giovedì 3 luglio 2008

L'american dream diventa italiano

Da Charta Minuta di giugno 2008 (Nuova serie, n. 9)
"Biografie della nuova Italia"
«Io sono la prova vivente del sogno americano. Quando Will Smith mi ha chiamato per dirmi che voleva fare un film con me pensavo fosse uno scherzo». Già, è stato il famoso attore statunitense a imporre agli a dir poco scettici produttori della Columbia – «“Perché proprio un italiano?” dicevano. Ho faticato parecchio per conquistare la loro fiducia» – Gabriele Muccino dietro la macchina da presa per La ricerca della felicità. Due anni fa e sembra passato un secolo. «Eva Mendes – ha raccontato Muccino – aveva visto L'ultimo bacio e continuava a ripetere a Will, mentre stavano girando insieme Hitch, di vedere il mio film». Detto, fatto. «Avevo visto gli ultimi due film di Gabriele (L’ultimo bacio e Ricordati di me – ha confermato Smith, che con Muccino sta girando un nuovo film, Seven pounds, atteso nelle sale americane per dicembre – e mi sono sentito attratto dalla complessità delle emozioni che era riuscito a cogliere e rappresentare». Tutt’altro che difficile crederlo. L’ultimo bacio (2000) descrive il tentativo da parte di un gruppo di trentenni di sfuggire alle responsabilità di una vita preconfezionata e minacciosamente stabile per «correre dietro alla loro giovinezza credendo di poterne prolungare le forme», per usare le parole di un grande scrittore francese del Novecento, Robert Brasillach (1909-1945). Il nodo della storia è tutto lì, in quel tempo di crisi che «attraversa quei tre o quattro anni intorno alla trentina, quando i legami affettivi si disfano, gli uomini soli si sposano e per la prima volta le abitudini diventano pesanti. Trent’anni, la prima volta in cui può diventare un dramma inseguire gli incantesimi, le gioie e i dolori della propria giovinezza». In questo monito, se non l’ avesse scritto proprio Brasillach nelle “riflessioni” contenute nel suo romanzo I sette colori oltre sessanta anni prima (Plon, 1939), potrebbe racchiudersi la presentazione del film. E infatti è quel che accade ai protagonisti, la coppia – che manco a farlo apposta, poco dopo, “scoppierà” anche nella vita – Stefano Accorsi e Giovanna Mezzogiorno. Basterà l’irruzione del giovanissimo e seducente personaggio di Martina Stella e lui perderà la testa, pronto – per dirla ancora con Brasillach – «ad abbandonare selvaggiamente tutta la propria vita per ritrovare la disperazione facile e la gioia ancor più facile».
«La normalità è la vera rivoluzione?», si domanda uno dei protagonisti del film. L’importante, risponderebbe il poeta di Fresnes, è essere consapevoli che si deve lasciare alle spalle quella fase della vita che definisce «l’eminente dignità del provvisorio. Bisogna essere decisi riguardo al proprio avvenire, qualunque esso sia. Bisogna scegliere. Anche se molte incertezze, fortunatamente, sono ancora prevedibili, tutta una parte della vita almeno è decisa: quella che dipende solo da noi stessi. Iniziamo una nuova vita, come si dice alla fine dei romanzi. E la iniziamo con tutte le nostre forze, talvolta con più forze che nel passato, con tutte le nostre chances, talvolta con più chances. Ma per non rischiare d’essere adolescenti attardati, che è poco dignitoso, limitiamo queste chances. Siamo nell’età in cui si deve giocare sul sicuro.»
Annotazione: non sappiamo se Muccino abbia letto Brasillach. Se per il precedente film, Come te nessuno mai (1999), aveva scelto il titolo ispirandosi a un graffito su un muro e si era affidato, nella stesura della sceneggiatura, alle testimonianze di vita adolescenziale del fratello liceale Silvio, protagonista della pellicola, per girare L’ultimo bacio – malgrado fosse egli stesso trentenne, classe 1967 – si è documentato sulla condizione dei suoi coetanei leggendo autori «come Nick Horby». Il risultato è un cult nel quale un’intera generazione si è riconosciuta senza infingimenti: «Perché li ho raccontati con onestà, non per supportare una tesi finale. Ho presentato tutte le loro debolezze senza giudicarli. Non sono stato né un difensore né un detrattore delle loro contraddizioni. Per questo il mio film è diventato parte dell’immaginario della gente che ne ha fruito».
