«Un centrodestra che sfonda a sinistra? Che male c'è, è anche questo un segno del cambiamento (...) Sono le società, sia in Italia che in Europa e in Occidente, a essersi modificate, determinando un approccio nuovo e aperto nella maggioranza dell'elettorato».
Direttore responsabile del Secolo d'Italia, Luciano Lanna (nella foto) è tra i protagonisti della piccola rivoluzione che ha investito da tempo il quotidiano di Alleanza Nazionale e più in generale gli ambienti culturali della destra postmissina. Autore, insieme a Filippo Rossi, di Fascisti immaginari (Vallecchi, 2003), Lanna è un osservatore attento dei fenomeni culturali e non fa mistero di guardare con interesse a quanto viene letto e prodotto a sinistra. Cresciuto nella destra giovanile romana, tra gli accenti sociali dell'ala rautiana del Msi e le suggestioni della Nouvelle Droite nostrana, è una delle figure di punta del nuovo corso culturale di An: tra rimandi pop, in termini culturali, sdoganamento di autori e temi cari alla sinistra e attenzione al sociale.
Il Presidente del Consiglio Berlusconi, illustrando pochi giorni fa il "Libro verde" del Ministro del Welfare Maurizio Sacconi, ha spiegato che questo governo può fare politiche di sinistra. Si sta realizzando ciò che teorizzava una parte del Msi negli anni Settanta: la destra ha sfondato a sinistra?
Penso che sia in atto una ridefinizione complessiva del modo di concepire la politica per cui, ad esempio, perfino nel linguaggio della maggioranza di governo i riferimenti al "moderatismo" e ai "moderati" sono spariti del tutto. Centrodestra e centrosinistra sono contenitori in cui, al di là della retorica che si fa in funzione tattica all'esterno, prevalgono in questo momento le scelte concrete, il "fare" la politica e le cose. Quando Berlusconi ha sconcertato tutti dicendo «Noi possiamo fare anche politiche di sinistra», sul Secolo ho scritto un editoriale intitolato «Se da destra si sfonda a sinistra». Questo perché, con la sua affermazione, il Presidente del Consiglio ha evidenziato come la partita l'abbia vinta quella componente della destra che da più di vent'anni va dicendo come sia un grave errore il considerare "destra" e "sinistra" come gabbie immodificabili o come rappresentazioni di segmenti ben definiti della società. Oggi contano le scelte concrete e così, un po' in tutto il mondo, si assiste a questo "sfondamento a sinistra" da parte di politiche elaborate da chi viene "da destra".
Però il "welfare delle opportunità" proposto da Sacconi, contrapposto alla concezione universalista dello Stato sociale e assortito dal taglio (poi rientrato solo in parte) degli assegni sociali, e più in generale da una drastica riduzione della spesa, non sembra fare gli interessi dei più deboli e rappresentare un orizzonte coerente con quello di chi si è sempre presentato come "destra sociale". O no?
Il punto è che le politiche sociali non possono più essere concepite come un tempo, esclusivamente in termini statalisti. Sono anni che si ragiona di welfare community piuttosto che secondo le interpretazioni tradizionali dello Stato sociale. E attraverso il principio di sussidiarietà che è diventato centrale su questi temi, si possono conciliare la ridefinizione del ruolo di uno Stato eccessivamente interventista con le forme di solidarietà che si realizzano dando forza alle energie presenti nella società civile: quindi non il "meno Stato e più mercato" che viene spesso evocato, quanto piuttosto il "meno Stato e più società civile".
Quindi, riassumendo, nella coalizione di governo avrebbe vinto quella parte della destra non schiacciata sulle posizioni più liberiste e che da tempo ha lavorato per superare la dicotomia destra-sinistra. In altre parole avete vinto voi, An e, all'interno del partito le componenti innovative della cultura postmissina. Ne è sicuro?
In effetti se ci ferma alla superficie delle cose potrebbe sembrare che sia accaduto il contrario, ma se si analizza davvero il processo in atto in profondità si trovano conferme a quanto dico. Che ci sia ormai da almeno un ventennio una crisi teorica della sinistra mi sembra sia un dato di fatto. Su questa crisi si sono create le condizioni per ipotesi e sintesi politiche nuove e via via è andata emergendo una proposta concreta: il fatto che oggi Berlusconi rilanci l'idea dell'economia sociale di mercato piuttosto che evocare le ricette della Thatcher o di Reagan non fa che confermare tutto ciò. Inoltre, un approccio "sociale" alla politica sta emergendo anche perché è oggi l'unica proposta possibile.
