Dal Secolo d'Italia di sabato 26 luglio 2008
«Andiamo, è tempo di viaggiare» dice il turista in cerca di avventura parafrasando il poeta. Gli italiani si dirigono verso le mete tradizionali delle vacanze agostane, ma alcuni, appunto gli avventurosi, preferiscono altre destinazioni, che magari possano dare qualche brivido. Anche nel senso puramente climatologico. A loro consiglio Capo Nord, l’estrema punta dell’Europa, al di là del quale si estende l’Artico. Capo Nord è stato tradizionalmente la meta ultima del viaggio settentrionale europeo. Come tutte le mete ultime, non è soltanto un luogo fisico, ma anche un luogo della mente. Esso occupa dunque un posto di rilievo nella letteratura dei viaggi settentrionali. Non sappiamo quando e da chi Capo Nord fu toccato per la prima volta. Secondo la tradizione, già nel VII secolo le navi norvegesi avevano preso a doppiare il Capo, dirette al Mar Bianco, dove nascevano le “vie delle pellicce”. La prima fonte scritta che riporti notizie di un viaggio lungo questa rotta si riferisce al vichingo Othar di Halogaland, vassallo norvegese di re Alfred del Wessex, il quale attorno all’890, raccontò al suo re del viaggio fatto nella terra dei Biarmi, localizzabile lungo le coste del golfo di Khandalak nel Mar Bianco, per giungere alla quale aveva dovuto doppiare Capo Nord. L’interesse per questa via marittima si sviluppa a partire dalla seconda metà del Cinquecento, resta comunque il mistero che avvolge questa parte del continente, praticamente ignorata dalla coeva cartografia, che menziona Capo Nord con la dicitura Corpus Christi, come compare nella carta del bolognese Giovanni Antonio Magini, stampata a Venezia nel 1596. Nort Cape è inserito con il suo nome attuale per la prima volta nella carta del geografo olandese Gerard Mercator del 1595.
Capo Nord diviene meta nota a chi cerca il passaggio a nord-est, primo tra tutti Willem Barents, la cui relazione di viaggio fu pubblicata a Venezia nel 1599. Il primo italiano a toccare i 710 10’ lat. N. e 230 40’ long. E, fu il ravennate Francesco Negri (1623-1698), che aveva compiuto un viaggio in Lapponia nel 1663-1664. L’avventuroso sacerdote identifica l’estremo limite dell’Europa con quello del mondo abitato, e sotto questa luce Capo Nord assume una fisionomia da terra ultima che però perderà già nel secolo seguente, quando il Polo artico comincerà ad interessare i navigatori e gli esploratori. Così Negri scriverà nella sua relazione di viaggio pubblicata postuma nel 1700: «Però co’ termini del medesimo viaggio rimane terminata la mia curiosità, onde son disposto a ritornar in Danimarca, e indi, a Dio piacendo, alla patria». La sua curiosità è quindi quella naturale di chi vuole arrivare al termine di un lungo viaggio, e questo termine non è soltanto un luogo fisico, ma anche spirituale. Vicino Capo Nord del resto il buon prete ravennate (che recenti studi hanno però indicato come una specie di agente segreto della Chiesa di Roma) incontra un pastore luterano «col quale ho potuto parlar latino». E poi la si definisce «lingua morta»! Anche nel Settecento, Capo Nord non è molto di più di una roccia desolata, che segna comunque l’estremità d’Europa. D’altra parte, il viaggio non è per nulla agevole, come conferma Giuseppe Acerbi (1773-1846), futuro direttore dell’austriacante “Biblioteca italiana”, che vi arrivò nel 1799, primo italiano ad averlo raggiunto seguendo la via di terra attraverso la tundra e le paludi lapponi.
