Dal Secolo d'Italia di venerdì 4 luglio 2008
C’era una volta l’Africa italiana. Il nostro West. L’innominabile – sino a poco tempo fa – avventura coloniale. Un’esperienza rimossa, incredibilmente trascurata dalla cultura italiana. Un black out che, a differenza di quanto avvenuto in paesi come la Gran Bretagna e la Francia, ha impedito anche la semplice conoscenza di un’epopea che appartiene a pieno titolo alla nostra memoria collettiva.
«Personalmente – ha dichiarato Carlo Lucarelli, tra i protagonisti della riscossa “africana”– mi ritrovo a sapere tutto del generale Custer e nulla di Vittorio Bottego, che è un esploratore italiano, anche se per anni ho abitato di fronte alla sua statua. Queste parti di silenzio che ci sono nel nostro immaginario mi hanno colpito molto». Al punto da indurlo a ispirarsi proprio alle vicende coloniali per il suo ultimo romanzo, L’ottava vibrazione (Einaudi, pp. 456 euro 19), interamente ambientato in Eritrea, nel 1896, tra i soldati italiani che moriranno ad Adua. E che non si tratti di iniziative isolate ma di una vera e propria “tendenza” è dimostrato dal rincorrersi di altre pubblicazioni: da Volto Nascosto, serie a fumetti della Bonelli ideata da Gianfranco Manfredi e giunta al decimo numero mensile, a L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi (Baldini Castoldi Dalai, pp. 518 euro 19,50), romanzo ucronico ambientato in un’Africa Orientale colonia dell’Italia fascista uscita vittoriosa dalla guerra. «In questo libro – ha detto lo scrittore bolognese – rimuovo certi tabù, come quello che impediva di parlare di quel periodo se non alla luce del trionfo resistenziale. Il grande rimosso è il consenso al fascismo...». E a tal riguardo non si può non pensare al 18 dicembre del 1935, quando gli italiani – in risposta alle sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni per la guerra in Etiopia – donarono alla patria i loro anelli nuziali. Perché il sogno africano, nato col garibaldino Crispi e segnato da rovinose sconfitte e dalla crescente sensazione dei nostri coloni di essere stati abbandonati dalla madrepatria, si rivitalizza proprio con il fascismo.
«I commerci s’intensificarono, la vita iniziò ad animarsi con spettacoli e concerti direttamente provenienti dai cartelloni dei teatri italiani. L’intero paese era un cantiere, si costruivano strade e ponti, si ampliavano le linee ferroviarie, si attrezzavano i vecchi porticcioli sul mar Rosso. Interi villaggi venivano su dall’oggi al domani, riproducendo in terra eritrea un microambiente italiano: la piazza, la chiesa, le vie con i portici, i caffè, le pizzerie, il mercato coperto, i giardini, la scuola, il cinema, l’ambulatorio».
Così lo scrittore torinese Giorgio Ballario descrive l’entusiasmo di quel periodo nel suo primo romanzo, da poche settimane in libreria, Morire è un attimo (Edizioni Angolo Manzoni, pp. 224 euro 14). La storia – infatti – è “collocata” nel marzo del 1935, pochi mesi prima dell’inizio delle ostilità quando, malgrado le crescenti tensioni internazionali, una umanità quanto mai variopinta affolla il porto di Massaua: «Giovani di belle speranze, padri di famiglia in cerca di un salario migliore, impiegati pubblici desiderosi di far carriera, militari ambiziosi o in punizione, commercianti dinamici e mercanti senza scrupoli, industriali geniali o con gli amici giusti a Roma, missionari coraggiosi e pretini incapaci, spediti a farsi le ossa in Africa. E ancora avventurieri di ogni risma, sognatori romantici, universitari dei Guf sbarcati in Eritrea per rifondare l’Impero, idealisti e donne di facili costumi, ragazze di buona famiglia in cerca di marito e papponi, teorici dell’uomo nuovo fascista e insegnanti precari alla caccia di una qualsiasi cattedra». Personaggi naturalmente frutto della fantasia dell’autore ma capaci di restituire con straordinaria efficacia lo spirito di un tempo in cui ogni avventura sembra a portata di mano.