Resta un paradosso, quello per cui nell'ambiente di An si cerca da anni di recuperare quel Sessantotto che vide i neofascisti contrapporsi militarmente alle occupazioni studentesche - lo stesso Fini ha riconosciuto che la destra scelse all'epoca la parte sbagliata, dicendo «Stavamo con i parrucconi e i baroni» -, mentre nella coalizione di governo si pensa il contrario: un ministro di Forza Italia come Sacconi arriva addirittura a dichiarare di voler abrogare il '68. Come stanno le cose?
Il paradosso è evidente, ma da un altro punto di vista. Le componenti della maggioranza che sul '68 hanno le posizioni più dure sono quelle che vengono dagli ambienti socialisti e più in generale della sinistra. Anche all'esterno del governo potrei citare un personaggio come Giuliano Ferrara che non fa mistero delle sue posizioni su quel periodo storico. Mentre invece sul versante della cultura politica a cui faccio riferimento io c'è stata una completa liberazione dallo schema con cui si guardava al '68 un tempo. Nell'area di An tutti hanno salutato con favore le affermazioni di Fini, anche se non credo che le cose si fermino lì, nel senso che alcune iniziative assunte dal governo risentono positivamente di questa apertura. Penso in particolare a quanto proposto in questi giorni da Giorgia Meloni per le Comunità giovanili: da destra c'è una politica che va in direzione dei giovani e delle loro esigenze. Un segnale ulteriore del fatto che il percorso di rinnovamento della destra oggi risulta vincente.
Ma proprio l'esempio delle Comunità giovanili non dimostra piuttosto come la destra tenti di veicolare dall'alto - in questo caso dal governo - ciò che non era riuscita ad affermare dal basso, tra i giovani e nella società, costruendo una sorta di risposta ai centri sociali?
Non credo che l'idea sia quella di dare una risposta di segno opposto ai centri sociali, quanto di offrire un quadro istituzionale alle forme di aggregazione giovanile. I centri sociali, che sono sorti in molti paesi e non solo in Italia, appartengano a una fase antagonistica delle culture giovanili che oggi si è progressivamente istituzionalizzata. In questo mi sembra che la proposta di Meloni recepisca da parte del governo la spinta che i centri hanno fin qui posto dal basso, cercando di creare un quadro istituzionale nel quale organizzare quelle istanze. Più in generale credo che la stagione della ricerca di un'egemonia attraverso la militanza sia finita definitivamente all'inizio degli anni Novanta. Se oggi cerchiamo ancora di inquadrare il mondo giovanile attraverso le categorie dell'impegno politico, rischiamo di non capire più nulla. Da questo punto di vista non si può dire che i giovani siano rappresentati dalla destra, ma nemmeno dalla sinistra: semplicemente sono "altrove", non usano più la politica per vivere il loro rapporto con la società. Non a caso, la destra ha vinto le elezioni e è tornata al governo giocando sulla paura, sul rifiuto degli immigrati e sull'allarme sicurezza, piuttosto che su un'ipotesi di "sfondamento a sinistra". Non le pare?
Al di là delle retoriche della campagna elettorale che spesso contribuiscono a creare sui media una rappresentazione della politica che non è adeguata alla realtà, si deve cercare di capire cosa è stato espresso da chi è andato a votare. In questo senso credo si possa dire che sia quello nazionale che quello di Roma non si possono definire tanto come "voti di destra", ma certo come l'espressione di uno scollamento crescente tra una parte dei cittadini e la sinistra. Le periferie e le borgate che hanno votato per Alemanno hanno dato un segno tangibile della loro rottura con una certa cultura di sinistra. Detto in altri termini: non credo che chi vive in periferia voglia soltanto il poliziotto di quartiere, vuole anche che si sistemino i giardini pubblici o che si migliori la qualità della vita e si lavori sulla ricostruzione dei legami sociali e della comunità. Su questi temi, come sul ruolo che deve avere la cultura nelle politiche di questo governo - evocato poco tempo da un editoriale di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera -, emerge una domanda che è insieme concreta e immateriale, perché parla anche di "senso" oltre che della risoluzione dei problemi quotidiani dei cittadini. Da questo punto di vista, la scommessa che la destra a cui appartengo, quella di An per sintetizzare, deve dimostrare di poter vincere si gioca proprio sulla capacità di innestare nella politica elementi culturali e immateriali, offrendo uno scenario alla ricostruzione della società.
Però proprio il "Secolo d'Italia", fedele in questo alle correnti eretiche della giovane destra che lo facevano già vent'anni fa, non manca di ispirarsi ogni giorno a figure che non potrebbero essere più lontane dal pantheon postfascista: da Francesco Guccini a John Fante passando per Andrea Pazienza, solo per restare agli ultimi "recuperi". La cultura di destra è così impresentabile?
