Dal Secolo d'Italia di mercoledì 2 luglio 2008
Un giorno vorresti vederli negli occhi, i “camerati” di una volta, i neo e post fascisti, i topi di fogna, quelli che ucciderli non era “un reato”, i “reietti”, gli “esuli in patria” che vivevano nel ghetto e nel “polo escluso”. Vorresti vedere come vestivano, come si pettinavano, come vivevano. Vorresti ascoltarne le risate e i pianti, conoscerne i sogni e le utopie, le incazzature e gli amori. Abbracciarli quasi, per capire come erano nella realtà e non per come sono stati rappresentati e incasellati in cento e cento freddi volumi che, a furia di aggiungere interpretazione a interpretazione, ideologia a ideologia, postulato a postulato, dimenticavano proprio loro: uomini e donne in carne ed ossa, protagonisti di un’avventura politica, quella del postfascismo italiano, che, nonostante tutto, ha continuato a essere al centro dell’immaginario collettivodell’Italia della seconda metà del ’900.
Quel giorno è arrivato grazie a due volumi di grande formato editi dai Servizi Editoriali Pantheon, Giorgio Almirante. Una storia per immagini (per richiederli basta rivolgersi all’Ufficio gadget di An: 06/68817245), con il coordinamento fotografico di Enrico Para e i testi di Aldo Di Lello. Perché è vero che il protagonista dell’iniziativa editoriale in occasione del ventennale della morte è proprio lui, Giorgio Almirante, il grande leader della destra italiana postbellica che, per dirla con l’introduzione di Franco Servello, «ha pacificato i cuori e la memoria degli italiani oltre la pesante eredità della guerra civile, la cui ombra si è allungata sui decenni successivi avvelenando il confronto politico e sociale». L’Almirante che – come spiega nella presentazione Gianfranco Fini – è riuscito in un vero miracolo politico: «Grazie a lui – spiega Fini – una parte d’Italia, e una parte consistente, circa tre milioni di elettori, nel massimo del consenso del Msi, una parte politicamente esclusa non s’è mai sentita estranea all’Italia, non si è mai chiamata fuori dal destino del paese». L’Almirante che – sempre Gianfranco Fini – «ci ha insegnato di mettere sempre e comunque al primo posto gli italiani, senza tessere e senza bandiere». Diceva in effetti Giorgio Almirante quando andava a trovare gli italiani all’estero: «Mi vengono incontro, quando penso alla mia gente, le immagini dei lavoratori che in civilissime e prospere contrade d’Europa vivono nei lager… Mi viene incontro la gioia di quei lavoratori nel vedere un deputato della loro terra, un segretario di partito italiano: non perché missino, di destra, ma perché italiano».
Ecco, gli italiani, perché dietro il protagonista ci sono i protagonisti, quei tremilioni di “poli esclusi” che comunque, caparbiamente, nonostante tutto, hanno continuato a sentirsi italiani tra gli italiani. E che hanno continuato a vivere, parlare, agire, fare, lavorare senza blocchi psicologici di alcun tipo Italiani. Al di là di Almirante, allora, i due volumi sul leader missino rappresentano un’occasione unica per accorgersi di quello che i libri di storia tendono a occultare: che quelli che sono ritratti nel libro accanto al leader missino erano italiani a tutto tondo. E facevano parte integrante della rete connettiva dell’Italia del dopoguerra.
