commento