lunedì 1 settembre 2008

E il diabolico Johnson risorge trasformato in Arcangelo del blues (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 3 agosto
Robert Johnson: nato nel 1911, morto nel 1938. Ventisette anni di vita randagia e inquieta, dominata dal desiderio, a lungo frustrato, di diventare un grande bluesman, e finita all'improvviso in circostanze drammatiche e misteriose. Avvelenato da un marito geloso, dicono alcuni. Avvelenato da whisky di quart'ordine, dicono altri. Ucciso dalla magia nera. O da forze occulte ancora più potenti: ansiose di strappargli quella sua anima tormentata che, secondo la leggenda, aveva venduto al diavolo in cambio di una straordinaria, stupefacente, pressoché inarrivabile perizia nel suonare la chitarra.
Robert Johnson: che conosceva innumerevoli pezzi – com'era obbligatorio per un musicista girovago che doveva accattivarsi all'impronta l'uditorio del giorno – e che ne aveva composti chissà quanti di suoi, tra creazioni del tutto originali e riadattamenti di brani altrui; ma che a causa della sua morte prematura, arrivata proprio quando il suo smisurato talento era finalmente esploso, ha lasciato solo 29 incisioni, registrate in due sessioni svoltesi entrambe in terra texana, per conto della storica etichetta Vocalion: la prima a San Antonio, tra il 23 e il 27 novembre 1936; la seconda a Dallas, nella sola giornata di domenica 20 giugno 1937.
Per più di due decenni, complice la morte di cui si è detto, il materiale rimase nell'ombra. I dischi che erano stati pubblicati divennero irreperibili. Certi suoi brani continuarono a essere eseguiti, ma, entrando a far parte del repertorio di altri artisti, fecero dimenticare che il loro autore li aveva anche interpretati, un tempo. Per più di due decenni andò così. Poi, finalmente, nel 1961 le vecchie registrazioni uscirono dagli archivi. La Columbia pubblicò King of the Delta Blues Singers. Per chi voleva, finalmente, c'era la possibilità di ascoltare i blues di Robert Johnson cantati da Robert Johnson. E di scoprirne la diversità. La specificità di Robert Johnson. La verità di Robert Johnson.
Ma la verità di un artista, specialmente degli artisti che si muovono tra folk e pop, cioè al di fuori della cultura con la C maiuscola, non è un'iscrizione scolpita nel marmo una volta per sempre. Chi arriva dopo non si limita a prenderne atto: animato dalle migliori intenzioni, come accade agli innamorati, proietta desideri e aspettative. Vede quello che vuole vedere. Quello che ha bisogno di vedere.
È successo anche con Robert Johnson, naturalmente. Con entusiasmo, con ammirazione, con amore, hanno preso le sue canzoni e le hanno fatte proprie. Fino a stravolgerle completamente, come nel caso (celeberrimo, esemplare) di Sweet Home Chicago. Fino a interpretarle a senso unico, accreditando come indiscutibile la chiave di lettura più intrigante – quella del patto col demonio – e tralasciandone ogni altra.
Luigi Monge, autore di questo interessantissimo Robert Johnson. I Got the Blues. Testi commentati (Arcana, 2008, pagg. 291, € 18,50), viaggia in direzione diametralmente opposta. Ritiene che finora si sia esagerato, nell'ammantare di soprannaturale l'intera vita di Robert Johnson, e chiede che si riparta daccapo. Con la consapevolezza che non basta leggere i testi, e men che meno le traduzioni, per tirare le somme. Non sono composizioni di oggi. Sono parole che risalgono agli Anni Trenta. Che si iscrivono in una cultura particolare come quella dei neri del Delta. Che utilizzano parole di una lingua che sembra l'americano corrente ma che, in realtà, è il “black american”, con tutte le sue distanze antropologiche e le sue divergenze semantiche.
Monge pensa che non ci sia nulla di demoniaco, in Robert Johnson. Pensa che i tanti riferimenti al diavolo, anche quelli più espliciti, siano del tutto metaforici: la vera oscurità è l'inconscio, con le sue pulsioni contraddittorie e ingovernabili. L'inferno è la vita che si aggroviglia fino ad imprigionarti. Il tempo che si consuma togliendoti i doni, e i sogni, della giovinezza. Le donne come desiderio irrefrenabile e come minaccia permanente: ti si concedono e credi che sia l'apoteosi del tuo potere di uomo, o anche solo di maschio; se ne vanno e capisci fino a che punto ti sei illuso. Per poi illuderti di nuovo, alla prima occasione.
Monge fa un lavoro certosino – commentando i brani a uno a uno e, quasi sempre, seguendo la successione dei versi dall'inizio alla fine – che si fa apprezzare anche quando non si è d'accordo. Anche quando lui, nell'ansia di controbilanciare la vulgata satanica, diventa talmente analitico da cancellare la visione d'insieme, talmente prosaico da togliere alle parole la loro carica evocativa.
C'è questo brano che si intitola Stones In My Passway, ad esempio.


Questo brano che a un certo punto, nella terza strofa, dice «I miei nemici mi hanno tradito. Alla fine hanno raggiunto il povero Bob. E c'è una cosa sicura: hanno messo pietre lungo tutto il mio sentiero». Scrive Monge: «Rimane intenzionalmente oscuro chi siano [i nemici] anche se il termine “they” (“loro”, “i bianchi”) implica spesso un sottinteso razziale». Ma il pregio dei versi, la loro forza, è proprio nel lasciare «intenzionalmente oscuro» chi siano quei nemici. E perché dei bianchi, poi? Il tradimento fa pensare a una vicinanza, razziale o famigliare. O addirittura a un'amicizia. «M'hanno tradito. Povero Bob”.


Dove Monge ha perfettamente ragione, invece, è nell'auspicare che la si smetta di ignorare, o trascurare, i testi del blues «a favore di un vuoto ascolto puramente epidermico della sola musica». Perché si perderebbe il meglio, a restare in superficie. Perché ci sono così tante cose, nel blues. Cose che risuonano nella musica e che riecheggiano nelle parole. Cose che stanno dentro il suono denso e scandito delle chitarre, dentro il respiro affannato e indomito di un'armonica, dentro le innumerevoli voci di coloro che hanno cantato e canteranno le stesse storie. Ricordandoci – proprio con le loro diversità di timbro e di stile – che moltissimi individui camminano sulla medesima strada, sospinti senza scampo verso il medesimo destino.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

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