Articolo di Pierluigi Biondi
Da Charta Minuta di giugno 2008
Chiunque si sia immerso, adolescente, nelle feconda stagione delle serie-tv cult degli anni '80 – e magari immedesimato con qualcuno dei protagonisti – non può fare a meno di notarne la straordinaria somiglianza con il Bruno Martelli di Saranno Famosi, lo studente di origini italiane della New York School of the Performing Arts che, sotto la guida sapiente del burbero professor Shorofsky, coltiva la sua passione tra le aule della scuola e lo scantinato del modesto alloggio nel quale vive per inseguire il sogno di diventare un musicista di successo. Stessa voluminosa chioma riccioluta, stesso carattere timido ed introverso, stessa voglia di sfondare. E anche stesso modo di suonare stando chino sul pianoforte, quasi a sfiorare il legno e l'avorio della tastiera come fosse un'amante difficile cui bisogna continuamente sussurrare parole di eterna fedeltà per ottenerne, in cambio, la stessa garanzia che non tradisca all'improvviso. Il lieto fine, che manca nel telefilm – Bruno perde il padre tassista, abbandona la scuola e finisce a lavorare in un localino della metropoli statunitense – c'è, al contrario, in questa storia che parte dalla provincia del Belpaese e si afferma sulla ribalta internazionale.
Compositore marchigiano non ancora quarantenne, Giovanni Allevi ne ha fatta di strada dal giorno in cui, bambino, scopre un'irresistibile attrazione per il pianoforte Bachstein sistemato nel salone di casa, quello comprato anni prima con tanti sacrifici e il cui utilizzo adesso è concesso ad uso esclusivo delle aspirazioni musicali della sorella maggiore. Ma i divieti, si sa, non fanno altro che accrescere le fantasie e, complici gli impegni lavorativi dei genitori, quel piano diventa il compagno fisso dei giochi pomeridiani dell'altrimenti obbediente ometto di casa Allevi. Una clandestinità artistica vissuta con incredibile determinazione che si manifesta in tutta la sua forza solo anni dopo, durante la recita di quinta elementare, quando il vecchio e scordatissimo piano piazzato sull'improvvisato palchetto scolastico esercita il suo incontenibile potere magnetico sul piccolo Giovanni che – tra lo stupore generale e, soprattutto, di mamma e papà – invece di scandire diligentemente la parte assegnatagli dalla maestra, si dirige verso il suo oggetto dei desideri e attacca il Preludio in La maggiore di Chopin. Comincia, così, la trafila che dall'insegnante privata passa per l'istituto musicale “Spontini” di Ascoli Piceno e finisce al conservatorio “Verdi” di Milano, dove nel frattempo si è trasferito per spiccare il grande salto e dove si guadagna da vivere facendo supplenze nella scuola media. Ma il conservatorio è un'istituzione di quelle con l'iniziale marchiata a caratteri maiuscoli: altezzosa ed esclusiva. La stessa etimologia del nome sta ad indicare chiaramente che non è luogo adatto per sperimentazioni ardite. Allevi se ne accorge a sue spese durante l'audizione per la selezione disposta dalla Società dei Concerti, in cerca nuovi talenti da lanciare nella stagione che sta per iniziare. Ha appena pubblicato il suo primo album di composizioni e decide di esibirsi con Monolocale 7.30 a.m. e Piano karate, due brani propri. La commissione giudicatrice lo ascolta con sospetto e il verdetto del direttore non ammette repliche: «Se fossi uno dei miei predecessori la caccerei immediatamente dal conservatorio!». In realtà il direttore ha apprezzato molto quel giovanotto che mescola la musica classica con il jazz ma il rigore del luogo – e l'austerità del ruolo – gli hanno impedito di dare soddisfazione a quella rivoluzionaria provocazione. Nonostante tutto Allevi non si perde d'animo e decide di presentarsi lo stesso alla Società dei Concerti per essere valutato direttamente dai responsabili della programmazione artistica. Dopo due mesi di insistenze – e il consueto “le faremo sapere” – il sogno si avvera: si spalancano le porte del Teatro delle Erbe. «Non bisogna mai aver paura di rompere le regole – sarà la riflessione a posteriori del talento marchigiano – se è il nostro cuore a chiederlo. Mai temere di destabilizzare un sistema: è nella sua natura