Proprio in quegli anni – nella non lontana Addis Abeba – tra quegli italiani c’è anche un giovanissimo Hugo Pratt. Arruolato dal padre nella polizia coloniale a soli 14 anni, il futuro “papà” del mitico marinaio Corto Maltese vivrà in Africa dal ’37 al ’43 per poi fare ritorno in Italia e aderire alla Rsi, la vocazione artistica segnata irrevocabilmente dal fascino di quelle culture e di quei volti.
Ma torniamo al romanzo di Ballario – un noir incalzante che si fa leggere con avidità – e ai “suoi” personaggi. A cominciare dal protagonista: il quarantenne Aldo Morosini, maggiore dei Carabinieri, alle prese con un’indagine su un duplice omicidio. Un noto imprenditore e un impiegato di banca vengono trovati decapitati, delitti sbrigativamente addebitati agli agenti del Negus che, proprio in quelle settimane, nel libro come nella realtà, erano impegnati in azioni di guerriglia contro l’esercito italiano. Sigaretta Macedonia tra le labbra, afflitto dal caldo africano e soprattutto dall’incontro casuale quanto destabilizzante con una ex fiamma – un’attrice di varietà giunta a Massaua con la compagnia del grande attore Pippo Lanzafame per una tournée nelle colonie italiane – Morosini è destinato a stabilire un rapporto duraturo con i lettori.
«Non è un super eroe – ci dice Ballario, classe 1964, negli anni ’90 collaboratore di Diorama Letterario ed Elementi, poi con Daniele Vimercati redattore del quotidiano L’Indipendente e del settimanale Il Borghese e ora in forza a la Stampa – è una persona normale che cerca semplicemente di fare il proprio dovere, non è un colonialista becero animato da spirito missionario civilizzatore, è disincantato ma crede in valori fascisti come il senso di patria. Non ha intuizioni particolari, come il Maigret di Simenon non si avvale di tecniche investigative sofisticate ma preferisce calarsi nell’ambiente per decodificarlo, consapevole che la soluzione più complessa può svelarsi attraverso la conoscenza delle persone». Non è in Africa per ambizioni di carriera, Morosini, né tanto meno si sente un avventuriero, eppure tiene nella dovuta considerazione l’ammonimento che l’amato Seneca rivolge nel De brevitate vitae a non perdere tempo: «La vita è abbastanza lunga ed è stata concessa per la realizzazione di grandi imprese a condizione che venga utilizzata bene».
I suoi collaboratori più stretti sono il fedele sottoufficiale Barbagallo e Tesfaghì, lo scium-basci, graduato delle truppe indigene. «Hanno avuto un ruolo importante e sin troppo trascurato dalla storiografia, dimostrando un coraggio, un attaccamento alla bandiera e un senso dell’onore che sopravanzavano – protesta Ballario – in molti casi quello di tanti italiani, basti pensare ai vecchi ascari eritrei, che percepiscono una pensione italiana, che almeno una volta a settimana si recano al cimitero italiano per tenere pulite le tombe. In occasione della missione italiana nel ’93 un ottantenne somalo si presentò al contingente italiano e chiese di riprendere servizio. Insistette talmente che dovettero prenderlo a mo’ di mascotte e ogni mattina salutava la bandiera a modo suo, gridando “viva l’Italia” e “viva il duce”, creando un certo imbarazzo».
