Articolo di Omar Camiletti
Dal Secolo d'Italia di martedì 29 luglio 2008
Dal Secolo d'Italia di martedì 29 luglio 2008
Il giorno dopo i funerali di Youssef Chahine (nella foto), il regista egiziano che aveva lanciato anche la prima star cinematografica dell’universo musulmano, Omar Sharif, viene da chiedersi: qual è il ruolo del cinema nella cultura islamica? Pensiamo, per fare un esempio, all’Aghanistan. Herat è la seconda città più grande del paese eppure non ha ancora un cinema. «Ho 27 anni e non mi è mai successo di vedere un film nella mia città» sbotta il regista Fahim Hashimi. Che aggiunge: «La vecchia sala cinematografica venne adattata a moschea ma poi dopo la guerra civile non vi si proiettò più nessuna pellicola». Potrebbe sembrare un paradosso che proprio dove risiede il contingente italiano con il comando della Nato nella regione ovest dell’Afghanistan (trenta milioni di abitanti) non ci sia spazio per la cosiddetta settima arte. Eppure a Kabul si è svolta in maggio la seconda edizione dell’international Film Festival il cui tema quest’anno era “La creatività non basta”. Nonostante ciò, ancora una volta, le visioni delle 20 produzioni provenienti dall’Afghanistan e paesi confinanti sono state “disturbate” dallo scoppio di una bomba di fronte all’ambasciata indiana, poco distante dalla sala sede del festival, non più sicura dell’altra mezza dozzina di cinema di Kabul.
«Il governo Karzai controlla meno di un terzo del paese, le milizie talebane circa il 10 per cento, mentre i signori della guerra si dividono il resto del territorio» aveva dichiarato il 27 febbraio il vice ammiraglio Michael McConnell. Tuttavia a giudicare dalla cerimonia della premiazione nessuno sembra preoccuparsi del futuro di questo festival di Kabul. Ma più che il cinico “show must go on” sembra essere un’al tra la motivazione di fondo, come dimostra Mamnoun Maqsoudi, noto attore afghano, che riesca a muoversi con un disinvolto savoir faire fra le varie barriere culturali che spuntano fra orientali e occidentali, e capace di lustrare col suo humour il festival della polverosa capitale e dei suoi 4 milioni di abitanti che non disdegnerebbero avere più spesso simili eventi. Un pubblico per niente scosso dalla grottesca situazione di assistere subito dopo la proiezione di Gozargah, sanguinolento e traumatizzante documentario sulla guerra civile afghana, vincitore della rassegna dello scorso anno, a una produzione di Arte, il canale satellitare franco-germanico, su una sfilata della casa di moda parigina Chanel dove il couturier Karl Lagerfeld discettava su vestiti a 28mila euro.
Del resto tutto ciò che è produzione e comunicazione culturale è sempre più il solo modo in grado di veicolare nel mondo la realtà o perlomeno una certa idea di un paese. Si può forse ignorare il successo mondiale di Khaled Hosseini con Il cacciatore di aquiloni come libro e come film o di un film come Osama di Siddiq Barmak che ha fatto conoscere in Occidente il modo di vivere sotto il regime più duro dell’ottuso estremismo islamista, quello dei talebani? La realizzazione del suo annunciato nuovo film Opium War, una satira sui problemi della droga e dei militari Usa, sarà quanto mai attuale se Antonio Costa nell’ultimo rapporto del Unodc (organismo delle nazioni unite contro la droga e il crimine) ha avvertito di non sottovalutare i rischi che l’Afghanistan finisca per strutturarsi come un narco-stato. Di certo la guerra ai talebani non si vede molto nei film selezionati. Ali Karimi, che pubblica una rivista amatoriale di cinema non ha peli sulla lingua – «a parte il pericolo di chi gira un film di diventare letteralmente un bersaglio negli scontri a fuoco, non è il caso di farsi nemici nel governo e nella Nato» – chiarendo che i finanziamenti provengono dall’estero: «Non arriva un solo centesimo dal governo e ciò costituisce da una parte un’opportunità per paesi donatori di promuovere una certa educazione politica alla democrazia». E Ali Karimi racconta in concreto il risvolto amaro di tale buona intenzione: «Mi è stato raccontato che una volta si doveva fare un film ma la condizione era che almeno tre articoli tratti dalla convenzione internazionale sui diritti umani fossero inclusi nella sceneggiatura e recitati parola per parola da un attore, naturalmente questo limita la libertà espressive». Probabilmente sono gli stessi intenti della partecipazione di “Arte” con film fuori concorso e della sponsorizzazione e del finanziamento del festival da parte del Goethe Institut di Kabul e il Centro Culturale francese anche se i problemi non mancano. Se alcuni cortometraggi visti l’anno passato come We are postmodernism di Alka Sadat o Rah/The Way del succitato Fahim Hashimi sono più vicini a un cinema di gusti occidentali non sempre registi afghani trovano un linguaggio comune con i loro mecenati e se il presidente dell’ente cinematografico dello stato afghano continua a raccomandarsi con Arte che vengano acquistati due o tre film afghani all’anno, la risposta resta un diplomatico scuotimento della testa: le aspettative estetiche sono troppo differenti almeno per il mercato televisivo e per quello dei film di qualche incasso. E dire che all’inaugurazione del festival l’ambasciatore tedesco aveva lodato la straordinaria creatività degli sceneggiatori per l’accurato ritratto delle condizioni di vita afghana. Molti registi afghani dicono orgogliosamente che sanno fare tutto da sé: sceneggiatura, cameramen, montaggio ma nessuno nasconde la mancanza di una scuola di cinematografia. «All’università non abbiamo neanche un dvd dove gli studenti possano guardare un pò di classici della storia del cinema», taglia corto una giovane.