la necessità di cambiare. Ma soprattutto bisogna sempre trovare il coraggio di esporsi, di osare, di mettersi in gioco: è un dovere dell’artista». E il coraggio di giocarsi le proprie carte, Allevi, lo trova spesso. Come quando si improvvisa cameriere per avvicinare il maestro Riccardo Muti e rifilargli un suo cd durante una cena alla Scala. O durante le lunghe ore passate a fare anticamera in attesa dello sfuggente Mister Steve che ha il potere di coronare il sogno a stelle e strisce di un ingaggio al Blue Note: il tempio jazz della Grande Mela, uno dei posti più cool del continente, dove si misurerà più volte in concerti sold out. Un'America sognata e desiderata alla quale, comunque, non risparmia qualche stoccata: «Solo due giorni fa ho fatto il mio terzo concerto a New York: è stato un successone, va bene, ma io sono stanco. Stanco di cercare di conquistare l'America, questo gigante grandissimo, stanco di dover essere sempre giudicato da loro. Mi sono buttato su una sdraio, sul bordo della strada, in una cittadina del Connecticut, in uno stato semiconfusionale. C'è una festa in corso qui. Una festa di quartiere... Gli abitanti di queste ville sono giovani coppie con almeno tre figli piccoli. Si sono inventati la festa di quartiere per socializzare e per ritrovarsi davanti al perno attorno a cui ruota tutta l'America: il barbecue».
Questi aneddoti, insieme a molti altri, sono contenuti ne La musica in testa (Rizzoli, pp. 222, € 15), il libro che racconta il percorso attraverso la musica di Giovanni Allevi e che, nel primo mese dal suo arrivo sugli scaffali delle librerie, ha già macinato sei edizioni e fatto segnare quota cinquantamila copie. Un consenso di pubblico straordinario che fa il paio con le eccezionali vendite dei cinque album per piano solo: 13 Dita (1997), Composizioni (2003), No concept (2005), Joy (2006, disco di platino), Allevilive (2007) e quelle, garantite, di Evolution – in compagnia di un'orchestra sinfonica – disponibile da metà giugno. Un successo voluto ed inseguito con forza sin dall'esordio di Napoli davanti a cinque (!) persone fino al tour 2008 (conclusosi al Teatro San Carlo: proprio nella città partenopea da cui era partito) che ha fatto registrare ovunque il tutto esaurito. In mezzo concerti in ogni parte del mondo: dalla Cina al Giappone, dagli Stati Uniti alla Russia; oltre che, naturalmente, nelle più importanti piazze italiane. Una popolarità vissuta sempre sotto la guida piacevolmente ossessiva della sua “Strega capricciosa” – così Allevi definisce la musica – che lo va a trovare quando meno se lo aspetta: dentro il supermercato di Harlem dove si reca a comprare filetti di cat fish o sulla lettiga dell'ambulanza che lo sta portando in ospedale durante un attacco di panico, nel cuore della notte o nelle pause della tournée di Jovanotti che accompagna in qualità di strumentista. Proprio l'incontro con il popolare cantautore – caldeggiato dalla spalla storica di Lorenzo Cherubini, il bassista Saturnino, anch'egli ascolano – sarà determinante per la sua carriera: è la casa discografica Soleluna, di proprietà dell'autore di Safari, a produrre le opere prime del giovane talento. Lavori in parte nati – ricorda Allevi – dietro le quinte dei palasport: «Dopo il sound-check delle cinque del pomeriggio, c'era qualche ora libera, che io in genere passavo in camerino a scrivere musica o a leggere Essere e tempo di Heidegger». Il richiamo al pensatore tedesco del Dasein tradisce l'altra grande passione del compositore, la filosofia, disciplina nella quale si è laureato a pieni voti e la cui eco si sente in molte pagine de La musica in testa. Ora in maniera esplicita: «Come dice Hegel, in questi casi le possibilità sono due: o vinci e apri una nuova strada, o vieni allontanato perché sei una minaccia per il vecchio ordine» (il riferimento è alla rigidità mostrata dai soloni del conservatorio); ora in maniera implicita: «Il pianoforte solo fa paura. Devi veramente avere qualcosa da dire, da gridare, da sbriciolare con funambolica follia, altrimenti qui ti uccidono», dove gli accenni al funambolo e alla follia evocano lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.