Nonostante il susseguirsi dei tentativi di tagliarli fuori dalla società italiana: se il fascismo era stato secondo una certa vulgata crociana e azionista una sorta di “parentesi storica”, i postfascisti dovevano diventare quindi “parentesi sociale”, verire rappresentati come corpo separato. Ci ha provato recentemente, forse per l’ultima volta, lo storico Nicola Tranfaglia che sulle colonne dell’Unità – oggi organo del Partito democratico – con una storia di Almirante scientemente costruita per costruire un Almirante anti-italiano. Ma l’operazione non è riuscita, e le foto di questi due grandi volumi dimostrano plasticamente perché. Nessun arco costituzionale, nessuna conventio ad escludendum, sono infatti riusciti a escludere il popolo missino dallo spirito del tempo. E allora, vale la pena sfogliarle una ad una le quattrocento pagine in cui le fotografiche ci parlano di un mondo normale, “politicamente corretto” (oggi si dovrebbe dire così forse...) in cui quasi sempre i sorrisi prendono il sopravvento sulla rabbia: non facce ingrugnite, non quelle di picchiatori e nemmeno teste rasate. Non c’è odore stantio di una fantomatica estrema destra ma piuttosto d’Italia maggioritaria e tranquillamente normale del secondo dopoguerra. La normalità quasi sconfortante di un fiasco di vino su un tavolo di legno, un campeggio estivo del 1949 a Cervinia, o di una bottiglia di Stock 84 piazzata con relativi bicchierini di vetro spesso, sul tavolo della sezione di Baiano durante la foto ricordo col leader: bambini vestiti con la giacca della prima comunione, gli anziani e i giovani, il Secolo in bella vista, a mo’ di segno identificativo…
Non, non ci sono “topi di fogna”: e se qualcuno può chiedere, oggi come ieri, «ma siete, eravate, davvero così buoni voi di destra?». I due volumi curati da Enrico Para e Aldo Di Lello danno una mano a dire di sì. Si può e si deve essere buoni a destra. Soprattutto a destra. Anche grazie a quello che la destra è stata per tutto il dopoguerra: «Oltre ogni barriere di parte – diceva lo stesso Almirante – oltre ogni odio e ogni risentimento mi si consenta però di riconoscere tra gli italiani, la mia gente; gente civile e pulita, di tutti i ceti e, sia detto senza ombra di demagogia, soprattutto dei ceti più umili; gente che non ha nulla da chiedere e che conosce la vera umiltà, perché crede di non avere nulla da dare nel momento in cui offre tutta se stessa, il suo sorriso, la sua cordialità, la sua comprensione umana». A rileggere queste parole, viene da chiedersi seriamente da chiedersi da dove sia nata una certa retorica cattivista e politicamente scorretta che ha fatto innamorare una certa destra post-Fiuggi.
«Il piccolo Giorgio – così esordisce il testo del primo volume – nasceva a salsomaggiore il 27 giugno del 1914 da Mario Almirante e Rita Armaroli. E il padre era un protagonista del teatro italiano dei primi decenni del Novecento: attore, direttore di scena di Eleonora Duse e di Ruggero Ruggeri, e fu anche regista del cinema muto. la famiglia Almirante calcava le scene fin dal primo Ottocento. Il primo fu il bisnonno di Giorgio, Pasquale... E nella famiglia, tra gli altri, merita di essere ricordato lo zio Luigi, uno dei più famosi attori italiani degli anni Trenta e Quaranta...». Una famiglia italiana, insomma. Di un’Italia normale, di quella che si riconosceva a pieno titolo dentro quella via italiana alla modernità che si avviò nei primi decenni del Novecento.
Ecco, sfogliando il primo volume, si può anche passare dalle immagini sull’Almirante bambino o sui suoi occhi azzurri, a quelle dei vestiti a fiori delle ragazze dei Quaranta e Cinquanta, o alla camminata rilassata di un leader giovanile come Roberto Mieville che di lì a poco andrà a morire in un incidente stradale. O, anche, di capire la passione giornalistica che faceva del Secolo d’Italia «il grande quotidiano d’informazione del mattino», come recitava un manifesto che esortava a «produttori, impiegati, operai» a comprare il giornale: no, non era un mondo che pensava in piccolo, non si sentiva minoritario. Un mondo che aveva perso, certo, ma che, comunque, voleva caparbiamente parlare a tutti.
Che non soffiava sulle paure ma sulle speranze. Di riportare Trieste – nonostante la sconfitta – all’Italia, per fare solo un esempio, nella logica di quello slogan che, forse meglio di tanti altri, racconta la cifra politica ed esistenziale di Almirante e di un’intera famiglia politica: «Nostalgia del futuro», ecco il sentimento profondo di tanti italiani che, seppur rimasti legati affettivamente al passato, non continuavano a pensare politicamente al futuro. E, forse, è proprio con questa chiave interpretativa che bisognerebbe analizzare gli scontri, anche virulenti, che si scatenava dentro al Msi su decisioni che avrebbero portato alla scissione qualsiasi altro partito: voglia di andare avanti senza dimenticare una storia che l’Italia tutta non poteva e non doveva dimenticare. Voglia di essere figli del proprio tempo senza tradire il tempo che fu: come la voglia di minigonna di una ragazza romana che durante una manifestazione missina legge un volantino: «Non arrenderti, il coraggio è a destra»: anche il coraggio, forse pensava, di mettersi una minigonna in piena tranquillità. Contraddizioni, certo, ce ne furono. E come potevano non esserci in un mondo sociale in perpetua evoluzione e con un’Italia che continuava a dividersi per una guerra civile mai definitivamente messa in soffitta: «Italiani, dimenticate la guerra civile», dice un manifesto dopo la vittoria elettorale del ’71. Ostinatamente per la pacificazione nazionale, tra le minigonne delle giovani militanti e capelli lunghi come se fosse ragazzi come gli altri: soprattutto per questo sopravvisse un mondo che, sulla carta, non aveva certo nessuna speranza di sopravvivere.
