Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 22 giugno 2008
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 22 giugno 2008
A Marge Simpson noi tutti dovremo fare una bella statua d’oro, un giorno o l’altro. D’oro quasi come il colore della sua pelle e di quella dei suoi bizzarri concittadini e familiari, Homer, Burt, Lisa e la piccola Maggie, che poi sarebbero i mitici Simpson, i buffissimi personaggi della nota serie televisiva a cartoni animati che abitano la cinica città di Springfield, disegni creati dal cinquantaquattrenne americano Matt Groening e diventati uno dei fenomeni televisivi più seguiti dei giorni nostri. Una serie tv riproposta in edicola fino agli inizi di ottobre, grazie ad una selezionata raccolta di decine di episodi contenuti in 23 dvd (l'iniziativa è del Corriere).
Forse era dai tempi degli altrettanto mitici Peanuts di Charles Monroe Schulz (più noti però su carta che sugli schermi), che dei semplici disegni non assurgevano ad emblema generazionale e stereotipo dell'"anima" di una larga parte dell'America, ma non solo. Sui Simpson sono stati scritti saggi d’argomentazione scientifica e filosofica; il Time l’ha descritta come la migliore serie tv del Secolo. L’anno scorso ne è stato tratto un film di grande successo.
Come i personaggi dei Peanuts, Charlie Brown, Linus, Lucy e Snoopy insuperabile ed egocentrico trasformista, ogni fan della famiglia Simpson ha il proprio favorito. C’è chi predilige Burt, il figlio maggiore dei Simpson (dieci anni), furbo, dispettoso e sempre a caccia di guai e c’è chi ama Lisa, la sorella di due anni più giovane, ma più matura, sapientona e razionale (i due sono un’evoluzione in direzione progressista della coppia di fratelli Lucy-Linus nella quale si specchiava il moderato Schulz).
C’è poi chi predilige, beato lui, papà Homer, un impiegato svitato, maldestro e per di più irresponsabile che però irradia la simpatia cialtrona di un Andy Capp del terzo millennio. E c'è anche chi tifa per la piccola insignificante Maggie, una neonata silenziosa, appendice di una famiglia: papà, mamma, figlio e figlia, probabilmente già al completo. Infine, c'è chi sceglie come personaggio prediletto Marge Bouvier, mamma-Simpson amorevole, severa, giudiziosa e dotata di talento artistico. È perfino troppo ovvio: in una famiglia dove i due “uomini” sono così strampalati è lei il centro, è lei la chiave di tutto. È Marge, insomma, la famiglia Simpson, l'elemento che la tiene insieme.
Quello dei Peanuts era un universo infantile (anche se tutt’altro che minore traboccante com’era di sfumature psicologiche), quello ove si affacciano i Simpson si caratterizza invece per la sua “completezza”. Si potrebbe dire che l’America è cresciuta ed è diventata moderna e concreta, anzi più moderna e più concreta di quello che il piccolo mondo che circondava la casetta di Snoopy col suo amichetto Woodstock, lasciava presagire.
Ed oggi la modernità è Springfield, città del terzo millennio ove sprofonda un’umanità degenerata e conformista, un’umanità somma-di-individui quasi da “punto zero dei valori”. Qui nessuno pensa davvero di poter cambiare alcunché di questa “sporca società” o “comunità”. Se tanto ci dà tanto, servirebbe allora un’entità nuova, quella sì, un’entità che l’America (ma non solo l’America) è invero incapace di generare. Siamo a Nietzsche e ai suoi naturali epigoni? Direi di no, siamo ben oltre. Dopo la morte di Dio (roba da preistoria: pregarlo è oramai un tic, un gesto da abitudinari, al più da disperati), sono spariti anche i “supereroi” perché con l’Altissimo è scomparsa anche la distinzione fra bene e male; non restano che i semplici uomini allora (uomini o scimmie?), inconsapevoli della catastrofe verso la quale si stanno avviando.