Ma più che a un filosofo-musicista, il suo presente assomiglia a quello di una rockstar: una folla festante lo attende alla fine di ogni concerto per farsi immortalare al suo fianco o strappargli un autografo. Un rito cui si sottopone volentieri per non tradire l'entusiasmo dei suoi ammiratori, sempre più numerosi. Con la fama, immancabili, sono arrivate le parodie – come la rappresentazione caricaturale che ne dà la trasmissione gialappiana Mai dire martedì – e le attenzioni di qualche detrattore (non molti, a dire il vero) che gli rimproverano un modo di fare un po' paraculo e da finto imbranato grazie al quale riesce a spacciare per capolavori musichette semplici semplici buone per un pubblico di ragazzine sciocche e di faciloni che giocano a fare gli ascoltatori impegnati. Il giornalista Edmondo Berselli, in un articolo, ha detto di lui che «anche se non parla di politica» può essere definito «un compositore e un esecutore “veltroniano”, capace di mettere d'accordo tutti». Che non parli di politica è tutto da dimostrare: tanto per cominciare si professa credente («Certo che lo sono! Non potrebbe essere altrimenti. Chiunque affronti un’attività artistica e creativa entra in diretto contatto con il mistero delle cose»), con tutto ciò che ne consegue. Inoltre ha, della storia recente, un giudizio molto netto: «Il Novecento è stato il secolo della mitizzazione del pensiero scientifico, dell’idea che la ragione potesse spiegare tutto. Ma il mito della concettualità e del tecnicismo ha ingabbiato l’uomo in un eccesso di pensiero, lo ha sottoposto a rigide catalogazioni razziali, a ideologie sommarie, gettandolo nella spersonalizzazione e nella violenza», come a dire che non è il sonno della ragione a generare mostri, bensì la sua fase vigile. In realtà, ciò che Allevi non fa è frequentare la politica da artista, con il suo corollario di outing e appelli al voto, a differenza di molti suoi coetanei musicisti e cantanti che non perdono occasione – ogni qual volta gli se ne offra l'opportunità – di lanciare proclami roboanti dal microfono. Ciò che pensa, Allevi, lo lascia dire alla musica, ritenendo ogni parola superflua: un insegnamento del quale – in molti – dovrebbero fare tesoro.
Compositore marchigiano non ancora quarantenne, Giovanni Allevi ne ha fatta di strada dal giorno in cui, bambino, scopre un'irresistibile attrazione per il pianoforte Bachstein sistemato nel salone di casa, quello comprato anni prima con tanti sacrifici e il cui utilizzo adesso è concesso ad uso esclusivo delle aspirazioni musicali della sorella maggiore. Ma i divieti, si sa, non fanno altro che accrescere le fantasie e, complici gli impegni lavorativi dei genitori, quel piano diventa il compagno fisso dei giochi pomeridiani dell'altrimenti obbediente ometto di casa Allevi. Una clandestinità artistica vissuta con incredibile determinazione che si manifesta in tutta la sua forza solo anni dopo, durante la recita di quinta elementare, quando il vecchio e scordatissimo piano piazzato sull'improvvisato palchetto scolastico esercita il suo incontenibile potere magnetico sul piccolo Giovanni che – tra lo stupore generale e, soprattutto, di mamma e papà – invece di scandire diligentemente la parte assegnatagli