Sta di fatto che il film lo impone sulla scena cinematografica nazionale – vince il David di Donatello per la migliore regia – e non solo. Viene distribuito e accolto positivamente all’estero. L’estate successiva, negli States, viene inserito dalla celebre rivista di cinema Entertainment Weekly tra i dieci migliori titoli dell’ann
o. Nel 2003 Muccino si conferma con Ricordati di me (8 milioni di euro in quindici giorni). Ancora storie di crisi. Ma stavolta riguardano persone più adulte, anche se – come dice ancora Brasillach (ci sia consentito l’abuso di uno scrittore ingenerosamente dimenticato) – «l’origine dell’incrinatura va cercata sempre nelle scelte che si fanno a trent’anni. Prima di allora i desideri di cambiamento sono fugaci, più tardi diventano violenti e a volte vi si cede. È raro cedervi a trent’anni, quando la vita che si conduce, quasi sempre, non è consolidata da tanti e tanti anni. Ma non cedervi può lasciare ferite quasi inguaribili, una stanchezza abbastanza strana, mal celata dalle gioie dell’ambizione e del successo. Il male forse non scoppierà mai, o scoppierà quindici anni dopo». E infatti sopiva in Carlo (Fabrizio Bentivoglio) e sua moglie Giulia (Laura Morante), rassegnati a vite e mestieri ordinari, dai tempi scanditi e dalle responsabilità ben delineate. Solo dopo gli incontri rispettivamente con l’ex compagna di scuola Alessia (Monica Bellucci) e il regista teatrale Alfredo (Gabriele Lavia) riscopriranno le loro antiche passioni: la scrittura del romanzo da sempre nel cassetto, lui, e il desiderio di recitare, lei. Mandando in frantumi gli equilibri familiari e lasciando disorientati i figli, interpretati da Nicoletta Romanoff e Silvio Muccino, alle prese con linquietudini giovanili vagamente stereotipate: lei coltivando il mito della velina e lui sballandosi per smaltire le immancabili pene d’amore.
Will Smith, come ha confessato, rimarrà conquistato dai due film e l’entusiasmo dell’attore contagerà progressivamente anche la Columbia. Certo non
se ne sono pentiti: La ricerca della felicità ha incassato – argomento non trascurabile – 300 milioni di dollari, cent più o cent meno. La storia (realmente accaduta) è quella di Chris Gardner, l’indebitato rappresentante di scanner medici che affronta la miseria più nera per amore del figlioletto di 6 anni (interpretato da Jaden Smith, figlio di Will, bravissimo!) e diventare un broker di successo nell’America reaganiana degli anni Ottanta. «Un uomo che non sa cosa significhi arrendersi» l’ha definito Muccino. Neanche quando perde il lavoro e viene lasciato dalla moglie. Neanche quando lo Stato gli preleva i soldi dal conto corrente per delle tasse arretrate e si ritrova sul lastrico. Neanche quando viene sfrattato ed è costretto a cercare rifugio di notte nei ricoveri per homeless o, peggio, nel bagno della metropolitana cercando di salvaguardare la serenità del figlio, dissimulando le difficoltà e facendole diventare un gioco. Accetta un posto da stagista non remunerato in una società di consulenza finanziaria e riesce – tra mille sacrifici e senza mai rinunciare al proprio decoro – a farsi assumere diventando ricco in pochi anni. Il messaggio del film è chiaro: tutti hanno una possibilità. Tutti possono farcela se ci credono veramente. La felicità, come disse il presidente Jefferson, è per gli americani un diritto inalienabile dell’uomo. «Vieni riconosciuto per il talento che hai – ha spiegato Muccino – mentre in Italia, al massimo, ti senti dire: sei bravo, ce la puoi fare. E intanto monta l’invidia. Nel girare La ricerca della felicità ho voluto che il denaro non fosse il cuore emotivo del film. Ma capisco perché parlano così tanto di soldi. Vengono da una cultura pionieristica: il denaro è la misura. Per loro il tempo dei cercatori d'oro non è mai finito».