Come scrive nella sua relazione di viaggio pubblicata nel 1832 nella versione italiana: «Parlando di andare al Capo-Nord, tutti trovavano strano il nostro disegno, e ci dipingevano l’impresa impraticabile sì per le difficoltà della strada, sì per l’incontro pericoloso de’ Laponi, che ci si rappresentavano sotto spaventosissimo aspetto». E così continua: «Ci si faceva in oltre osservare che un tal viaggio non era mai stato intrapreso da veruno in estate, a cagione della sua lunghezza, e delle insormontabili difficoltà che presenta». Sarebbe qui interessante fare una summa delle dichiarazioni lasciate dagli esploratori e viaggiatori che hanno raggiunto la meta della propria avventura, che poi non differiscono molto da quelle degli alpinisti. Troveremo lo stesso senso di soddisfazione per avere vinto la natura, o meglio vedremo affiorare l’orgoglio di avere fatto un passo più in là dei limiti stessi che la natura ha imposto alla fisicità. L’uomo, in questo modo, ritiene di aver provato la propria capacità di conseguire l’obiettivo prefisso. A ben guardare si tratta però di un orgoglio tutto occidentale, e dubitiamo che la letteratura etnografica ci possa confermare che un simile sentimento sia nutrito anche dai popoli cosiddetti primitivi o dagli indigeni. Nelle leggende eschimesi, o in quelle lapponi, per fare un esempio, manca questo senso dell'estremo Nord da raggiungere. Manca perché, in senso lato, non esiste per eschimesi e lapponi un “estremo Nord”. Questa estremizzazione è una concezione, appunto, occidentale, che si riferisce peraltro a un modo di concepire i punti cardinali che fa dell'uomo “civile” il centro in base al quale le distanze vengono valutate. Ma si tratta pur sempre di una valutazione antropocentrica e non culturale o spirituale.
A partire dal 1875, quando l’agenzia londinese Thomas Cook organizzò i primi viaggi, Capo Nord diviene parte integrante del tour intrapreso da ricchi turisti verso le ultime aree d’Europa ancora
poco conosciute. Non mancano naturalmente gli italiani. Andare a Capo Nord diviene ora una moda, come nota l’etnologo fiorentino Stephen Sommier (1848-1922), che ci era però arrivato a piedi. Nel 1908 Gino Bertolini, uno di questi turisti alla ricerca dell’emozione boreale, descrive con ironia l’ansia di poter dire «io c’ero». Arrivati infatti al Capo tutti i croceristi, giovani e anziani, magri e pingui, si sentono in dovere di compiere l’ascensione: «Del resto, sarebbero anche morti, piuttosto che cedere: bisognava poter dire di esser stati in cima!». Il 21 luglio del 1904 Giulia Kapp Salvini sbarca a Capo Nord col Fürst Bismarck. Ma dove arriva il turista, arriva anche chi lo sfrutta: «Approdammo al molto primitivo scalo gettato sulla spiaggia, e lì subito trovammo degli intraprendenti indigeni, che offrivano ai forestieri ossi e orecchie [sic! ] di balene, pietre col Capo Nord dipinto sopra, corna di renna, e anche qualche pelle di volpe, blù o bianche». Non sempre il turista resta soddisfatto e nel 1925 Stefania Türr deve candidamente ammettere: «A me questa roccia di schisto nero tutto crepacci, non mi dice niente». La preoccupazione principale dei turisti è del resto quella di vedere il sole di mezzanotte; se esso non compare, il viaggio sembra essere stato fatto inutilmente, come si lamenta lo scrittore Michele Saponaro nel 1926, mentre più fortunata è Ester Lombardo nel 1928.
Capo Nord è infatti meta ambita dalle viaggiatrici, che da qualche decennio hanno cominciato a fare concorrenza agli uomini in quanto a spirito di avventura. Chi va a Capo Nord, come chi cerca la via per altri luoghi impervi del mondo, oltre al gusto dell’esplorazione, cerca se stesso. Il modo di guardare a questi luoghi è dunque legato alla propria cultura e alla propria sensibilità. Questo spiega perché Capo Nord dal veneziano Pietro Querini (1402-1448), che aveva fatto naufragio su un’isola delle Lofoten perdendo buona parte del suo equipaggio, venga definito “Culo mundi”, ma può diventare, secoli dopo, per Giuseppe Acerbi, un preromantico «gigantesco avversario de’ flutti e degli uragani». Personalmente ho un ricordo piacevole di Capo Nord, dove arrivai, sotto uno splendido sole di mezzanotte, con Marco Barsacchi nell’ormai lontano 1970, seguendo l’itinerario di Acerbi attraverso la Lapponia. Capo Nord è del resto, nel suo simbolismo geografico e culturale, una meta “cult” per la destra, da sempre incantata dalla Terra di Thule. Anche per la destra che trent’anni fa era ancora “nuova”.