dalla maestra, si dirige verso il suo oggetto dei desideri e attacca il Preludio in La maggiore di Chopin. Comincia, così, la trafila che dall'insegnante privata passa per l'istituto musicale “Spontini” di Ascoli Piceno e finisce al conservatorio “Verdi” di Milano, dove nel frattempo si è trasferito per spiccare il grande salto e dove si guadagna da vivere facendo supplenze nella scuola media. Ma il conservatorio è un'istituzione di quelle con l'iniziale marchiata a caratteri maiuscoli: altezzosa ed esclusiva. La stessa etimologia del nome sta ad indicare chiaramente che non è luogo adatto per sperimentazioni ardite. Allevi se ne accorge a sue spese durante l'audizione per la selezione disposta dalla Società dei Concerti, in cerca nuovi talenti da lanciare nella stagione che sta per iniziare. Ha appena pubblicato il suo primo album di composizioni e decide di esibirsi con Monolocale 7.30 a.m. e Piano karate, due brani propri. La commissione giudicatrice lo ascolta con sospetto e il verdetto del direttore non ammette repliche: «Se fossi uno dei miei predecessori la caccerei immediatamente dal conservatorio!». In realtà il direttore ha apprezzato molto quel giovanotto che mescola la musica classica con il jazz ma il rigore del luogo – e l'austerità del ruolo – gli hanno impedito di dare soddisfazione a quella rivoluzionaria provocazione. Nonostante tutto Allevi non si perde d'animo e decide di presentarsi lo stesso alla Società dei Concerti per essere valutato direttamente dai responsabili della programmazione artistica. Dopo due mesi di insistenze – e il consueto “le faremo sapere” – il sogno si avvera: si spalancano le porte del Teatro delle Erbe. «Non bisogna mai aver paura di rompere le regole – sarà la riflessione a posteriori del talento marchigiano – se è il nostro cuore a chiederlo. Mai temere di destabilizzare un sistema: è nella sua natura la necessità di cambiare. Ma soprattutto bisogna sempre trovare il coraggio di esporsi, di osare, di mettersi in gioco: è un dovere dell’artista». E il coraggio di giocarsi le proprie carte, Allevi, lo trova spesso. Come quando si improvvisa cameriere per avvicinare il maestro Riccardo Muti e rifilargli un suo cd durante una cena alla Scala. O durante le lunghe ore passate a fare anticamera in attesa dello sfuggente Mister Steve che ha il potere di coronare il sogno a stelle e strisce di un ingaggio al Blue Note: il tempio jazz della Grande Mela, uno dei posti più cool del continente, dove si misurerà più volte in concerti sold out. Un'America sognata e desiderata alla quale, comunque, non risparmia qualche stoccata: «Solo due giorni fa ho fatto il mio terzo concerto a New York: è stato un successone, va bene, ma io sono stanco. Stanco di cercare di conquistare l'America, questo gigante grandissimo, stanco di dover essere sempre giudicato da loro. Mi sono buttato su una sdraio, sul bordo della strada, in una cittadina del Connecticut, in uno stato semiconfusionale. C'è una festa in corso qui. Una festa di quartiere... Gli abitanti di queste ville sono giovani coppie con almeno tre figli piccoli. Si sono inventati la festa di quartiere per socializzare e per ritrovarsi davanti al perno attorno a cui ruota tutta l'America: il barbecue».