Mi sembra si tratti di un falso scandalo, sia perché non è una novità, la ricerca di nuove sintesi politiche e culturali contraddistingue alcuni ambienti della destra fin dalla fine degli anni Settanta, sia perché si tratta di un fenomeno che riguarda un po' tutti: a sinistra si amano e si leggono Céline e Mishima o si apprezzano i film di Clint Eastwood, mentre Tremonti recupera Marx e io stesso ho scritto più volte di Gramsci. Il cuore della questione non mi pare sia però rappresentato dal fatto che da destra si apprezzano autori o musicisti "di sinistra", o viceversa, quanto che questi esempi indicano come sia in atto in questi anni un grande cambiamento che ci porta, tutti, a recuperare un immaginario condiviso e maggioritario che è l'immaginario reale degli italiani. Per troppi anni ci siamo raccontati come se fossimo dei popoli separati - quando in realtà io che ero di destra e i miei coetanei di sinistra al liceo ascoltavamo gli stessi dischi: Guccini e De Gregori e tutti gli altri cantautori. Oggi c'è bisogno di recuperare un linguaggio comune, dal quale dobbiamo partire per uscire dalla logica della incomunicabilità e della guerra civile: solo così potremo costruire la politica del futuro. Gli anni Settanta e gli anni Ottanta sono stati lacerati da rotture e divisioni anche tragiche, mentre dallo scorso decennio si sta cercando di ritrovare un filo culturale comune in questo paese. Credo che nessuno possa dolersene.
Non si può però negare che a destra si continui anche a coltivare il mito del passato o si celebrino con nostalgia figure terribili come quella di Junio Valerio Borghese, presentato in questi giorni da Marcello Veneziani dalle pagine di una rivista dedicata ai consumi maschili come un modello di eroismo per le nuove generazioni. "Via Paolo Fabbri" e la Decima Mas?
Anche qui, direi che le cose sono meno definite di quanto sembra. Giovanni Gentile, il filosofo ufficiale del fascismo veniva da una formazione marxista e lo stesso si può dire di una grande figura intellettuale della destra come quella di Gioacchino Volpe. Le sintesi culturali sono sempre interessanti e proficue. Così, già alcuni anni fa Oliver Stone aveva dichiarato di voler dedicare un film alla figura di Borghese, alla sua biografia di comandante militare. Di qualunque personaggio si può perciò trovare la parte che può essere "metabolizzata". E in ogni caso il Secolo non fa cose del genere. Del resto, c'è una polemica aperta e chiara tra noi e chi si propone di rappresentare una sorta di destra incontaminata e conservatrice, come fa ad esempio Veneziani.
Il Presidente del Consiglio Berlusconi, illustrando pochi giorni fa il "Libro verde" del Ministro del Welfare Maurizio Sacconi, ha spiegato che questo governo può fare politiche di sinistra. Si sta realizzando ciò che teorizzava una parte del Msi negli anni Settanta: la destra ha sfondato a sinistra?
Penso che sia in atto una ridefinizione complessiva del modo di concepire la politica per cui, ad esempio, perfino nel linguaggio della maggioranza di governo i riferimenti al "moderatismo" e ai "moderati" sono spariti del tutto. Centrodestra e centrosinistra sono contenitori in cui, al di là della retorica che si fa in funzione tattica all'esterno, prevalgono in questo momento le scelte concrete, il "fare" la politica e le cose. Quando Berlusconi ha sconcertato tutti dicendo «Noi possiamo fare anche politiche di sinistra», sul Secolo ho scritto un editoriale intitolato «Se da destra si sfonda a sinistra». Questo perché, con la sua affermazione, il Presidente del Consiglio ha evidenziato come la partita l'abbia vinta quella componente della destra che da più di vent'anni va dicendo come sia un grave errore il considerare "destra" e "sinistra" come gabbie immodificabili o come rappresentazioni di segmenti ben definiti della società. Oggi contano le scelte concrete e così, un po' in tutto il mondo, si assiste a questo "sfondamento a sinistra" da parte di politiche elaborate da chi viene "da destra".
Però il "welfare delle opportunità" proposto da Sacconi, contrapposto alla concezione universalista dello Stato sociale e assortito dal taglio (poi rientrato solo in parte) degli assegni sociali, e più in generale da una drastica riduzione della spesa, non sembra fare gli interessi dei più deboli e rappresentare un orizzonte coerente con quello di chi si è sempre presentato come "destra sociale". O no?