Nel luglio del 1982 Marco Tarchi, Monica Mainardi e i due fratelli Luciano e Stefano Lanna, su iniziativa della rivista La Voce della Fogna mi vennero a trovare a Turku, in Finlandia. Poi proseguirono per l’avventuroso viaggio. Sopravvissuti alle zanzare, alle paludi (e alle saune) toccarono Capo Nord. La signora Lanna aveva cucito sugli zaini dei figli un orgoglioso tricolore. Non credo che Mamma Lanna sia della Padania.
Capo Nord diviene meta nota a chi cerca il passaggio a nord-est, primo tra tutti Willem Barents, la cui relazione di viaggio fu pubblicata a Venezia nel 1599. Il primo italiano a toccare i 710 10’ lat. N. e 230 40’ long. E, fu il ravennate Francesco Negri (1623-1698), che aveva compiuto un viaggio in Lapponia nel 1663-1664. L’avventuroso sacerdote identifica l’estremo limite dell’Europa con quello del mondo abitato, e sotto questa luce Capo Nord assume una fisionomia da terra ultima che però perderà già nel secolo seguente, quando il Polo artico comincerà ad interessare i navigatori e gli esploratori. Così Negri scriverà nella sua relazione di viaggio pubblicata postuma nel 1700: «Però co’ termini del medesimo viaggio rimane terminata la mia curiosità, onde son disposto a ritornar in Danimarca, e indi, a Dio piacendo, alla patria». La sua curiosità è quindi quella naturale di chi vuole arrivare al termine di un lungo viaggio, e questo termine non è soltanto un luogo fisico, ma anche spirituale. Vicino Capo Nord del resto il buon prete ravennate (che recenti studi hanno però indicato come una specie di agente segreto della Chiesa di Roma) incontra un pastore luterano «col quale ho potuto parlar latino». E poi la si definisce «lingua morta»! Anche nel Settecento, Capo Nord non è molto di più di una roccia desolata, che segna comunque l’estremità d’Europa. D’altra parte, il viaggio non è per nulla agevole, come conferma Giuseppe Acerbi (1773-1846), futuro direttore dell’austriacante “Biblioteca italiana”, che vi arrivò nel 1799, primo italiano ad averlo raggiunto seguendo la via di terra attraverso la tundra e le paludi lapponi.
Come scrive nella sua relazione di viaggio pubblicata nel 1832 nella versione italiana: «Parlando di andare al Capo-Nord, tutti trovavano strano il nostro disegno, e ci dipingevano l’impresa impraticabile sì per le difficoltà della strada, sì per l’incontro pericoloso de’ Laponi, che ci si rappresentavano sotto spaventosissimo aspetto». E così continua: «Ci si faceva in oltre osservare che un tal viaggio non era mai stato intrapreso da veruno in estate, a cagione della sua lunghezza, e delle insormontabili difficoltà che presenta». Sarebbe qui interessante fare una summa delle dichiarazioni lasciate dagli esploratori e viaggiatori che hanno raggiunto la meta della propria avventura, che poi non differiscono molto da quelle degli alpinisti. Troveremo lo stesso senso di soddisfazione per avere vinto la natura, o meglio vedremo affiorare l’orgoglio di avere fatto un passo più in là dei limiti stessi che la natura ha imposto alla fisicità. L’uomo, in questo modo, ritiene di aver provato la propria capacità di conseguire l’obiettivo prefisso. A ben guardare si tratta però di un orgoglio tutto occidentale, e dubitiamo che la letteratura etnografica ci possa confermare che un simile sentimento sia nutrito anche dai popoli cosiddetti primitivi o dagli indigeni. Nelle leggende eschimesi, o in quelle lapponi, per fare un esempio, manca questo senso dell'estremo Nord da raggiungere. Manca perché, in senso lato, non esiste per eschimesi e lapponi un “estremo Nord”. Questa estremizzazione è una concezione, appunto, occidentale, che si riferisce peraltro a un modo di concepire i punti cardinali che fa dell'uomo “civile” il centro in base al quale le distanze vengono valutate. Ma si tratta pur sempre di una valutazione antropocentrica e non culturale o spirituale.
