giovedì 31 luglio 2008

A Torricella Peligna il raduno letterario dei fantiani d'Italia (1/3 agosto)

Dal Secolo d'Italia di giovedì 31 luglio 2008
Altro che teocon.«“Perché non te ne vieni a messa con noi? gli domandava spesso mia madre. “A che scopo? Dio vede la mia famiglia in chiesa. Basta questo. Lui sa che ce li ho mandati io. Dio è ovunque, anche qui. Dunque che senso ha farsi otto isolati a piedi nella neve, quando tutto quello che devo fare è stare seduto qui con Dio?”. Noi bambini stavamo lì, ammaliati da questo gran lampo rinfrescante di teologia». Altro che teologia, insomma. Nick Molise (alias Fante) – «una predisposizione per le risse da bar, mussoliniano ma grandemente democratico e insaziabilmente americano» – è un gran… irriducibile e non cede alle convenzioni. Neanche alle leggi, se non gli garbano: è l’epoca del proibizionismo ma le sue illimitate riserve di vino rimangono a disposizione degli ospiti. E quando il temutissimo padre Ramponi si presenta in casa sua per richiamarlo all’ordine, gli offre un buon bicchiere. Dopo averlo lusingato – «so che siete il miglior scalpellino del Colorado» – il prete cerca di convincerlo a recarsi in chiesa. Solo di fronte alla richiesta di confessarsi, il nostro sembra scricchiolare, cedere. Sembra, perché accetta di elencare tutti i suoi peccati in una lettera. Immaginate la reazione del parroco quando scopre che il testo è in italiano. Protesta. Grida all’inganno. Ma Nick è irremovibile: «Io vengo dagli Abruzzi, padre. Da Torricella Peligna. Voi non parlate italiano? – domanda, fingendosi sorpreso – È terribile! Il papa parla in italiano. I cardinali. I santi. Perfino Dio parla in italiano».
Chissà cosa avrebbe detto, l’irascibile Nick – così magistralmente tratteggiato da John Fante (Denver 1909 – Los Angeles 1983) ne Il dio di mio padre, il racconto citato che dà il titolo alla raccolta scritta tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta e pubblicata in Italia da Marcos y Marcos (’97) – se avesse saputo che questo suo figlio dalla prosa incandescente l’italiano non l’avrebbe mai imparato.
Certo non poteva immaginare che quel figliuolo del tutto inadatto a impugnare una cazzuola da muratore non soltanto sarebbe diventato uno scrittore celebrato ma che proprio nella sua lontanissima Torricella Peligna, il paesino montano nella provincia di Chieti che si era lasciato alle spalle per cercare fortuna nel nuovo mondo, si sarebbe tenuto un festival letterario – giunto alla sua terza edizione, che quest’anno si tiene dal 1 al 3 agosto – dedicato a John Fante ma anche alla sua straordinaria famiglia di personaggi intitolato proprio “Il dio di mio padre”.
Non parlava italiano, dicevamo, ma gli oriundi italiani ne animano l’intero immaginario letterario. Tanto da essere confinato troppo a lungo tra gli scrittori “etnici” e, come tali, minori. Malgrado il talento, rimaneva un “dago”, nomignolo che fa riferimento al vino rosso degli immigrati, Dago red è anche il titolo di una antologia di racconti del ’40 ristampata nel 2006 da Einaudi). L’accoglienza tiepida della critica lo aveva indotto a cimentarsi con la più redditizia attività di sceneggiatore per le grandi Majors. E anche lì non l’avevano certo accolto a braccia aperte. «Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra – ha spiegato la moglie, la poetessa Joyce Smart – e questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente politicizzato quale quello cinematografico, che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato». Cattolico sì, a modo suo. «Capita che un racconto abbia un tema cattolico, e non c’è proprio ragione per cui un fottuto dannato agente, che si suppone tratti di opere letterarie e non di propaganda, dovrebbe rifiutarlo», si lamentava con H. L. Mencken, suo mentore e primo editore all’American Mercury, con il quale condivideva la passione per Nietzsche, la diffidenza nei confronti del socialismo e il ricorso all’arma del sarcasmo nei confronti dei sostenitori dell’intervento americano nella Seconda guerra mondiale come dei pacifisti. «La guerra in Europa, i discorsi di Hitler? Sciocchezze. L’unica guerra che intendo combattere è quella che io stesso ho intrapreso».
Prima di morire divorato dal diabete, aveva infine raggiunto il sogno di essere riconosciuto come scrittore. Senza mai rinnegare le proprie origini. Quando, appena dopo la guerra, era venuto a conoscenza dei danni provocati dai bombardamenti a Torricella Peligna, aveva scritto al sindaco un’accorata lettera per sapere come stavano i suoi parenti. In inglese, perché, pur amando Silone, Pirandello e D’Annunzio, non aveva la necessaria confidenza con la lingua italiana. La leggenda vuole che il primo cittadino, per rispondere, dovette farsi tradurre la lettera da una professoressa. Fante rimandò a lungo l’idea di visitare il paese dei genitori, anche quando, tra il 1957 e il 1960, per motivi di lavoro, venne spesso in Europa, soggiornando a Roma e Napoli. Preferiva non rovinare il ricordo che gli avevano consegnato di un Abruzzo rurale, povero ma dignitoso, pieno di montagne e di freddo come il suo Colorado. «Paura – come scrive in Tesoro, qui è tutto una follia. Lettere dall’Europa 1957-1960 (Fazi ’99) – di non trovare gente che mi somigli, gente piccola che, quando fa una casa con tutto l’universo dentro, è capace di resistere pure al Diluvio Universale. Se là invece trovo una pompa di benzina e le luci al neon, il bar all’americana e niente uomini come mio padre, è troppo il rischio di rovinare un paesaggio…».