Il punto è che le politiche sociali non possono più essere concepite come un tempo, esclusivamente in termini statalisti. Sono anni che si ragiona di welfare community piuttosto che secondo le interpretazioni tradizionali dello Stato sociale. E attraverso il principio di sussidiarietà che è diventato centrale su questi temi, si possono conciliare la ridefinizione del ruolo di uno Stato eccessivamente interventista con le forme di solidarietà che si realizzano dando forza alle energie presenti nella società civile: quindi non il "meno Stato e più mercato" che viene spesso evocato, quanto piuttosto il "meno Stato e più società civile".
Quindi, riassumendo, nella coalizione di governo avrebbe vinto quella parte della destra non schiacciata sulle posizioni più liberiste e che da tempo ha lavorato per superare la dicotomia destra-sinistra. In altre parole avete vinto voi, An e, all'interno del partito le componenti innovative della cultura postmissina. Ne è sicuro?
In effetti se ci ferma alla superficie delle cose potrebbe sembrare che sia accaduto il contrario, ma se si analizza davvero il processo in atto in profondità si trovano conferme a quanto dico. Che ci sia ormai da almeno un ventennio una crisi teorica della sinistra mi sembra sia un dato di fatto. Su questa crisi si sono create le condizioni per ipotesi e sintesi politiche nuove e via via è andata emergendo una proposta concreta: il fatto che oggi Berlusconi rilanci l'idea dell'economia sociale di mercato piuttosto che evocare le ricette della Thatcher o di Reagan non fa che confermare tutto ciò. Inoltre, un approccio "sociale" alla politica sta emergendo anche perché è oggi l'unica proposta possibile.
Resta un paradosso, quello per cui nell'ambiente di An si cerca da anni di recuperare quel Sessantotto che vide i neofascisti contrapporsi militarmente alle occupazioni studentesche - lo stesso Fini ha riconosciuto che la destra scelse all'epoca la parte sbagliata, dicendo «Stavamo con i parrucconi e i baroni» -, mentre nella coalizione di governo si pensa il contrario: un ministro di Forza Italia come Sacconi arriva addirittura a dichiarare di voler abrogare il '68. Come stanno le cose?
Il paradosso è evidente, ma da un altro punto di vista. Le componenti della maggioranza che sul '68 hanno le posizioni più dure sono quelle che vengono dagli ambienti socialisti e più in generale della sinistra. Anche all'esterno del governo potrei citare un personaggio come Giuliano Ferrara che non fa mistero delle sue posizioni su quel periodo storico. Mentre invece sul versante della cultura politica a cui faccio riferimento io c'è stata una completa liberazione dallo schema con cui si guardava al '68 un tempo. Nell'area di An tutti hanno salutato con favore le affermazioni di Fini, anche se non credo che le cose si fermino lì, nel senso che alcune iniziative assunte dal governo risentono positivamente di questa apertura. Penso in particolare a quanto proposto in questi giorni da Giorgia Meloni per le Comunità giovanili: da destra c'è una politica che va in direzione dei giovani e delle loro esigenze. Un segnale ulteriore del fatto che il percorso di rinnovamento della destra oggi risulta vincente.
Ma proprio l'esempio delle Comunità giovanili non dimostra piuttosto come la destra tenti di veicolare dall'alto - in questo caso dal governo - ciò che non era riuscita ad affermare dal basso, tra i giovani e nella società, costruendo una sorta di risposta ai centri sociali?
Non credo che l'idea sia quella di dare una risposta di segno opposto ai centri sociali, quanto di offrire un quadro istituzionale alle forme di aggregazione giovanile. I centri sociali, che sono sorti in molti paesi e non solo in Italia, appartengano a una fase antagonistica delle culture giovanili che oggi si è progressivamente istituzionalizzata. In questo mi sembra che la proposta di Meloni recepisca da parte del governo la spinta che i centri hanno fin qui posto dal basso, cercando di creare un quadro istituzionale nel quale organizzare quelle istanze. Più in generale credo che la stagione della ricerca di un'egemonia attraverso la militanza sia finita definitivamente all'inizio degli anni Novanta. Se oggi cerchiamo ancora di inquadrare il mondo giovanile attraverso le categorie dell'impegno politico, rischiamo di non capire più nulla. Da questo punto di vista non si può dire che i giovani siano rappresentati dalla destra, ma nemmeno dalla sinistra: semplicemente sono "altrove", non usano più la politica per vivere il loro rapporto con la società. Non a caso, la destra ha vinto le elezioni e è tornata al governo giocando sulla paura, sul rifiuto degli immigrati e sull'allarme sicurezza, piuttosto che su un'ipotesi di "sfondamento a sinistra". Non le pare?