L'ispirazione politica dei Simpson è senza dubbio di marca progressista e il fumetto, fino all’altro ieri, è stato poco amato dall’America repubblicana e religiosa. Ma dalla prima puntata “ufficiale” (17 dicembre 1989) di tempo per riflettere ce ne è stato parecchio, tempo per “analizzare” un prodotto di successo, complesso, anzi sofisticato, che sembrava destinato ad una facile lettura e invece si è rivelato nel dipanarsi delle diciannove serie un contenitore molto differente dallo stereotipo iniziale. Il progresso espresso dall'autore non ha nulla di ottimistico, di "obamiano", ma è piuttosto un progressismo da fine dei tempi che ricorda l'ultimo capitolo di un libro di H. G. Wells. È un progressismo che racconta con leggerezza e ironia il fallimento dell'idea di redenzione dell'umanità e ci si aggrappa a qualsiasi occasione (sì, c’è anche un po’ di pragmatismo Usa), perché la sola cosa che importa è sopravvivere. Ascoltiamo I Simpson, dunque e ci torneranno in mente le parole di Andy Warhol: Cos’è la vita? «Nasci, ti ammali e muori». Fra il primo e l’ultimo evento, insomma, fa’ quello che vuoi o che puoi. L’uomo è un completo fallimento dunque. E la donna? Qui la faccenda si complica alquanto, per fortuna.
Prendiamo Marge Simpson. L’ex miss Bouvier fa la casalinga, un mestiere tutt’altro che “moderno”. Per dirne altre due: non imita (il peggio de)gli uomini e segue la virtù della moderazione, una virtù che sa di antico e differenzia, chi vuol differenziarsi dal “volgo”. E poi ancora: non si lascia trascinare dalle folate di vento e combatte senza inutili eccessi contro le nevrosi del tempo. “Marge c’è e lotta con noi”, dunque. Una donna della tradizione? (mamma mia…). Beh diciamo questo, una così negli anni Settanta l’avrebbero appesa al lampione, oggi invece, come dicevamo all’inizio, sarebbe meritevole di una statua d’oro. A ventiquattro carati.
In fondo trovare in giro un altro “papino” come Homer non dovrebbe essere difficile. Silhouette da impiegato di mezz’età, calvo, bulimico, beone e un po’ fanatico. Tipico “prodotto” del consumismo americano. Burt è invece il classico bulletto volgare e nichilista (come lui ce ne sono almeno venti-trenta per ogni scuola), Lisa è il “genietto sensibile” ma sputasentenze per il quale si prevede una carriera straripante di soddisfazioni (ma anche di inevitabili delusioni). Tre universi comuni ma incompatibili; tre linee parallele destinate a mai incontrasi. Marge è dunque il mastice che tiene unita questo po’ po’ di famiglia. È insostituibile. È lei l’essenza della normalità che abbiamo appreso dalle letture filosofiche. Conservatrice se c’è da conservare, aperta se c’è da esserlo, affabile o rigorosa quando occorre. Una “donna” senza vane sovrastrutture, insomma, tipica della migliore America. Un’America che di nome a volte fa “liberal”, ma che di fatto intendiamoci è molto “con”.
Marge è anche una “donna” di bell’aspetto (l’opposto di Homer il panzone, per capirci); mai dimentica della propria femminilità (il tocco da maestro è la collana di grosse perle, intonata alle scarpe dal tacco basso), e con lo sguardo rivolto alle mode e un pizzico di scapestratezza (il grattacielo di capelli blu sopra la sua testa). Marge è la famiglia Simpson, dunque e i Simpson sono Marge. Proviamo a pensare cosa sarebbe di Homer e figli, compresi cane e gatto, sul mitico divano rosso davanti la tv senza la mamma. Beh, innanzi tutto sarebbe facile intuire che non ci sarebbe alcun divano, né alcuna casa (né altro ancora…). Homer avrebbe scialacquato tutti i risparmi dandoli via per inseguire qualche stravagante progetto. E Burt probabilmente sarebbe chiuso in riformatorio.
Insomma, gli americanissimi Simpson somigliano agli abitanti di un lontano villaggio della Nuova Guinea, ove per tradizione il marito non ha autorità alcuna sui figli. Sebbene non si tratti di una vera e propria società matriarcale (ove la moglie domina in tutto e per tutto), il ruolo dell’uomo soprattutto dal punto di vista economico è assai limitato. Se non è casa Simpson questa, poco ci manca.
