domenica 22 giugno 2008

Roberto Ciotti, quel blues vagabondo che arriva quando può ma non ci delude mai (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 22 giugno 2008
C’è ritardo e ritardo. C’è aspettativa e aspettativa. Il nuovo album di Roberto Ciotti era annunciato in uscita per la metà di giugno, ma poi, per un motivo o per l’altro, il termine previsto non è stato rispettato. My Blues, che è il primo live di una lunghissima attività artistica cominciata già da adolescente negli anni Sessanta, si fa attendere ancora un po’, prima di giungere a disposizione degli appassionati. Prima di arrivare, come accade sistematicamente dal 1996 di Changes, non già nei negozi di dischi ma nelle edicole: sollevato dall’obbligo di appoggiarsi a una grande casa discografica che lo distribuisca e lo promuova adeguatamente; libero di percorrere strade alternative rispetto a quelle suggerite, e programmate, dai “navigatori satellitari” del marketing; orgoglioso, in un modo ironico e sornione (da viaggiatore vagabondo che mangia dove può e dorme dove capita, ma che avrebbe i mezzi necessari a concedersi ben altro), della propria diversità. Della propria anomalia.
Nessuna aspettativa spasmodica da parte degli estimatori, quindi. Nessun problema a prendere atto del ritardo e ad aspettare pazientemente, come si conviene tra persone che odiano tutto ciò che è frenetico e che, o prima o dopo, o presto o tardi, hanno imparato ad attraversare la vita sulle stesse cadenze elastiche del blues: a volte lente, e persino strascicate, ma mai e poi mai depresse; altre volte veloci, e persino turbinose, ma mai e poi mai nevrotiche. «Quando fai musica, e la fai come la senti dentro, quando riesci a emozionarti e a emozionare, non c’è niente che ti possa fermare, sei già arrivato.»
Che Roberto Ciotti lo avesse capito, questo sacrosanto, irrinunciabile primato della sincerità e della coerenza su qualsiasi lusinga dello show-business, lo si poteva già desumere dalle scelte che ha fatto in tutti questi anni. Dalla sostanziale serenità con cui è passato dalle fasi di maggiore fama a quelle in cui il suo nome tornava a circolare assiduamente solo nei circuiti minori. Il successo come semplice eventualità, gradita finché si vuole ma niente affatto imprescindibile: non certo la meta obbligata di chiunque voglia vivere della propria arte; men che meno la somma e inoppugnabile verifica della bontà di quello che si crea.


Nel 1980 Ciotti apre i concerti italiani di Bob Marley a Milano e a Torino. Folla immensa ed entusiasta, grande attenzione da parte dei media, la magia tutta giamaicana del reggae che si distende sul mondo e, per la prima e unica volta, avvince anche l’Italia. Uno di quei rari momenti in cui, specie per l’appuntamento di San Siro, diventa legittimo parlare di “evento”, senza che si tratti del tic prefabbricato di un pubblicitario a corto di idee, di un presentatore televisivo in cerca di audience, di una stampa smaniosa di assecondare i desideri, o le pretese, dei potenti di turno.
I più si glorierebbero del privilegio ottenuto, pregustandone l’incombente trasformazione in risultati concreti: ulteriori ingaggi, vendite in ascesa, interviste a go-go; cachet e royalties che crescono di conseguenza. Lui è colpito, e risucchiato, dall’atmosfera: «Tutte le volte che ripenso a quella sera, sento l’intensità che si respirava. Il ritmo rallentato e ipnotico del Reggae, l’odore fortissimo della marijuana che avvolgeva tutto, e l’emozione di quella folla gigantesca. Ci si sentiva coinvolti in un’incredibile energia, vibrante ed eccitante, sembrava di essere tutti parte di un unico respiro di umanità».
Nel 1983, dopo aver pubblicato con la Rca il terzo album, Rockin’ Blues, Ciotti incontra Ginger Baker – già batterista dei celebratissimi Cream al fianco di Eric Clapton alla chitarra e di Jack Bruce al basso – ed entra a far parte della sua nuova band, un trio che viene completato dal bassista Enzo Pietropaoli. La tournée si snoda nell’America settentrionale, quasi sempre negli Usa, e va avanti per un mese, senza pause. Locali celebri come il Bottom Line di New York, il Tuts di Chicago, l’El Mocambo di Toronto.
Sogni che si realizzano. Soddisfazioni artistiche e vantaggi collaterali, ivi incluso l’optional, magari grossolano e però stuzzicante, delle groupies. Ottimi motivi per restare, se non fosse per il rovescio della medaglia. Se non fosse che, per dirla col Guccini di Canzone per Silvia, “l’America è grandiosa ed è potente, tutto e niente, il bene e il male”. E allora, ricorda Ciotti in Unplugged, la schietta autobiografia edita lo scorso anno da Castelvecchi, «capii presto che la mia personalità era un’altra, e che gli Stati Uniti, in fin dei conti, non avrebbero mai potuto valorizzarla. Decisi di seguire me stesso e di tornare a casa».
Già: il blues è nato negli Usa, o se non altro è lì che si ha cominciato a mostrarsi a noi occidentali, ma nel loro complesso gli Usa, soprattutto quelli di oggi, hanno ben poco a che spartire con la sua sensibilità profonda e in qualche modo immutabile. Il blues – negli Usa e in ogni altra parte del mondo che si sia lasciata irretire dall’eccesso di tecnologia, e imbolsire dalle abbuffate del consumismo – è agli antipodi del modello dominante. Osserva la vita e ne restituisce il battito eterno. Ne riconosce la ricchezza, misteriosa e infinita, anche quando essa non soddisfa nemmeno uno dei nostri desideri. Le sconfitte diventano esperienze. Il passato, qualsiasi passato, una base sulla quale ricostruire. E quand’anche siano solo macerie, e non ci sia ancora la possibilità di riedificare subito, meglio le macerie che niente, per passarci la notte.


Questo è il blues. E per questo, anche quando i suoi brani di discostano dalla canonica forma delle dodici battute e da certe sequenze di accordi, rimane blues la musica di Roberto Ciotti. Che avendo scelto di restare se stesso ne sopporta le conseguenze. Che per restare libero si autoproduce e ci chiede di passare in edicola, pronti a insistere se il giornalaio non capisce immediatamente di chi parliamo. Che magari può ritrovarsi a essere un po’ in ritardo, come un musicista girovago che arriva quando può, ma che è sempre il benvenuto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

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