Questi aneddoti, insieme a molti altri, sono contenuti ne La musica in testa (Rizzoli, pp. 222, € 15), il libro che racconta il percorso attraverso la musica di Giovanni Allevi e che, nel primo mese dal suo arrivo sugli scaffali delle librerie, ha già macinato sei edizioni e fatto segnare quota cinquantamila copie. Un consenso di pubblico straordinario che fa il paio con le eccezionali vendite dei cinque album per piano solo: 13 Dita (1997), Composizioni (2003), No concept (2005), Joy (2006, disco di platino), Allevilive (2007) e quelle, garantite, di Evolution – in compagnia di un'orchestra sinfonica – disponibile da metà giugno. Un successo voluto ed inseguito con forza sin dall'esordio di Napoli davanti a cinque (!) persone fino al tour 2008 (conclusosi al Teatro San Carlo: proprio nella città partenopea da cui era partito) che ha fatto registrare ovunque il tutto esaurito. In mezzo concerti in ogni parte del mondo: dalla Cina al Giappone, dagli Stati Uniti alla Russia; oltre che, naturalmente, nelle più importanti piazze italiane. Una popolarità vissuta sempre sotto la guida piacevolmente ossessiva della sua “Strega capricciosa” – così Allevi definisce la musica – che lo va a trovare quando meno se lo aspetta: dentro il supermercato di Harlem dove si reca a comprare filetti di cat fish o sulla lettiga dell'ambulanza che lo sta portando in ospedale durante un attacco di panico, nel cuore della notte o nelle pause della tournée di Jovanotti che accompagna in qualità di strumentista. Proprio l'incontro con il popolare cantautore – caldeggiato dalla spalla storica di Lorenzo Cherubini, il bassista Saturnino, anch'egli ascolano – sarà determinante per la sua carriera: è la casa discografica Soleluna, di proprietà dell'autore di Safari, a produrre le opere prime del giovane talento. Lavori in parte nati – ricorda Allevi – dietro le quinte dei palasport: «Dopo il sound-check delle cinque del pomeriggio, c'era qualche ora libera, che io in genere passavo in camerino a scrivere musica o a leggere Essere e tempo di Heidegger». Il richiamo al pensatore tedesco del Dasein tradisce l'altra grande passione del compositore, la filosofia, disciplina nella quale si è laureato a pieni voti e la cui eco si sente in molte pagine de La musica in testa. Ora in maniera esplicita: «Come dice Hegel, in questi casi le possibilità sono due: o vinci e apri una nuova strada, o vieni allontanato perché sei una minaccia per il vecchio ordine» (il riferimento è alla rigidità mostrata dai soloni del conservatorio); ora in maniera implicita: «Il pianoforte solo fa paura. Devi veramente avere qualcosa da dire, da gridare, da sbriciolare con funambolica follia, altrimenti qui ti uccidono», dove gli accenni al funambolo e alla follia evocano lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.
Ma più che a un filosofo-musicista, il suo presente assomiglia a quello di una rockstar: una folla festante lo attende alla fine di ogni concerto per farsi immortalare al suo fianco o strappargli un autografo. Un rito cui si sottopone volentieri per non tradire l'entusiasmo dei suoi ammiratori, sempre più numerosi. Con la fama, immancabili, sono arrivate le parodie – come la rappresentazione caricaturale che ne dà la trasmissione gialappiana Mai dire martedì – e le attenzioni di qualche detrattore (non molti, a dire il vero) che gli rimproverano un modo di fare un po' paraculo e da finto imbranato grazie al quale riesce a spacciare per capolavori musichette semplici semplici buone per un pubblico di ragazzine sciocche e di faciloni che giocano a fare gli ascoltatori impegnati. Il giornalista Edmondo Berselli, in un articolo, ha detto di lui che «anche se non parla di politica» può essere definito «un compositore e un esecutore “veltroniano”, capace di mettere d'accordo tutti». Che non parli di politica è tutto da dimostrare: tanto per cominciare si professa credente («Certo che lo sono! Non potrebbe essere altrimenti. Chiunque affronti un’attività artistica e creativa entra in diretto contatto con il mistero delle cose»), con tutto ciò che ne consegue. Inoltre ha, della storia recente, un giudizio molto netto: «Il Novecento è stato il secolo della mitizzazione del pensiero scientifico, dell’idea che la ragione potesse spiegare tutto. Ma il mito della concettualità e del tecnicismo ha ingabbiato l’uomo in un eccesso di pensiero, lo ha sottoposto a rigide catalogazioni razziali, a ideologie sommarie, gettandolo nella spersonalizzazione e nella violenza», come a dire che non è il sonno della ragione a generare mostri, bensì la sua fase vigile. In realtà, ciò che Allevi non fa è frequentare la politica da artista, con il suo corollario di outing e appelli al voto, a differenza di molti suoi coetanei musicisti e cantanti che non perdono occasione – ogni qual volta gli se ne offra l'opportunità – di lanciare proclami roboanti dal microfono. Ciò che pensa, Allevi, lo lascia dire alla musica, ritenendo ogni parola superflua: un insegnamento del quale – in molti – dovrebbero fare tesoro.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, scrive per il quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. Ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).
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