E a proposito della famiglia Simpson, occorre citare il gradevole e interessante volume curato da tre studiosi a stelle e strisce: William Irwin, Mark T. Conrad e Aeon J. Skoble, dal titolo significativo I Simpson e la filosofia (Isbn edizioni, 2005). Si tratta di una raccolta di diciotto saggi di vario taglio e lunghezza. Fra le tante curiosità viene fuori l’idea che la famigliola di Springfield non sia poi così disastrata come è stata presentata agli albori della serie, quando le sue disavventure erano lette come la metafora della fine dei vecchi, sani, valori famigliari. L’idea (condivisibile) è data da una proposizione di Paul A. Cantor, semplice come sanno essere le cose che hanno valore: di fatto la famiglia Simpson non è poi così male; perché fondamentalmente c’è.
Fatto salvo il ruolo di Marge come baricentro geometrico, la famiglia Simpson resiste da lustri a peripezie economiche e sociali, a catastrofi naturali, a disastri sentimentali di ogni genere. Lisa, Burt, ma soprattutto Homer si sono confrontati con ogni sorta di cataclisma personale immaginabile: la galera, la truffa fatta e subita, la perdita di ogni risorsa, la vincita miliardaria alla lotteria, l'elezione alla presidenza americana, la fuga con una spogliarellista di Las Vegas, l'alcool, la droga, il cambio di identità e di sesso, il successo televisivo, la deportazione ai poli o in giungle dimenticate da tutti, ma sono rimasti lì, sempre uguali a se stessi.
Forse era dai tempi degli altrettanto mitici Peanuts di Charles Monroe Schulz (più noti però su carta che sugli schermi), che dei semplici disegni non assurgevano ad emblema generazionale e stereotipo dell'"anima" di una larga parte dell'America, ma non solo. Sui Simpson sono stati scritti saggi d’argomentazione scientifica e filosofica; il Time l’ha descritta come la migliore serie tv del Secolo. L’anno scorso ne è stato tratto un film di grande successo.
Come i personaggi dei Peanuts, Charlie Brown, Linus, Lucy e Snoopy insuperabile ed egocentrico trasformista, ogni fan della famiglia Simpson ha il proprio favorito. C’è chi predilige Burt, il figlio maggiore dei Simpson (dieci anni), furbo, dispettoso e sempre a caccia di guai e c’è chi ama Lisa, la sorella di due anni più giovane, ma più matura, sapientona e razionale (i due sono un’evoluzione in direzione progressista della coppia di fratelli Lucy-Linus nella quale si specchiava il moderato Schulz).
C’è poi chi predilige, beato lui, papà Homer, un impiegato svitato, maldestro e per di più irresponsabile che però irradia la simpatia cialtrona di un Andy Capp del terzo millennio. E c'è anche chi tifa per la piccola insignificante Maggie, una neonata silenziosa, appendice di una famiglia: papà, mamma, figlio e figlia, probabilmente già al completo. Infine, c'è chi sceglie come personaggio prediletto Marge Bouvier, mamma-Simpson amorevole, severa, giudiziosa e dotata di talento artistico. È perfino troppo ovvio: in una famiglia dove i due “uomini” sono così strampalati è lei il centro, è lei la chiave di tutto. È Marge, insomma, la famiglia Simpson, l'elemento che la tiene insieme.
Quello dei Peanuts era un universo infantile (anche se tutt’altro che minore traboccante com’era di sfumature psicologiche), quello ove si affacciano i Simpson si caratterizza invece per la sua “completezza”. Si potrebbe dire che l’America è cresciuta ed è diventata moderna e concreta, anzi più moderna e più concreta di quello che il piccolo mondo che circondava la casetta di Snoopy col suo amichetto Woodstock, lasciava presagire.