Se fosse stato veramente “polo escluso” viene da chiedersi come quegli italiani, quelli che stavano con Almirante, avrebbero potuto attraversare cinquant’anni di storia repubblicana? E lo stesso se fosse stata solo nostalgia del regime: c’è da scommetterci, i postfascisti avrebbero fatto la fine dei neoborbonici. No, c’era dell’altro e di più. C’erano le piazze piene. C’era un legame profondo con l’Italia maggioritaria, con l’Italia coraggiosamente perbene, e c’era l’orgoglio di sentirsi italiani nonostante l’Italia istituzionale non li considerasse tali. C’era piazza del Popolo. C’è una foto paradigmatica che immortala Giorgio Almirante che impugna “minacciosamente” un mazzo di fiori: è il simbolo casuale di una destra che aveva imparato velocemente ad essere antitotalitaria. E che ha saputo resistere anche al buio degli anni Settanta, ai morti e alle nuove ferite inferte a un paese ancora diviso. «La storia di un uomo – annota Gianfranco Fini – è anche una storia collettiva. In queste foto compaiono anche tanti altri volti e tante altre espressioni. Volti ed espressioni di chi, semplice militante, dirigente di partito, giornalista, uomo di cultura o simpatizzante momentaneo ha condiviso con Almirante quell’istante immortalato dal fotografo. È un frammento d’Italia in cammino, sono volti di popolo, è una parte del Paese che ha fatto storia con la sua presenza, con la sua voglia di partecipazione politica, con le sue speranze, con le sue rabbie, i suoi dolori, la sua generosità...».
È il 1983: un Almirante sorridente è ospite di Pippo Baudo nella trasmissione di Rete 4, Italia parla. Era finita un’epoca, un’altra si stava preparando. Sarebbe passato ancora qualche anno. Almirante non ce l’ha fatta a godersi la destra di governo ele svolte decisive verso quello che aveva sempre sognato: una pacificazione che fosse veramente tale. Lui non ce la fatta, ma la sua famiglia politica sì. E questi due volumi aiutano a ricordare quelle facce, quei sogni, quelle speranze.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
Quel giorno è arrivato grazie a due volumi di grande formato editi dai Servizi Editoriali Pantheon, Giorgio Almirante. Una storia per immagini (per richiederli basta rivolgersi all’Ufficio gadget di An: 06/68817245), con il coordinamento fotografico di Enrico Para e i testi di Aldo Di Lello. Perché è vero che il protagonista dell’iniziativa editoriale in occasione del ventennale della morte è proprio lui, Giorgio Almirante, il grande leader della destra italiana postbellica che, per dirla con l’introduzione di Franco Servello, «ha pacificato i cuori e la memoria degli italiani oltre la pesante eredità della guerra civile, la cui ombra si è allungata sui decenni successivi avvelenando il confronto politico e sociale». L’Almirante che – come spiega nella presentazione Gianfranco Fini – è riuscito in un vero miracolo politico: «Grazie a lui – spiega Fini – una parte d’Italia, e una parte consistente, circa tre milioni di elettori, nel massimo del consenso del Msi, una parte politicamente esclusa non s’è mai sentita estranea all’Italia, non si è mai chiamata fuori dal destino del paese». L’Almirante che – sempre Gianfranco Fini – «ci ha insegnato di mettere sempre e comunque al primo posto gli italiani, senza tessere e senza bandiere». Diceva in effetti Giorgio Almirante quando andava a trovare gli italiani all’estero: «Mi vengono incontro, quando penso alla mia gente, le immagini dei lavoratori che in civilissime e prospere contrade d’Europa vivono nei lager… Mi viene incontro la gioia di quei lavoratori nel vedere un deputato della loro terra, un segretario di partito italiano: non perché missino, di destra, ma perché italiano».
