martedì 15 luglio 2008

Peace, love e Patti. Quando la speranza volava sulle note di "Horses" (di Federico Zamboni)


Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 luglio 2008
C’è da augurarlo a chiunque, di imbattersi all’improvviso in un disco come Horses. Patti Smith, all’epoca, scriveva poesie e aveva già pubblicato alcuni libri, ma era al suo primo long playing. Aveva quasi 29 anni. Aveva collaborato con Sam Shepard. Era nata a Chicago. Era cresciuta nel New Jersey. Era approdata a New York. Amava New York.
Era la fine del 1975. Il rock non garantiva più niente: all’inizio aveva dovuto lottare anche solo per esistere e si era irrobustito; adesso era uno stile musicale come qualsiasi altro, una vernice luccicante da spargere a piacere su qualunque superficie, un whisky poderoso ridotto a liquore da cocktail. L’ennesimo prodotto sullo scaffale. L’ennesimo trastullo dopo il lavoro. Fa’ quel che vuoi; dì quel che ti pare; paga il biglietto.
Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei. Cuore duro di pietra i miei peccati me stessa appartengono a me. A me.
Horses cominciava così. Introdotto da un accenno di musica che non lasciava presagire ancora nulla di quel che stava per accadere: un paio di movimenti sornioni prima di cominciare, un pugile in abiti borghesi che si dondola un attimo sulle gambe prima di colpire.
Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei. Cuore duro di pietra i miei peccati me stessa appartengono a me. A me.
Patti Smith prendeva Gloria, un vecchio hit dei Them di Van Morrison, e lo reinventava. Frammischiava i propri versi alle parole originali. Ciò che era semplice diventava complesso. Ciò che era trascinante come un ballo, diventava travolgente come una danza magica. Per i Them Gloria era solo una ragazza. Per Patti è il nome di una passione che si accende. L’amore nasce su questa terra, ma guarda al cielo. Cerchiamo di uscire da noi stessi ed è un bene. Ci imbottigliamo in una coppia, ed è un male.
Gloria era un avvio eccellente, che svelava un’interprete sorprendente e una band affiatata. Ma era solo un prologo. Il meglio era annidato più avanti, nei due lunghissimi brani che si estendono entrambi per più di nove minuti e che, ancora oggi, mettono letteralmente i brividi. Prima Birdland, poi Land. E, all’interno di Land, lo straordinario, ipnotico crescendo di Horses. Le parole che si dilatano. Le parole che si rincorrono. Che si rinserrano in sequenze convulse o che si distendono in modulazioni rarefatte, in bilico tra l’inquietudine della ricerca e l’incanto (o l’inganno) di una meta. O di un semplice avvistamento.
«Rimasi tutta la notte ad ascoltarlo», ha detto di Horses Michael Stipe, dei Rem. «Era come la prima volta che uno si tuffa nell'oceano e viene travolto da un'onda. Mi fece a pezzi. Capii da allora che volevo diventare un cantante e devo molto a Patti anche come performer.»
Naturale: ci si incendia l’un l’altro. Ci si sprona a vicenda. Patti, a sua volta, deve molto a Rimbaud, a Jimi Hendrix, a Bob Dylan. E al suo amico Robert Mapplethorpe. E a suo marito Fred ‘Sonic’ Smith. E a tanti altri ancora. Lo dice lei stessa. Lo dice volentieri: con l’entusiasmo di chi è talmente contento di aver fatto determinati incontri da avere sempre voglia di rinnovarne il ricordo, di condividerne la bellezza, di augurare ad altri la stessa fortuna. Nessuna gelosia, naturalmente: celebrando un amico o un maestro, in fondo, celebriamo anche noi stessi, nella nostra capacità di amicizia e di apprendimento.
«Ebbi il privilegio di crescere in un periodo di rivoluzione spirituale e culturale. E la musica era la rivoluzione in cui tutto aveva voce e in questa voce ci univamo. I nostri campi di battaglia erano l’Ohio, Chicago, il Fillmore. Davamo nuovi significati alla parola “soldato”. Imbracciavamo una chitarra elettrica invece di una mitragliatrice.»
Le speranze del rock. Le speranze – in parte mal riposte, in larga parte tradite – cadute in fretta sotto i colpi della vita reale. I ragazzi “normali” che crescevano e dovevano rimettersi in riga: lavorare duro e badare a sopravvivere, altro che “peace & love” e sogni di palingenesi; i ragazzi “speciali” che trasformavano la passione in business: il palcoscenico come una vetrina, gli ascoltatori come clienti, il successo – e il denaro – come una ragione di vita.
Per circa quattro anni, dopo Horses, Patti Smith rimase ai vertici del rock internazionale. Stimatissima dalla critica e apprezzata anche dal pubblico. Raffinata e carismatica. Capace di passare con la stessa forza dalle intricate architetture dei brani più ambiziosi, che in nessun caso si possono definire “canzoni”, alle solide geometrie dei pezzi rock alla Because the Night e alla Frederick. Nel 1979, ormai forte di quattro album e fresca reduce dall’incisione dell’ultimo della serie, Wave, Patti arriva anche in Italia, ricevendo un’accoglienza trionfale. Il 9 settembre è a Bologna. Il 10 a Firenze. Gira per le strade del capoluogo toscano e rimane stupita, quasi sconcertata, dalla sua stessa notorietà. I fan la riconoscono e la acclamano. La sua faccia campeggia sulle copertine delle riviste. «Il concerto di Firenze – ricorderà lei molti anni dopo – è stato grande e emozionante e ci penso sempre, soprattutto quando salgo tuttora su un palco. Se non provassi ancora quell'identico sentimento, con l'esigenza di condividerlo con il pubblico non potrei continuare a fare musica.»

Di lì a poco, però, Patti Smith volta pagina. Annuncia il suo ritiro dalle scene e si sposa. Dopo tanto inseguire la vita, bruciando esperienze e cercando parole, è finalmente il momento di usare il fuoco che ha dentro per forgiare qualcosa di stabile. Nel 1981 nasce Jackson, nel 1987 Jessica. Il bisogno di scrivere e di suonare non si è mai spento: si è solo incanalato in una dimensione privata, dove nessuno, per fortuna, può vantare aspettative e imporre scadenze.
Il ritorno discografico arriva nel 1988, con Dream of Life. Ma non è la traiettoria di un tempo che riprende a svolgersi; è una traiettoria nuova e diversa, che non sarà mai altrettanto tesa, e memorabile, di quella precedente. Quasi una seconda incarnazione: che del passato serba tutti i risultati, ma non tutte le capacità.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

mitico Roberto! ti aspetto da me per un premio... a presto! :-) GB

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie, ma... il premio - semmai - è per Federico!
:)
Ciao