lunedì 28 luglio 2008

Fernanda Pivano e le sue conversazioni di note e di umanità (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 27 luglio 2008
Leggi un pezzetto e ti piace: pensi che lei esagera in benevolenza ma che alla fine, nonostante questo, vengono fuori tante cose importanti. Aneddoti gustosi e riflessioni acute che arrivano (accorrono) con piacevole frequenza, anche a partire da domande irrilevanti, da osservazioni talmente scontate che, se fossero dette da altri, si farebbero detestare per la loro ovvietà.



Ne leggi un altro e ti infastidisci: pensi che lei esagera in benevolenza e che invece, per scavare fino in fondo, ci vorrebbe un po' di freddezza in più. Un po' di professionalità in più. Un po' di strategia in più. Che diamine: mai una domanda insidiosa, mai una richiesta di chiarimento che costringa l'intervistato di turno a uscire del tutto allo scoperto; mai la sottolineatura – magari amichevole, ma allo stesso tempo inderogabile – di una spiegazione poco convincente, di un resoconto unilaterale, di un'auto assoluzione troppo disinvolta.
Complice la musica, appena edito da Rizzoli nell'economica ma gloriosa Bur, si snoda in questo modo dall'inizio alla fine. Oscillando di continuo tra i pregi di un dialogo senza imboscate e i difetti di una conversazione senza scosse, tra le luci e le ombre di quello che potremmo definire “eccesso di empatia”. Fernanda Pivano, classe 1917, accoglie i suoi interlocutori così, tutti quanti allo stesso modo. Che li abbia già incontrati in precedenza oppure no, che ci parli di persona oppure al telefono, che si tratti di vecchie glorie o di nuove leve, ha per tutti lo stesso atteggiamento di smisurata cordialità. Candori da neofita ed entusiasmi da ammiratrice. La comprensione materna di un'anziana signora che le ha viste tutte e la meraviglia fanciullesca di una giovinetta d'altri tempi, che si affaccia or ora alla vita. Le premure di chi ospita. La discrezione di chi viene ospitato.
I “30+1” cantautori che rispondono alle sue domande – e nel gruppo dei 30 ci sono praticamente tutti i più importanti, con la rilevante eccezione di De Gregori, mentre quell'unità aggiuntiva è dovuta a un'intervista immaginaria con l'adorato De André – non corrono il benché minimo rischio. Da Baglioni a Carmen Consoli, da Paolo Conte a Ivano Fossati, da Neffa a Peppe Servillo, da Venditti a Federico Zampaglione, si ritrovano coccolati al di là delle più rosee aspettative. Qualsiasi cosa dicano è più che ben accetta. Qualsiasi cosa abbiano fatto, lungo la strada, sembra caricarsi di un che di esemplare, come se si trattasse invariabilmente del prologo – talvolta oscuro all'apparenza, sempre luminoso nella sostanza – degli exploit successivi.
«Uno straordinario documento – scrive Michele Concina nella prefazione – che racconta i cantori delle emozioni del quotidiano, gli “eroi dell'immaginario collettivo”. Sono tutte chiacchierate inedite, private, intorno a un tavolo. (...) Non sono le solite pagine di recensione o che raccolgono un qualche commento. Sono perle. Sono parole senza tempo.»
Eccessivo. O, tutt'al più, vero solo a tratti. E non si rende certo un buon servizio al lettore – e in fin dei conti neppure alla stessa Pivano e agli stessi “30+1”, che quando più quando meno hanno qualità sufficienti per farsi valere anche in assenza di un panegirico – nell'ammantare il libro di un carisma esorbitante, presentandolo come se fosse una successione infinita di pensieri illuminanti e di frasi memorabili. Anzi, proprio perché la Pivano esagera di suo, sarebbe bene che il prefatore dispensasse un'avvertenza preliminare: chiarendo subito che certe ingenuità sono dettate dall'affetto, e che, però, si tratta delle ingenuità di una persona che ha comunque una tale ricchezza di interessi e di esperienze da non affondare nella sua stessa rinuncia a un maggior ritegno emotivo e a un maggior rigore intellettuale.
Oppure, rovesciando la prospettiva, si potrebbe ipotizzare tutt'altro: vale a dire che questo clima così rilassato è una scelta consapevole, finalizzata a non imprimere una direzione troppo precisa all'alternarsi delle domande e delle risposte, così da imbrigliare il meno possibile la personalità degli artisti con cui si discorre. Una sorta di applicazione, a quella particolarissima forma di incontro/scontro che è l'intervista, del principio della cedevolezza, di quel “ju” che sta alla base di svariate arti marziali dell'Estremo Oriente.
Oppure, ancora, si potrebbe vedere il libro come un equivalente dialogico delle canzoni. Di quelle canzoni “d'autore” che mischiano insieme l'alto e il basso, il sentimentalismo e la riflessione esistenziale, le formule abusate della comunicazione di massa e le innovazioni brillanti del talento vero, che risponde solo a se stesso. Una canzone, infatti, non è mai riducibile a un singolo verso, o a un singolo passaggio della musica o dell'arrangiamento. Analogamente, una singola frase di una lunga intervista può non compromettere, o anche solo sminuire, il valore complessivo del ritratto che contribuisce a tracciare.
«Preferisci scrivere musica o libri?» è senz'altro un attacco banale. Ma se davanti a te c'è Francesco Guccini, e se è solo un modo di rompere il ghiaccio, può dare ugualmente i suoi frutti. Magari, come il primo chiodo di una scalata alpinistica, non ha nulla di speciale e lo potrebbe piantare, pari pari, anche l'ultimo dei principianti; ma se si tratta davvero di un'azione irrilevante o di un semplice punto di partenza lo chiarirà solo il seguito.
L'efficacia delle domande, del resto, dipende moltissimo da chi le fa. Da chi riesce, per un motivo o per l'altro, a farsi ascoltare davvero, aprendo la strada a una risposta sincera e non di routine. Forte di tutta la sua storia – che la avvolge come un'aura e che ormai, per sprigionare i suoi effetti, non ha più nemmeno bisogno di poggiare su elementi reali, realmente conosciuti dall'interlocutore di turno – Fernanda Pivano riceve attenzione, induce alla massima collaborazione, suscita un desiderio istintivo di non deluderla. O, quanto meno, di non contrariarla.
Gran bella cosa, sul piano umano. Ma un'arma a doppio taglio su quello culturale.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