Ecco, gli italiani, perché dietro il protagonista ci sono i protagonisti, quei tremilioni di “poli esclusi” che comunque, caparbiamente, nonostante tutto, hanno continuato a sentirsi italiani tra gli italiani. E che hanno continuato a vivere, parlare, agire, fare, lavorare senza blocchi psicologici di alcun tipo Italiani. Al di là di Almirante, allora, i due volumi sul leader missino rappresentano un’occasione unica per accorgersi di quello che i libri di storia tendono a occultare: che quelli che sono ritratti nel libro accanto al leader missino erano italiani a tutto tondo. E facevano parte integrante della rete connettiva dell’Italia del dopoguerra.
Nonostante il susseguirsi dei tentativi di tagliarli fuori dalla società italiana: se il fascismo era stato secondo una certa vulgata crociana e azionista una sorta di “parentesi storica”, i postfascisti dovevano diventare quindi “parentesi sociale”, verire rappresentati come corpo separato. Ci ha provato recentemente, forse per l’ultima volta, lo storico Nicola Tranfaglia che sulle colonne dell’Unità – oggi organo del Partito democratico – con una storia di Almirante scientemente costruita per costruire un Almirante anti-italiano. Ma l’operazione non è riuscita, e le foto di questi due grandi volumi dimostrano plasticamente perché. Nessun arco costituzionale, nessuna conventio ad escludendum, sono infatti riusciti a escludere il popolo missino dallo spirito del tempo. E allora, vale la pena sfogliarle una ad una le quattrocento pagine in cui le fotografiche ci parlano di un mondo normale, “politicamente corretto” (oggi si dovrebbe dire così forse...) in cui quasi sempre i sorrisi prendono il sopravvento sulla rabbia: non facce ingrugnite, non quelle di picchiatori e nemmeno teste rasate. Non c’è odore stantio di una fantomatica estrema destra ma piuttosto d’Italia maggioritaria e tranquillamente normale del secondo dopoguerra. La normalità quasi sconfortante di un fiasco di vino su un tavolo di legno, un campeggio estivo del 1949 a Cervinia, o di una bottiglia di Stock 84 piazzata con relativi bicchierini di vetro spesso, sul tavolo della sezione di Baiano durante la foto ricordo col leader: bambini vestiti con la giacca della prima comunione, gli anziani e i giovani, il Secolo in bella vista, a mo’ di segno identificativo…
Non, non ci sono “topi di fogna”: e se qualcuno può chiedere, oggi come ieri, «ma siete, eravate, davvero così buoni voi di destra?». I due volumi curati da Enrico Para e Aldo Di Lello danno una mano a dire di sì. Si può e si deve essere buoni a destra. Soprattutto a destra. Anche grazie a quello che la destra è stata per tutto il dopoguerra: «Oltre ogni barriere di parte – diceva lo stesso Almirante – oltre ogni odio e ogni risentimento mi si consenta però di riconoscere tra gli italiani, la mia gente; gente civile e pulita, di tutti i ceti e, sia detto senza ombra di demagogia, soprattutto dei ceti più umili; gente che non ha nulla da chiedere e che conosce la vera umiltà, perché crede di non avere nulla da dare nel momento in cui offre tutta se stessa, il suo sorriso, la sua cordialità, la sua comprensione umana». A rileggere queste parole, viene da chiedersi seriamente da chiedersi da dove sia nata una certa retorica cattivista e politicamente scorretta che ha fatto innamorare una certa destra post-Fiuggi.
«Il piccolo Giorgio – così esordisce il testo del primo volume – nasceva a salsomaggiore il 27 giugno del 1914 da Mario Almirante e Rita Armaroli. E il padre era un protagonista del teatro italiano dei primi decenni del Novecento: attore, direttore di scena di Eleonora Duse e di Ruggero Ruggeri, e fu anche regista del cinema muto. la famiglia Almirante calcava le scene fin dal primo Ottocento. Il primo fu il bisnonno di Giorgio, Pasquale... E nella famiglia, tra gli altri, merita di essere ricordato lo zio Luigi, uno dei più famosi attori italiani degli anni Trenta e Quaranta...». Una famiglia italiana, insomma. Di un’Italia normale, di quella che si riconosceva a pieno titolo dentro quella via italiana alla modernità che si avviò nei primi decenni del Novecento.