La maggior parte delle opere sugli schermi riguardano matrimoni forzati, violenze familiari e la lotta per l’istruzione in una combinazione in cui gli happy end non costituiscono la regola. Young Wishes, ad esempio, descrive una ragazzina di tredici anni che vive caricandosi di pesanti secchioni di acqua che porta nel villaggio per guadagnare qualche rupia, senza mai sorridere ma rappresentando la dignità della povertà, in effetti la normale vita che si svolge nell’Hindukush ma risulta un contesto difficile da capire ormai per gli spettatori europei che al contrario sono sommersi da intenzionali stereotipi choc sul burqa, sull’esotismo spicciolo e l’atteggiamento nobile di qualche selvaggio montanaro, i soliti ingredienti che le grandi produzioni internazionali non lesinano e che rendono visibilmente alieni l’Islam e la cultura afghana. A questo si deve aggiungere la trasformazione degli stessi spettatori afghani, come suggerisce Jawanshir Haidary della Filmmakers Union: «Negli anni ’60 e ’70 il pubblico era composta in maggioranza da famiglie che vi trascorrevano la serata. Ora al contrario i cinema sono frequentati dai giovani senza lavoro, da gente senza fissa dimora».
Le immagini sullo schermo continuano a essere un campo di battaglia in Afghanistan, si ripete un po’ il conflitto tra cinema neorealista e cinema di trasfigurazione con dovizia di mezzi. I registi provano a reagire contro questa tendenza ma aumentano sempre più i fans, nelle sale o con i dvd, del cinema Bollywood tanto che all’inaugurazione il ministro per la cultura, Abdul Karim Khurram (nella foto), già sostenitore di una impopolare campagna contro le soap opere indiane alla tv afghana, aveva espresso l’augurio di vedere più produzioni nazionali piuttosto che la marea di film targati Bollywood o Hollywood. Ma sarebbe il caso di rispondergli alla maniera di Bogart: non si può far niente signor ministro, è l’immaginario.
«Il governo Karzai controlla meno di un terzo del paese, le milizie talebane circa il 10 per cento, mentre i signori della guerra si dividono il resto del territorio» aveva dichiarato il 27 febbraio il vice ammiraglio Michael McConnell. Tuttavia a giudicare dalla cerimonia della premiazione nessuno sembra preoccuparsi del futuro di questo festival di Kabul. Ma più che il cinico “show must go on” sembra essere un’al tra la motivazione di fondo, come dimostra Mamnoun Maqsoudi, noto attore afghano, che riesca a muoversi con un disinvolto savoir faire fra le varie barriere culturali che spuntano fra orientali e occidentali, e capace di lustrare col suo humour il festival della polverosa capitale e dei suoi 4 milioni di abitanti che non disdegnerebbero avere più spesso simili eventi. Un pubblico per niente scosso dalla grottesca situazione di assistere subito dopo la proiezione di Gozargah, sanguinolento e traumatizzante documentario sulla guerra civile afghana, vincitore della rassegna dello scorso anno, a una produzione di Arte, il canale satellitare franco-germanico, su una sfilata della casa di moda parigina Chanel dove il couturier Karl Lagerfeld discettava su vestiti a 28mila euro.