Un legame, quello tra popolazioni locali e paese “occupante”, ben diverso da certi luoghi comuni sul colonialismo predatorio e straccione. Quando Morosini chiede al suo collaboratore di esprimere «in piena libertà» la propria opinione sull’Italia, gli risponde così: «Signor maggiore, io non istruito e non capire molto di quello che voi bianchi chiamare politica. Da molti anni io soldato del re d’Italia, come già mio padre. Ricevo buona paga e sono rispettato. Mia moglie compra mangiare e figli piccolini vanno a scuola e ricevere buon vaccino per malattie. Una volta no. E pure adesso, per popoli vicini, non così. Se io nascevo più in là, in regno Negus, forse adesso schiavo e i miei figli morire di fame».
Inseguendo le poche piste a disposizione, Morosini ci accompagna in luoghi affascinanti, sapientemente resi. «Eppure – si schernisce lo scrittore, in questo emulo del conterraneo Emilio Salgari, che riuscì a inventare spazi esotici senza mai essersi mosso dalle sponde del torinese Sangone – mi sono affidato alle guide del Touring Club del 1938». Eppure sembra di esserci: dalla rada umida e afosa di Massaua al promontorio di Gherar, dal deserto della Dancalia fino ad Asmara, «una delle capitali più belle e all’avanguardia dell’intera Africa per la vivacità delle strade e eleganza delle ville e dei giardini rigogliosi. Una città in crescita che avrebbe presto sfondato i centomila abitanti».
«Lo sviluppo urbanistico – sottolinea Ballario – è stato realizzato allora, la ferrovia, recentemente ristrutturata e ampliata, è rimasta quella. Hanno salvaguardato tutto. Mica hanno buttato giù le opere perchè fasciste!»
Di certo il risultato è eccellente, tanto che l’editore ha già sollecitato Ballario a rimettere al più presto in servizio il maggiore Morosini per una seconda indagine, stavolta ambientata in Somalia.
«Personalmente – ha dichiarato Carlo Lucarelli, tra i protagonisti della riscossa “africana”– mi ritrovo a sapere tutto del generale Custer e nulla di Vittorio Bottego, che è un esploratore italiano, anche se per anni ho abitato di fronte alla sua statua. Queste parti di silenzio che ci sono nel nostro immaginario mi hanno colpito molto». Al punto da indurlo a ispirarsi proprio alle vicende coloniali per il suo ultimo romanzo, L’ottava vibrazione (Einaudi, pp. 456 euro 19), interamente ambientato in Eritrea, nel 1896, tra i soldati italiani che moriranno ad Adua. E che non si tratti di iniziative isolate ma di una vera e propria “tendenza” è dimostrato dal rincorrersi di altre pubblicazioni: da Volto Nascosto, serie a fumetti della Bonelli ideata da Gianfranco Manfredi e giunta al decimo numero mensile, a L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi (Baldini Castoldi Dalai, pp. 518 euro 19,50), romanzo ucronico ambientato in un’Africa Orientale colonia dell’Italia fascista uscita vittoriosa dalla guerra. «In questo libro – ha detto lo scrittore bolognese – rimuovo certi tabù, come quello che impediva di parlare di quel periodo se non alla luce del trionfo resistenziale. Il grande rimosso è il consenso al fascismo...». E a tal riguardo non si può non pensare al 18 dicembre del 1935, quando gli italiani – in risposta alle sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni per la guerra in Etiopia – donarono alla patria i loro anelli nuziali. Perché il sogno africano, nato col garibaldino Crispi e segnato da rovinose sconfitte e dalla crescente sensazione dei nostri coloni di essere stati abbandonati dalla madrepatria, si rivitalizza proprio con il fascismo.
«I commerci s’intensificarono, la vita iniziò ad animarsi con spettacoli e concerti direttamente provenienti dai cartelloni dei teatri italiani. L’intero paese era un cantiere, si costruivano strade e ponti, si ampliavano le linee ferroviarie, si attrezzavano i vecchi porticcioli sul mar Rosso. Interi villaggi venivano su dall’oggi al domani, riproducendo in terra eritrea un microambiente italiano: la piazza, la chiesa, le vie con i portici, i caffè, le pizzerie, il mercato coperto, i giardini, la scuola, il cinema, l’ambulatorio».