Gente che gli somigli difficile trovarne, irregolare com’era. Sempre sopra le righe, eccessivo, irriverente, un individualista con il gusto della provocazione. In Italia è stato riscoperto da Pier Vittorio Tondelli e la gioventù post-ideologica degli anni Ottanta ne ha fatto il proprio autore di culto. L’esercito dei fantiani è cresciuto con la forza travolgente di una valanga. Vere e proprie legioni che da venerdì marceranno su Torricella per scoprire i luoghi d’origine dello scrittore. Qualche raro parente, semplici lettori ma anche tanti “colleghi”. Uno su tutti è Gaetano Cappelli, l’autore di uno dei romanzi più belli in assoluto sul sogno americano degli emigranti italiani, Parenti lontani, pubblicato nel 2000 dalla Mondadori nell’indifferenza generale e da pochi giorni nuovamente in libreria grazie alla Marsilio. Come Fante, ventenne, aveva lasciato il Colorado per la città degli angeli, Cappelli alla stessa età ha lasciato Potenza per andare a studiare a Roma e partecipare alla stagione creativa dei Settanta. «E fu proprio in quell’epoca – ha raccontato lo scrittore lucano – che mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere di John Fante. C’era tutta la mia vita lì dentro. Leggevo e rileggevo quelle pagine. I sogni e le speranze di provinciale che girovagava solitario per le vie della grande città. Mi sentivo come Arturo Bandini». Già, Arturo, l’alter ego di Fante. Figlio di immigrati italiani, è un perdente sempre pronto a rialzarsi, a prenderle e a restituirle con gli interessi. Bellicoso e commuovente al tempo stesso. Perennemente squattrinato, vive in fatiscenti camere in affitto al limite dell’indigenza, ma gli basta pensare al luminoso futuro di scrittore che l’attende per sentirsi su di giri. Arturo, al quale il regista (fantiano) Robert Towne ha dato il volto dell’attore Colin Farrel nella trasposizione cinematografica di Chiedi alla polvere (2006), è protagonista di una vera e propria “saga”, i cui romanzi – Aspetta primavera, Bandini, Chiedi alla polvere, Sogni di Bunker Hiller e La strada per Los Angeles, quest’ultimo rimasto inedito per mezzo secolo perché «dentro ci sono cosette che metterebbero il fuoco in culo al lupo e chi racconta è devoto di Hamsun, Nietzsche e Spengler, lettore di libri che la massa non può leggere» – sono stati raccolti in un unico volume dalla Einaudi, Le storie di Arturo Bandini. Pleonastico dirlo, per chi non avesse già provveduto: vanno letti, divorati. Niente a che vedere con l’immaginetta rassicurante di icona sociale e cantore dei diseredati, Fante è uno scrittore delle emozioni. «L’umore fondamentale dei suoi scritti – spiega un fantiano doc come il noirista Marco Vichi – si basa su una visione virile del mondo. Niente ghirigori psicologici, niente spiegazioni troppo spiegate o riflessioni compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni, né vergogna di rivelarsi e di rivelare agli altri. Non si nasconde, non c’è bisogno di andarlo a cercare dietro le parole: lui è lì, aperto come fosse stato sbudellato, sfrontato e rabbioso, buono e cattivo in modo violentemente umano».
E se cresce il numero delle tesi di laurea dedicate a John Fante – tre di queste saranno illustrate nella giornata iniziale del festival – alla sua creatura di carne e inchiostro la manifestazione ha intitolato il premio riservato all’opera prima che si contenderanno i tre finalisti prima della cerimonia di premiazione prevista per sabato alle 18.30: Dunja Badnjevic con L’isola Nuda (Bollati Boringhieri), Simone Laudiero, La difficile disintossicazione di Gianluca Arkanoid (Fazi) e Sara Falli, Vita di Saragaia (Tea).
Il programma è ricco di momenti interessanti – per chi volesse consultarlo, è sufficiente un click su http://www.johnfante.org/ – tra cui l’omaggio a un altro artista d’origine teatina: il fumettista Tanino Liberatore, colui che insieme a Stefano Tamburini ha animato il personaggio di Ranxerox, figlio del movimento del ’77, il robot cybercoatto creato da uno studelinquente di elettronica durante l’occupazione del 1986 (un ’68 rovesciato…) utilizzando i pezzi di una fotocopiatrice Xerox. Parliamo della stagione di Frigidaire e della “banda” di Andrea Pazienza. Liberatore illustrerà il suo ultimo lavoro dal titolo Lucy, pubblicato nel 2007 in Francia, dove vive e lavora da oltre vent’anni. Insomma, un festival che a John Fante sarebbe piaciuto, anche se non l’avrebbe mai ammesso, scegliendo la strada dell’ironia e dello sberleffo.

2 commenti:

Giorgio Ballario ha detto...

Bello, Roberto.
Se vuoi puoi contare pure il sottoscritto nel club dei "fantiani", negli anni Novanta credo di aver letto tutto quel che era stato tradotto, ma leggendo l'articolo mi è venuta voglia di riprendere in mano almeno un paio di libri del vecchio John.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie Giorgio. Anche io ho tutto il "tradotto" (in diverse edizioni, compresa la praticissima e recente antologia bandiniana. Lì c'è quasi tutto il meglio.
PS.
L'amico Gaetano Cappelli ha meritatamente vinto il premio assegnato dalla giuria del festival.
Un saluto e a rileggerci presto.
Mi raccomando il tenente...