Ecco, sfogliando il primo volume, si può anche passare dalle immagini sull’Almirante bambino o sui suoi occhi azzurri, a quelle dei vestiti a fiori delle ragazze dei Quaranta e Cinquanta, o alla camminata rilassata di un leader giovanile come Roberto Mieville che di lì a poco andrà a morire in un incidente stradale. O, anche, di capire la passione giornalistica che faceva del Secolo d’Italia «il grande quotidiano d’informazione del mattino», come recitava un manifesto che esortava a «produttori, impiegati, operai» a comprare il giornale: no, non era un mondo che pensava in piccolo, non si sentiva minoritario. Un mondo che aveva perso, certo, ma che, comunque, voleva caparbiamente parlare a tutti.
Che non soffiava sulle paure ma sulle speranze. Di riportare Trieste – nonostante la sconfitta – all’Italia, per fare solo un esempio, nella logica di quello slogan che, forse meglio di tanti altri, racconta la cifra politica ed esistenziale di Almirante e di un’intera famiglia politica: «Nostalgia del futuro», ecco il sentimento profondo di tanti italiani che, seppur rimasti legati affettivamente al passato, non continuavano a pensare politicamente al futuro. E, forse, è proprio con questa chiave interpretativa che bisognerebbe analizzare gli scontri, anche virulenti, che si scatenava dentro al Msi su decisioni che avrebbero portato alla scissione qualsiasi altro partito: voglia di andare avanti senza dimenticare una storia che l’Italia tutta non poteva e non doveva dimenticare. Voglia di essere figli del proprio tempo senza tradire il tempo che fu: come la voglia di minigonna di una ragazza romana che durante una manifestazione missina legge un volantino: «Non arrenderti, il coraggio è a destra»: anche il coraggio, forse pensava, di mettersi una minigonna in piena tranquillità. Contraddizioni, certo, ce ne furono. E come potevano non esserci in un mondo sociale in perpetua evoluzione e con un’Italia che continuava a dividersi per una guerra civile mai definitivamente messa in soffitta: «Italiani, dimenticate la guerra civile», dice un manifesto dopo la vittoria elettorale del ’71. Ostinatamente per la pacificazione nazionale, tra le minigonne delle giovani militanti e capelli lunghi come se fosse ragazzi come gli altri: soprattutto per questo sopravvisse un mondo che, sulla carta, non aveva certo nessuna speranza di sopravvivere.
Se fosse stato veramente “polo escluso” viene da chiedersi come quegli italiani, quelli che stavano con Almirante, avrebbero potuto attraversare cinquant’anni di storia repubblicana? E lo stesso se fosse stata solo nostalgia del regime: c’è da scommetterci, i postfascisti avrebbero fatto la fine dei neoborbonici. No, c’era dell’altro e di più. C’erano le piazze piene. C’era un legame profondo con l’Italia maggioritaria, con l’Italia coraggiosamente perbene, e c’era l’orgoglio di sentirsi italiani nonostante l’Italia istituzionale non li considerasse tali. C’era piazza del Popolo. C’è una foto paradigmatica che immortala Giorgio Almirante che impugna “minacciosamente” un mazzo di fiori: è il simbolo casuale di una destra che aveva imparato velocemente ad essere antitotalitaria. E che ha saputo resistere anche al buio degli anni Settanta, ai morti e alle nuove ferite inferte a un paese ancora diviso. «La storia di un uomo – annota Gianfranco Fini – è anche una storia collettiva. In queste foto compaiono anche tanti altri volti e tante altre espressioni. Volti ed espressioni di chi, semplice militante, dirigente di partito, giornalista, uomo di cultura o simpatizzante momentaneo ha condiviso con Almirante quell’istante immortalato dal fotografo. È un frammento d’Italia in cammino, sono volti di popolo, è una parte del Paese che ha fatto storia con la sua presenza, con la sua voglia di partecipazione politica, con le sue speranze, con le sue rabbie, i suoi dolori, la sua generosità...».
È il 1983: un Almirante sorridente è ospite di Pippo Baudo nella trasmissione di Rete 4, Italia parla. Era finita un’epoca, un’altra si stava preparando. Sarebbe passato ancora qualche anno. Almirante non ce l’ha fatta a godersi la destra di governo ele svolte decisive verso quello che aveva sempre sognato: una pacificazione che fosse veramente tale. Lui non ce la fatta, ma la sua famiglia politica sì. E questi due volumi aiutano a ricordare quelle facce, quei sogni, quelle speranze.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
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