Del resto tutto ciò che è produzione e comunicazione culturale è sempre più il solo modo in grado di veicolare nel mondo la realtà o perlomeno una certa idea di un paese. Si può forse ignorare il successo mondiale di Khaled Hosseini con Il cacciatore di aquiloni come libro e come film o di un film come Osama di Siddiq Barmak che ha fatto conoscere in Occidente il modo di vivere sotto il regime più duro dell’ottuso estremismo islamista, quello dei talebani? La realizzazione del suo annunciato nuovo film Opium War, una satira sui problemi della droga e dei militari Usa, sarà quanto mai attuale se Antonio Costa nell’ultimo rapporto del Unodc (organismo delle nazioni unite contro la droga e il crimine) ha avvertito di non sottovalutare i rischi che l’Afghanistan finisca per strutturarsi come un narco-stato. Di certo la guerra ai talebani non si vede molto nei film selezionati. Ali Karimi, che pubblica una rivista amatoriale di cinema non ha peli sulla lingua – «a parte il pericolo di chi gira un film di diventare letteralmente un bersaglio negli scontri a fuoco, non è il caso di farsi nemici nel governo e nella Nato» – chiarendo che i finanziamenti provengono dall’estero: «Non arriva un solo centesimo dal governo e ciò costituisce da una parte un’opportunità per paesi donatori di promuovere una certa educazione politica alla democrazia». E Ali Karimi racconta in concreto il risvolto amaro di tale buona intenzione: «Mi è stato raccontato che una volta si doveva fare un film ma la condizione era che almeno tre articoli tratti dalla convenzione internazionale sui diritti umani fossero inclusi nella sceneggiatura e recitati parola per parola da un attore, naturalmente questo limita la libertà espressive». Probabilmente sono gli stessi intenti della partecipazione di “Arte” con film fuori concorso e della sponsorizzazione e del finanziamento del festival da parte del Goethe Institut di Kabul e il Centro Culturale francese anche se i problemi non mancano. Se alcuni cortometraggi visti l’anno passato come We are postmodernism di Alka Sadat o Rah/The Way del succitato Fahim Hashimi sono più vicini a un cinema di gusti occidentali non sempre registi afghani trovano un linguaggio comune con i loro mecenati e se il presidente dell’ente cinematografico dello stato afghano continua a raccomandarsi con Arte che vengano acquistati due o tre film afghani all’anno, la risposta resta un diplomatico scuotimento della testa: le aspettative estetiche sono troppo differenti almeno per il mercato televisivo e per quello dei film di qualche incasso. E dire che all’inaugurazione del festival l’ambasciatore tedesco aveva lodato la straordinaria creatività degli sceneggiatori per l’accurato ritratto delle condizioni di vita afghana. Molti registi afghani dicono orgogliosamente che sanno fare tutto da sé: sceneggiatura, cameramen, montaggio ma nessuno nasconde la mancanza di una scuola di cinematografia. «All’università non abbiamo neanche un dvd dove gli studenti possano guardare un pò di classici della storia del cinema», taglia corto una giovane.
La maggior parte delle opere sugli schermi riguardano matrimoni forzati, violenze familiari e la lotta per l’istruzione in una combinazione in cui gli happy end non costituiscono la regola. Young Wishes, ad esempio, descrive una ragazzina di tredici anni che vive caricandosi di pesanti secchioni di acqua che porta nel villaggio per guadagnare qualche rupia, senza mai sorridere ma rappresentando la dignità della povertà, in effetti la normale vita che si svolge nell’Hindukush ma risulta un contesto difficile da capire ormai per gli spettatori europei che al contrario sono sommersi da intenzionali stereotipi choc sul burqa, sull’esotismo spicciolo e l’atteggiamento nobile di qualche selvaggio montanaro, i soliti ingredienti che le grandi produzioni internazionali non lesinano e che rendono visibilmente alieni l’Islam e la cultura afghana. A questo si deve aggiungere la trasformazione degli stessi spettatori afghani, come suggerisce Jawanshir Haidary della Filmmakers Union: «Negli anni ’60 e ’70 il pubblico era composta in maggioranza da famiglie che vi trascorrevano la serata. Ora al contrario i cinema sono frequentati dai giovani senza lavoro, da gente senza fissa dimora».
Le immagini sullo schermo continuano a essere un campo di battaglia in Afghanistan, si ripete un po’ il conflitto tra cinema neorealista e cinema di trasfigurazione con dovizia di mezzi. I registi provano a reagire contro questa tendenza ma aumentano sempre più i fans, nelle sale o con i dvd, del cinema Bollywood tanto che all’inaugurazione il ministro per la cultura, Abdul Karim Khurram (nella foto), già sostenitore di una impopolare campagna contro le soap opere indiane alla tv afghana, aveva espresso l’augurio di vedere più produzioni nazionali piuttosto che la marea di film targati Bollywood o Hollywood. Ma sarebbe il caso di rispondergli alla maniera di Bogart: non si può far niente signor ministro, è l’immaginario.
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