Dal Secolo d'Italia di martedì 15 luglio 2008
Sangue chiama sangue potrebbe essere la frase che meglio riassume la triste vicenda di una donna e della sua bambina raccontata nel libro La bambina e il partigiano di Domizia Carafòli (Mursia Editore, pp. 225, euro 17) uscito da pochi giorni in libreria.
Si tratta della storia vera di Alfa Giubelli, una dei tanti innocenti che da bambina visse sulla propria pelle gli orrori della guerra civile. La vicenda ha inizio il 15 luglio del 1944 a Crevacuore, nel biellese, quando una donna, dopo essere stata prelevata dalla sua casa di notte dove vive con la sua bambina, viene fucilata come “spia fascista” da una pattuglia di partigiani garibaldini per ordine di Aurelio Bussi, il partigiano Palmo, luogotenente di Francesco Moranino. All’omicidio è presente la figlia di appena dieci anni, Alfa: «Marchesini, il partigiano Orlando, cerca di strappare Alfa dalle braccia della madre. Alfa urla e si divincola, l’uomo la trascina via, le ginocchia della bambina si sbucciano sui sassi dello sterrato. […] Le urla risuonano nella vallata, si infrangono contro il muro del cimitero. Nessuno accorre in aiuto, i morti non sentono». Quella notte per la bambina, che vedrà la madre morire falciata da una raffica di mitra sotto i suoi occhi, la vita non sarà più la stessa. Orfana dunque di madre, con il padre disperso in guerra, Alfa cresce sola e disadattata. Si sposa a soli quindici anni, ma il ricordo di quella mattina non lo dimenticherà mai. Nel frattempo, come accaduto in numerose zone d’Italia, gli assassini di allora diventano rispettabili cittadini e onorati amministratori. E anche a Crevacuore gli anni passano e l’ex partigiano Palmo, decorato Medaglia d’Oro alla Resistenza, diventa primo cittadino eletto tra le fila del partito comunista.
La vicenda della bambina sembrerebbe morta e sepolta nella memoria e nell’omertà delle persone di allora se non fosse che un pomeriggio di marzo del 1956 Alfa, che vive ad Alzo di Pella, sul lago d’Orta, torna a Crevacuore con una pistola in borsa decisa ad avere qualla giustizia che la democrazia del dopoguerra non le ha mai dato. La Carafòli nella premessa al libro racconta come da scrittrice e giornalista sia giunta alla storia di Alfa Giubelli. Tutto ebbe inizio con la scoperta nella biblioteca di famiglia di un opuscoletto di pagine ingiallite intitolato In difesa di Alfa Giubelli scritto da Gastone Nencioni. Nell’opuscolo – che era stato distribuito proprio dall’autore, l’avvocato e senatore del Msi, nel 1972 a Milano durante un comizio per le elezioni politiche – veniva raccontata la storia di Alfa, dall’uccisione della madre fino al giorno in cui la bambina divenuta donna si era fatta giustizia sparando al sindaco del paese, responsabile dell’omicidio della madre.
All’epoca la difesa della “vendicatrice” era stata assunta dall’avvocato Mario de Fabianis e dall’allora giovane avvocato Gastone Nencioni. La guerra civile era ormai finita da dodici anni, lasciando dietro di sé un lungo strascico giudiziario: processi contro le efferatezze delle forze armate repubblichine, processi contro i partigiani delle formazioni garibaldine, rei di omicidi particolarmente feroci. Quando la Carafòli lesse per la prima volta l’opuscolo di Nencioni era consapevole del clima di rifiuto che permaneva verso quello che Pansa ha chiamato in questi ultimi anni Il sangue dei vinti. L’agiografia della Resistenza e dei suoi protagonisti, l’antifascismo divenuto strumento di propaganda politica abilmente orchestrata dal partito comunista, rendevano ancora impossibile qualsiasi indagine obiettiva. Il ricordo degli eccidi era ancora relegato al ricordo personale delle famiglie certe che la verità non sarebbe mai venuta alla luce del sole.