Un film americano pensato per gli americani, a cui Muccino è riuscito a dare un valore universale, senza evitare di sottolineare le contraddizioni del sistema statunitense (l’assenza, ad esempio, di un adeguato Stato sociale e un individualismo che confina con l’egoismo sociale) e ciò nonostante vincendo ogni diffidenza e diventando uno dei registi più richiesti di Hollywood. E non soltanto perché lo invitano alla feste e parla meglio l’inglese dell’italiano.
L’ultima in ordine di tempo a fare outing è stata la californiana Gwynet Paltrow, un Oscar all
’attivo con Shaskespeare in love, tornata da poche settimane sul grande schermo con Iron Man. «Da quando ho due figli scelgo di fare solo film che mi convincano che valga la pena allontanarmi dalla mia famiglia – ha detto l’attrice – e mi piacerebbe lavorare con Muccino». Le faremo sapere. Lui, per ora, è tornato a dirigere il suo amico Will. Il nuovo film – che come dicevamo si intitolerà Seven pounds – racconta la vicenda di un uomo afflitto da un terribile senso di colpa per aver causato la morte di sette persone. Sarà salvato, neanche a dirlo, dall’amore di una donna: Rosario Dawson. Che anche se ha lo stesso nome di Fiorello è una lei, una affascinante lei. Tra gli attori va segnalato l’esordio, nel ruolo del figlio adolescente di Will Smith, del tredicenne Connor Cruise, rampollo adottivo del celebre Tom e di mamma Nicole (sia pure, anche loro, separati). Nessuna raccomandazione, hanno sostenuto. Muccino, in ogni caso, ha mostrato di essere un buon incassatore di polemiche. Prima dell’affermazione planetaria, spesso e volentieri, è finito nel bersaglio dai salotti buoni della raffinata critica militante per le sue pellicole “giovanilistiche” – che hanno anticipato e spianato la strada al fortunato filone brizziano delle notti prima e dopo degli esami – per la sua disponibilità a girare spot pubblicitari («Ho sempre fatto pubblicità. Se il risultato è bello, che male c’è?»), tra cui quello per una nota marca di biancheria intima con la supersexy Monica Bellucci – e non ultimo per certe sue impudenti dichiarazioni critiche sul cinema autoreferenziale e supponente di casa nostra. Non si è scoraggiato né si è fatto intimidire. E, a sentirlo, non si è montato la testa: «Non penso di rappresentare un modello – ha dichiarato – sono stato strafortunato. Figurarsi se posso dare dei lagnosi o dei provinciali ai miei colleghi perché non girano con Will Smith. Trovo invece un po’ asfittiche e di cortile le polemiche sul nostro cinema. Ma quella storia “delle troupe impigrite, annoiate e disincantate” rientrava in un discorso più ampio e motivato su una certa attitudine italiana. Ripresa così da certi giornalisti, è sembrata un atto di superbia». Un errore che chi, come Muccino, è partito dalla gavetta, non intende commettere. E anche se c’è chi maliziosamente è pronto a ricordargli che è pur sempre figlio di un dirigente Rai, Gabriele il suo successo se l’è costruito mattone dopo mattone, dal corso di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia alle prime esperienze come assistente alla regia di Pupi Avati. Dalle prime timide prove da attore in ruoli men che marginali ai primi lavori televisivi. Molta tv: «Ho fatto programmi di ricostruzione di incidenti, documentari in Africa, soap televisive, un po' di tutto, però ho imparato parecchio perché attraverso tutte queste cose dovevo mettere in scena delle emozioni. Quando ho sentito di aver imparato abbastanza, di essere in grado di fare il regista, ho fatto un film vero e proprio, ho scritto una sceneggiatura, l'ho proposta ad un produttore, gli è piaciuta ed ho realizzato Ecco fatto. Il film è piaciuto molto e ho scritto un secondo film». Il resto lo conoscete e lo conoscono, ormai, anche negli States. Il sogno americano di Muccino si è realizzato. Senza rinunciare alla propria identità e sensibilità europea. Per questo gli lanciamo una sfida: leggi e magari fai de I sette colori il tuo prossimo film.

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