Al di là delle retoriche della campagna elettorale che spesso contribuiscono a creare sui media una rappresentazione della politica che non è adeguata alla realtà, si deve cercare di capire cosa è stato espresso da chi è andato a votare. In questo senso credo si possa dire che sia quello nazionale che quello di Roma non si possono definire tanto come "voti di destra", ma certo come l'espressione di uno scollamento crescente tra una parte dei cittadini e la sinistra. Le periferie e le borgate che hanno votato per Alemanno hanno dato un segno tangibile della loro rottura con una certa cultura di sinistra. Detto in altri termini: non credo che chi vive in periferia voglia soltanto il poliziotto di quartiere, vuole anche che si sistemino i giardini pubblici o che si migliori la qualità della vita e si lavori sulla ricostruzione dei legami sociali e della comunità. Su questi temi, come sul ruolo che deve avere la cultura nelle politiche di questo governo - evocato poco tempo da un editoriale di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera -, emerge una domanda che è insieme concreta e immateriale, perché parla anche di "senso" oltre che della risoluzione dei problemi quotidiani dei cittadini. Da questo punto di vista, la scommessa che la destra a cui appartengo, quella di An per sintetizzare, deve dimostrare di poter vincere si gioca proprio sulla capacità di innestare nella politica elementi culturali e immateriali, offrendo uno scenario alla ricostruzione della società.
Però proprio il "Secolo d'Italia", fedele in questo alle correnti eretiche della giovane destra che lo facevano già vent'anni fa, non manca di ispirarsi ogni giorno a figure che non potrebbero essere più lontane dal pantheon postfascista: da Francesco Guccini a John Fante passando per Andrea Pazienza, solo per restare agli ultimi "recuperi". La cultura di destra è così impresentabile?
Mi sembra si tratti di un falso scandalo, sia perché non è una novità, la ricerca di nuove sintesi politiche e culturali contraddistingue alcuni ambienti della destra fin dalla fine degli anni Settanta, sia perché si tratta di un fenomeno che riguarda un po' tutti: a sinistra si amano e si leggono Céline e Mishima o si apprezzano i film di Clint Eastwood, mentre Tremonti recupera Marx e io stesso ho scritto più volte di Gramsci. Il cuore della questione non mi pare sia però rappresentato dal fatto che da destra si apprezzano autori o musicisti "di sinistra", o viceversa, quanto che questi esempi indicano come sia in atto in questi anni un grande cambiamento che ci porta, tutti, a recuperare un immaginario condiviso e maggioritario che è l'immaginario reale degli italiani. Per troppi anni ci siamo raccontati come se fossimo dei popoli separati - quando in realtà io che ero di destra e i miei coetanei di sinistra al liceo ascoltavamo gli stessi dischi: Guccini e De Gregori e tutti gli altri cantautori. Oggi c'è bisogno di recuperare un linguaggio comune, dal quale dobbiamo partire per uscire dalla logica della incomunicabilità e della guerra civile: solo così potremo costruire la politica del futuro. Gli anni Settanta e gli anni Ottanta sono stati lacerati da rotture e divisioni anche tragiche, mentre dallo scorso decennio si sta cercando di ritrovare un filo culturale comune in questo paese. Credo che nessuno possa dolersene.
Non si può però negare che a destra si continui anche a coltivare il mito del passato o si celebrino con nostalgia figure terribili come quella di Junio Valerio Borghese, presentato in questi giorni da Marcello Veneziani dalle pagine di una rivista dedicata ai consumi maschili come un modello di eroismo per le nuove generazioni. "Via Paolo Fabbri" e la Decima Mas?
Anche qui, direi che le cose sono meno definite di quanto sembra. Giovanni Gentile, il filosofo ufficiale del fascismo veniva da una formazione marxista e lo stesso si può dire di una grande figura intellettuale della destra come quella di Gioacchino Volpe. Le sintesi culturali sono sempre interessanti e proficue. Così, già alcuni anni fa Oliver Stone aveva dichiarato di voler dedicare un film alla figura di Borghese, alla sua biografia di comandante militare. Di qualunque personaggio si può perciò trovare la parte che può essere "metabolizzata". E in ogni caso il Secolo non fa cose del genere. Del resto, c'è una polemica aperta e chiara tra noi e chi si propone di rappresentare una sorta di destra incontaminata e conservatrice, come fa ad esempio Veneziani.
1 commento:
Non è che la destra stia 'sfondando' a sinistra (ammesso che esista una sinistra), ma è che Berlusconi sta rubando tutto ciò che è prerogativa della sinistra. Pensiamo al nuovo nome del suo partito! Manca solo che il simbolo, da azzurro diventi rosso!
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