A partire dal 1875, quando l’agenzia londinese Thomas Cook organizzò i primi viaggi, Capo Nord diviene parte integrante del tour intrapreso da ricchi turisti verso le ultime aree d’Europa ancora
poco conosciute. Non mancano naturalmente gli italiani. Andare a Capo Nord diviene ora una moda, come nota l’etnologo fiorentino Stephen Sommier (1848-1922), che ci era però arrivato a piedi. Nel 1908 Gino Bertolini, uno di questi turisti alla ricerca dell’emozione boreale, descrive con ironia l’ansia di poter dire «io c’ero». Arrivati infatti al Capo tutti i croceristi, giovani e anziani, magri e pingui, si sentono in dovere di compiere l’ascensione: «Del resto, sarebbero anche morti, piuttosto che cedere: bisognava poter dire di esser stati in cima!». Il 21 luglio del 1904 Giulia Kapp Salvini sbarca a Capo Nord col Fürst Bismarck. Ma dove arriva il turista, arriva anche chi lo sfrutta: «Approdammo al molto primitivo scalo gettato sulla spiaggia, e lì subito trovammo degli intraprendenti indigeni, che offrivano ai forestieri ossi e orecchie [sic! ] di balene, pietre col Capo Nord dipinto sopra, corna di renna, e anche qualche pelle di volpe, blù o bianche». Non sempre il turista resta soddisfatto e nel 1925 Stefania Türr deve candidamente ammettere: «A me questa roccia di schisto nero tutto crepacci, non mi dice niente». La preoccupazione principale dei turisti è del resto quella di vedere il sole di mezzanotte; se esso non compare, il viaggio sembra essere stato fatto inutilmente, come si lamenta lo scrittore Michele Saponaro nel 1926, mentre più fortunata è Ester Lombardo nel 1928.
Capo Nord è infatti meta ambita dalle viaggiatrici, che da qualche decennio hanno cominciato a fare concorrenza agli uomini in quanto a spirito di avventura. Chi va a Capo Nord, come chi cerca la via per altri luoghi impervi del mondo, oltre al gusto dell’esplorazione, cerca se stesso. Il modo di guardare a questi luoghi è dunque legato alla propria cultura e alla propria sensibilità. Questo spiega perché Capo Nord dal veneziano Pietro Querini (1402-1448), che aveva fatto naufragio su un’isola delle Lofoten perdendo buona parte del suo equipaggio, venga definito “Culo mundi”, ma può diventare, secoli dopo, per Giuseppe Acerbi, un preromantico «gigantesco avversario de’ flutti e degli uragani». Personalmente ho un ricordo piacevole di Capo Nord, dove arrivai, sotto uno splendido sole di mezzanotte, con Marco Barsacchi nell’ormai lontano 1970, seguendo l’itinerario di Acerbi attraverso la Lapponia. Capo Nord è del resto, nel suo simbolismo geografico e culturale, una meta “cult” per la destra, da sempre incantata dalla Terra di Thule. Anche per la destra che trent’anni fa era ancora “nuova”.
Nel luglio del 1982 Marco Tarchi, Monica Mainardi e i due fratelli Luciano e Stefano Lanna, su iniziativa della rivista La Voce della Fogna mi vennero a trovare a Turku, in Finlandia. Poi proseguirono per l’avventuroso viaggio. Sopravvissuti alle zanzare, alle paludi (e alle saune) toccarono Capo Nord. La signora Lanna aveva cucito sugli zaini dei figli un orgoglioso tricolore. Non credo che Mamma Lanna sia della Padania.
Luigi G. de Anna (3.8.1946), giornalista e scrittore, si è laureato in Lettere nel 1973 (Università di Firenze). Nel 1988 ha presentato la sua tesi di dottorato: "Conoscenza e immagine della Finlandia e del Settentrione nella cultura classico-medievale". Dal 1997 è professore di Lingua e cultura italiane presso l'Università di Turku, in Finlandia. Gran parte del suo lavoro di ricerca è incentrato sulle relazioni culturali tra Italia e Finlandia. A Turku, De Anna è stato fra i fondatori della Società di Lingua e cultura italiane che pubblica la rivista 'Settentrione'.
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