Così lo scrittore torinese Giorgio Ballario descrive l’entusiasmo di quel periodo nel suo primo romanzo, da poche settimane in libreria, Morire è un attimo (Edizioni Angolo Manzoni, pp. 224 euro 14). La storia – infatti – è “collocata” nel marzo del 1935, pochi mesi prima dell’inizio delle ostilità quando, malgrado le crescenti tensioni internazionali, una umanità quanto mai variopinta affolla il porto di Massaua: «Giovani di belle speranze, padri di famiglia in cerca di un salario migliore, impiegati pubblici desiderosi di far carriera, militari ambiziosi o in punizione, commercianti dinamici e mercanti senza scrupoli, industriali geniali o con gli amici giusti a Roma, missionari coraggiosi e pretini incapaci, spediti a farsi le ossa in Africa. E ancora avventurieri di ogni risma, sognatori romantici, universitari dei Guf sbarcati in Eritrea per rifondare l’Impero, idealisti e donne di facili costumi, ragazze di buona famiglia in cerca di marito e papponi, teorici dell’uomo nuovo fascista e insegnanti precari alla caccia di una qualsiasi cattedra». Personaggi naturalmente frutto della fantasia dell’autore ma capaci di restituire con straordinaria efficacia lo spirito di un tempo in cui ogni avventura sembra a portata di mano.
Proprio in quegli anni – nella non lontana Addis Abeba – tra quegli italiani c’è anche un giovanissimo Hugo Pratt. Arruolato dal padre nella polizia coloniale a soli 14 anni, il futuro “papà” del mitico marinaio Corto Maltese vivrà in Africa dal ’37 al ’43 per poi fare ritorno in Italia e aderire alla Rsi, la vocazione artistica segnata irrevocabilmente dal fascino di quelle culture e di quei volti.
Ma torniamo al romanzo di Ballario – un noir incalzante che si fa leggere con avidità – e ai “suoi” personaggi. A cominciare dal protagonista: il quarantenne Aldo Morosini, maggiore dei Carabinieri, alle prese con un’indagine su un duplice omicidio. Un noto imprenditore e un impiegato di banca vengono trovati decapitati, delitti sbrigativamente addebitati agli agenti del Negus che, proprio in quelle settimane, nel libro come nella realtà, erano impegnati in azioni di guerriglia contro l’esercito italiano. Sigaretta Macedonia tra le labbra, afflitto dal caldo africano e soprattutto dall’incontro casuale quanto destabilizzante con una ex fiamma – un’attrice di varietà giunta a Massaua con la compagnia del grande attore Pippo Lanzafame per una tournée nelle colonie italiane – Morosini è destinato a stabilire un rapporto duraturo con i lettori.
«Non è un super eroe – ci dice Ballario, classe 1964, negli anni ’90 collaboratore di Diorama Letterario ed Elementi, poi con Daniele Vimercati redattore del quotidiano L’Indipendente e del settimanale Il Borghese e ora in forza a la Stampa – è una persona normale che cerca semplicemente di fare il proprio dovere, non è un colonialista becero animato da spirito missionario civilizzatore, è disincantato ma crede in valori fascisti come il senso di patria. Non ha intuizioni particolari, come il Maigret di Simenon non si avvale di tecniche investigative sofisticate ma preferisce calarsi nell’ambiente per decodificarlo, consapevole che la soluzione più complessa può svelarsi attraverso la conoscenza delle persone». Non è in Africa per ambizioni di carriera, Morosini, né tanto meno si sente un avventuriero, eppure tiene nella dovuta considerazione l’ammonimento che l’amato Seneca rivolge nel De brevitate vitae a non perdere tempo: «La vita è abbastanza lunga ed è stata concessa per la realizzazione di grandi imprese a condizione che venga utilizzata bene».