La storia di Alfa dopo la morte di Gastone Nencioni sarebbe stata senz’altro destinata a scomparire nell’oblio, relegata solo a qualche ospuscolo stampato in clandestinità. Le carte del processo a carico di Alfa sarebbero per sempre rimaste negli archivi del tribunale di Vercelli. Domizia Carafòli, affascinata dall’arringa dell’avvocato Nencioni, decise dun rifiuque di riportare sotto i riflettori la storia di Alfa. «E lei, Alfa era ancora viva? Desideravo ricostruire quella vicenda eppure qualcosa mi tratteneva dal proseguire le ricerche. […] Chissà dove abitava e sotto quale nome. Invece bastò una breve ricerca: lei non si era mai nascosta. […] Poi finalmente mi decisi, e la chiamai. Di là suonarono pochi squilli, prima che qualcuno alzasse la cornetta. Rispose una voce femminile chiara, forte: “Sì, sono io. Sono Alfa Giubelli”».
È interessante leggere nel libro come l’autrice abbia ricostruito tutta la vicenda della povera Alfa fino al processo che la vide condannata. Un processo del genere naturalmente spaccò all’epoca l’Italia in due blocchi. A sinistra, anche di fronte all’evidenza dei fatti, dalle pagine dell’Unità si negavano le nefandezze compiute dai partigiani: Pietro Secchia scriveva infatti che in tutto il processo «muove a sdegno l’apologia del fascismo» e ancora che «qualcuno ha voluto trasformare il processo per assassinio premeditato in un processo contro la memoria di Aurelio Bussi, medaglia d’Oro della Resistenza». La stessa medaglia d’oro che fece ammazzare a sangue freddo una madre di fronte agli occhi della sua bambina.
Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, vive e sopravvive a Milano, dove si diletta a fare il mercante d'arte. Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi libri dedicati a Triora, il famoso paese delle streghe, di cui è cittadino onorario, i noir Il pietrificatore di Triora col quale ha dato vita al detective Leonardo Fiorentini, suo alter ego, e Il collezionista di Apricale... e le stelle grondano sangue (rispettivamente Fratelli Frilli Editori, 2006 e 2007). Di recente uscita, per Mursia, Milano sotterranea e segreta con Gianluca Padovan.
2 commenti:
Caro Ippolito, dov'è la prova che nel caso di Alfa Giubelli la madre fosse innocente e non una spia dei fascisti? Mettiamo il caso che quel giorno la signora Margherita Ricciotti colla scusa di andare al comando fascista di Vercelli per ritirare dei soldi come sussidio avesse anche intenzione di rivelare ai fascisti dove erano nascosti i partigiani e magari anche gli ebrei del suo paese, bè allora in tal caso la sua fucilazione sarebbe stata più che legittima non trovi? E la vendetta della ragazzina non avrebbe avuto alcuna ragione d'essere. Dove sono le prove dell'innocenza della signora Ricciotti in questo racconto? Forse che i partigiani come Aurelio Bussi non avevano il diritto e, oserei dire, persino il dovere di ridurre in condizioni di non nuocere quei delatori che con le loro soffiate non facevano che contribuire alla sanguinaria repressione di persone come gli antifascisti che erano perseguitati solo per le loro opinioni? Mettiamo anche il caso che il partigiano "Palmo" si possa essere sbagliato a credere che la signora Ricciotti fosse una spia fascista, il suo sarebbe stato un errore in perfetta buona fede e non una cosa voluta in malafede. Comastri Lucio
Inoltre se tu come uomo di destra ti trovassi a vivere sotto un regime comunista che reprime ferocemente il dissenso non pensi che potresti anche tu approvare metodi di guerriglia per abbattere tale regime? E non saresti anche tu portato a giustificare uccisioni di tuoi concittadini che facessero la spia per tale regime? Comastri Lucio
Posta un commento