Ed oggi la modernità è Springfield, città del terzo millennio ove sprofonda un’umanità degenerata e conformista, un’umanità somma-di-individui quasi da “punto zero dei valori”. Qui nessuno pensa davvero di poter cambiare alcunché di questa “sporca società” o “comunità”. Se tanto ci dà tanto, servirebbe allora un’entità nuova, quella sì, un’entità che l’America (ma non solo l’America) è invero incapace di generare. Siamo a Nietzsche e ai suoi naturali epigoni? Direi di no, siamo ben oltre. Dopo la morte di Dio (roba da preistoria: pregarlo è oramai un tic, un gesto da abitudinari, al più da disperati), sono spariti anche i “supereroi” perché con l’Altissimo è scomparsa anche la distinzione fra bene e male; non restano che i semplici uomini allora (uomini o scimmie?), inconsapevoli della catastrofe verso la quale si stanno avviando.
L'ispirazione politica dei Simpson è senza dubbio di marca progressista e il fumetto, fino all’altro ieri, è stato poco amato dall’America repubblicana e religiosa. Ma dalla prima puntata “ufficiale” (17 dicembre 1989) di tempo per riflettere ce ne è stato parecchio, tempo per “analizzare” un prodotto di successo, complesso, anzi sofisticato, che sembrava destinato ad una facile lettura e invece si è rivelato nel dipanarsi delle diciannove serie un contenitore molto differente dallo stereotipo iniziale. Il progresso espresso dall'autore non ha nulla di ottimistico, di "obamiano", ma è piuttosto un progressismo da fine dei tempi che ricorda l'ultimo capitolo di un libro di H. G. Wells. È un progressismo che racconta con leggerezza e ironia il fallimento dell'idea di redenzione dell'umanità e ci si aggrappa a qualsiasi occasione (sì, c’è anche un po’ di pragmatismo Usa), perché la sola cosa che importa è sopravvivere. Ascoltiamo I Simpson, dunque e ci torneranno in mente le parole di Andy Warhol: Cos’è la vita? «Nasci, ti ammali e muori». Fra il primo e l’ultimo evento, insomma, fa’ quello che vuoi o che puoi. L’uomo è un completo fallimento dunque. E la donna? Qui la faccenda si complica alquanto, per fortuna.
Prendiamo Marge Simpson. L’ex miss Bouvier fa la casalinga, un mestiere tutt’altro che “moderno”. Per dirne altre due: non imita (il peggio de)gli uomini e segue la virtù della moderazione, una virtù che sa di antico e differenzia, chi vuol differenziarsi dal “volgo”. E poi ancora: non si lascia trascinare dalle folate di vento e combatte senza inutili eccessi contro le nevrosi del tempo. “Marge c’è e lotta con noi”, dunque. Una donna della tradizione? (mamma mia…). Beh diciamo questo, una così negli anni Settanta l’avrebbero appesa al lampione, oggi invece, come dicevamo all’inizio, sarebbe meritevole di una statua d’oro. A ventiquattro carati.
In fondo trovare in giro un altro “papino” come Homer non dovrebbe essere difficile. Silhouette da impiegato di mezz’età, calvo, bulimico, beone e un po’ fanatico. Tipico “prodotto” del consumismo americano. Burt è invece il classico bulletto volgare e nichilista (come lui ce ne sono almeno venti-trenta per ogni scuola), Lisa è il “genietto sensibile” ma sputasentenze per il quale si prevede una carriera straripante di soddisfazioni (ma anche di inevitabili delusioni). Tre universi comuni ma incompatibili; tre linee parallele destinate a mai incontrasi. Marge è dunque il mastice che tiene unita questo po’ po’ di famiglia. È insostituibile. È lei l’essenza della normalità che abbiamo appreso dalle letture filosofiche. Conservatrice se c’è da conservare, aperta se c’è da esserlo, affabile o rigorosa quando occorre. Una “donna” senza vane sovrastrutture, insomma, tipica della migliore America. Un’America che di nome a volte fa “liberal”, ma che di fatto intendiamoci è molto “con”.