I suoi collaboratori più stretti sono il fedele sottoufficiale Barbagallo e Tesfaghì, lo scium-basci, graduato delle truppe indigene. «Hanno avuto un ruolo importante e sin troppo trascurato dalla storiografia, dimostrando un coraggio, un attaccamento alla bandiera e un senso dell’onore che sopravanzavano – protesta Ballario – in molti casi quello di tanti italiani, basti pensare ai vecchi ascari eritrei, che percepiscono una pensione italiana, che almeno una volta a settimana si recano al cimitero italiano per tenere pulite le tombe. In occasione della missione italiana nel ’93 un ottantenne somalo si presentò al contingente italiano e chiese di riprendere servizio. Insistette talmente che dovettero prenderlo a mo’ di mascotte e ogni mattina salutava la bandiera a modo suo, gridando “viva l’Italia” e “viva il duce”, creando un certo imbarazzo».
Un legame, quello tra popolazioni locali e paese “occupante”, ben diverso da certi luoghi comuni sul colonialismo predatorio e straccione. Quando Morosini chiede al suo collaboratore di esprimere «in piena libertà» la propria opinione sull’Italia, gli risponde così: «Signor maggiore, io non istruito e non capire molto di quello che voi bianchi chiamare politica. Da molti anni io soldato del re d’Italia, come già mio padre. Ricevo buona paga e sono rispettato. Mia moglie compra mangiare e figli piccolini vanno a scuola e ricevere buon vaccino per malattie. Una volta no. E pure adesso, per popoli vicini, non così. Se io nascevo più in là, in regno Negus, forse adesso schiavo e i miei figli morire di fame».
Inseguendo le poche piste a disposizione, Morosini ci accompagna in luoghi affascinanti, sapientemente resi. «Eppure – si schernisce lo scrittore, in questo emulo del conterraneo Emilio Salgari, che riuscì a inventare spazi esotici senza mai essersi mosso dalle sponde del torinese Sangone – mi sono affidato alle guide del Touring Club del 1938». Eppure sembra di esserci: dalla rada umida e afosa di Massaua al promontorio di Gherar, dal deserto della Dancalia fino ad Asmara, «una delle capitali più belle e all’avanguardia dell’intera Africa per la vivacità delle strade e eleganza delle ville e dei giardini rigogliosi. Una città in crescita che avrebbe presto sfondato i centomila abitanti».
«Lo sviluppo urbanistico – sottolinea Ballario – è stato realizzato allora, la ferrovia, recentemente ristrutturata e ampliata, è rimasta quella. Hanno salvaguardato tutto. Mica hanno buttato giù le opere perchè fasciste!»
Di certo il risultato è eccellente, tanto che l’editore ha già sollecitato Ballario a rimettere al più presto in servizio il maggiore Morosini per una seconda indagine, stavolta ambientata in Somalia.
7 commenti:
ottimo articolo!
il libro lo comprerò di certo!
caposkaw
Ottimo articolo, Roberto!
Caro Roberto, rinnovo i ringraziamenti che ti avevo fatto per l'edizione "cartacea". Ma ora stai esagerando, pure la foto.... manco fossi una bella figliuola!
Un abbraccio
Giorgio
tornato, Roberto! molt più libero e sereno!
Grazie ragazzi, bentornato Giambattista.
Nessun ringraziamento, Giorgio, recensione strameritata, malgrado tu non sia una bella figliuola.
:)
A presto
Rob
Ho apprezzato l'articolo.
E poi non faccio che ascoltare country e sothern rock, da un po' di tempo a questa parte.
Ricordo una foto di mio nonno, in viaggio con il 219° CN per l'A. O.: Il volto del nostro colonialismo mi ha sempre sorriso, non ci posso fare niente.
Ossequi.
DDT
W La Libia di Italo Balbo! In Libia abbiamo fatto tanto! Eppure quel beduino vuole i soldi!
Posta un commento