3 commenti:

Claudio Ughetto ha detto...

La Nanda...

Segnalo la spassosissima rubrica l'"Angolo della Sfinge" su PULP, dove Fernanda Pivano è mensilmente derisa fino al disgusto, però è anche lei che se le va a cercare. Non solo per le interviste, ma soprattutto per i suoi articoli su scrittori e musicisti, con l'immancabile incipit "Ah, Fabrizio", "Ah Michael (Chabon)" ecc.
Ultimamente D'Orrico ha preso il posto della Pivano. Devo ammettere che per Fernanda un po' mi spiace, perché esprime tenerezza. Per D'Orrico proprio no :-))))))))

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Tenerezza e, per quello che mi riguarda, un pizzico di invidia. Conoscere il vecchio Hank... Hem... e quella gente lì deve essere stata una gran bella esperienza.
:)

Anonimo ha detto...

Pizzico d'invidia sicuramente. Li ha conosciuti tutti lei, compreso il povero Pavese del quale forse ha dato un ritratto non proprio veritiero.
Il problema è che la Nanda ci marcia un po', e non è che faccia un granché evolvere la critica letteraria con i suoi aneddoti.
Fernanda Pivano e Vincenzo Mollica, ecco due personaggi che non riescono a starmi antipatici (come invece D'Orrico), però a modo loro sono un po' la parodia del critico. Anche Oreste Del Buono correva su queso filo, col suo giro di amici artisti anticonformisti (Pazienza si tutti), le iniziative fumettistiche ecc. Però del Buono era anche un letterato raffinato, e a volte rischiava: per anni ha provato a farci apprezzare uno scrittore come Tournier, senza troppe sviolinate, usando tutta la sua competenza per far capire quanto tra vari francesi senza talento che ci arrivavano questo fosse molto più degno d'attenzione. La Pivano promuove Chabon in ritardo, e dandone una pessima immagine (come se fosse suo figlio), così come stravolge Palahniuk facendogli un pessimo servizio.
Va rispettata perché è anziana, ma credo che in gioventù Hank ed Hem, o Dylan, l'abbiano patita un po'. Non so se hai presente quell'aneddoto che si racconta su un importante nobiluomo francese che una sera conobbe Casanova. Quest'ultimo si vantava dappertutto d'essere amico di quel francese, ma quando il nobile morì, sul suo diario si trovo quest'unica annotazione rispetto ai due: "Viaggio in Italia. Stasera ho conosciuto un davvero bizzaro tipo d'italiano" :-))