Marge è anche una “donna” di bell’aspetto (l’opposto di Homer il panzone, per capirci); mai dimentica della propria femminilità (il tocco da maestro è la collana di grosse perle, intonata alle scarpe dal tacco basso), e con lo sguardo rivolto alle mode e un pizzico di scapestratezza (il grattacielo di capelli blu sopra la sua testa). Marge è la famiglia Simpson, dunque e i Simpson sono Marge. Proviamo a pensare cosa sarebbe di Homer e figli, compresi cane e gatto, sul mitico divano rosso davanti la tv senza la mamma. Beh, innanzi tutto sarebbe facile intuire che non ci sarebbe alcun divano, né alcuna casa (né altro ancora…). Homer avrebbe scialacquato tutti i risparmi dandoli via per inseguire qualche stravagante progetto. E Burt probabilmente sarebbe chiuso in riformatorio.
Insomma, gli americanissimi Simpson somigliano agli abitanti di un lontano villaggio della Nuova Guinea, ove per tradizione il marito non ha autorità alcuna sui figli. Sebbene non si tratti di una vera e propria società matriarcale (ove la moglie domina in tutto e per tutto), il ruolo dell’uomo soprattutto dal punto di vista economico è assai limitato. Se non è casa Simpson questa, poco ci manca.
E a proposito della famiglia Simpson, occorre citare il gradevole e interessante volume curato da tre studiosi a stelle e strisce: William Irwin, Mark T. Conrad e Aeon J. Skoble, dal titolo significativo I Simpson e la filosofia (Isbn edizioni, 2005). Si tratta di una raccolta di diciotto saggi di vario taglio e lunghezza. Fra le tante curiosità viene fuori l’idea che la famigliola di Springfield non sia poi così disastrata come è stata presentata agli albori della serie, quando le sue disavventure erano lette come la metafora della fine dei vecchi, sani, valori famigliari. L’idea (condivisibile) è data da una proposizione di Paul A. Cantor, semplice come sanno essere le cose che hanno valore: di fatto la famiglia Simpson non è poi così male; perché fondamentalmente c’è.
Fatto salvo il ruolo di Marge come baricentro geometrico, la famiglia Simpson resiste da lustri a peripezie economiche e sociali, a catastrofi naturali, a disastri sentimentali di ogni genere. Lisa, Burt, ma soprattutto Homer si sono confrontati con ogni sorta di cataclisma personale immaginabile: la galera, la truffa fatta e subita, la perdita di ogni risorsa, la vincita miliardaria alla lotteria, l'elezione alla presidenza americana, la fuga con una spogliarellista di Las Vegas, l'alcool, la droga, il cambio di identità e di sesso, il successo televisivo, la deportazione ai poli o in giungle dimenticate da tutti, ma sono rimasti lì, sempre uguali a se stessi.
Così, alla fine si scopre che le irrequietezze di Burt sono cose del tutto normali per la maggioranza degli americani (solo americani?) cresciuta nel mito dell’antiautoritarismo; lo stress di Lisa è talmente “correct” da non suscitare la benché minima apprensione. E le interperanze di Homer, le sue bugie, il suo disprezzo per gli altri, le sue sciagurate iniziative, la sua ingordigia sono solo l'involucro. Dietro c'è un signore che ama la sua famiglia e la ama in quanto sua. Ed è già molto.
Insomma da qualsiasi parte lo si guardi, la storia dei Simpsons, a un passo dal ventennale, sembra un vero inno alla famiglia contemporanea, acciaccata e piena di guai ma in fondo dispreratamente aggrappata a se stessa per trovare allegria, felicità, rifugio. Un inno stonato? Una modello famigliare malmesso, indisciplinato, scostumato? Sì può darsi, ma una famiglia che è sempre un’emozione. Giorno per giorno tutta da scoprire.
Insomma da qualsiasi parte lo si guardi, la storia dei Simpsons, a un passo dal ventennale, sembra un vero inno alla famiglia contemporanea, acciaccata e piena di guai ma in fondo dispreratamente aggrappata a se stessa per trovare allegria, felicità, rifugio. Un inno stonato? Una modello famigliare malmesso, indisciplinato, scostumato? Sì può darsi, ma una famiglia che è sempre un’emozione. Giorno per giorno tutta da scoprire.
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione globale (Solfanelli).
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