lunedì 22 settembre 2008

L'Italia dei festival: dove Marinetti e Gramsci si danno la mano... (di Filippo Rossi)

Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 21 settembre 2008
L’elenco, perdonateci, sarà lungo. Perchè il fenomeno è imponente e sta rivoluzionando il modo di pensare la cultura in Italia, il paese in Europa con il maggior numero di Festival. Letterari o filosofici, spirituali o storici, di scienza o economia, architettura o ambiente. Una marea che non conosce argini, contagia assessori e sindaci, solletica l’orgoglio municipale, travolge gli editori, lusinga l’autore, entusiasma i librai, stuzzica i lettori. Eccolo, quindi, l’elenco (per forza di cose parzialissimo): la Fiera del libro di Torino, i Luoghi delle parole a Chivasso, il Festival Scrittorincittà a Cuneo, il Festival del Noir a Courmayeur, il Festival del Racconto a Varese, e poi la Milanesiana, il Festivaletteratura a Mantova, Parole nel tempo a Pavia, il Piccolo Festival della Letteratura di Bassano del Grappa, Pordenone legge, Festival del Giallo di Savona, Festival Internazionale di Poesia a Genova, il Festival della scienza di Genova, la Fiera internazionale del Libro per Ragazzi di Bologna, il Festival di poesia di Parma, il Festival del mondo antico di Rimini, il Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, il Poesia festival di Modena, e poi il Festival del giallo e del noir italiani a Ravenna, il Festival della Mente di Sarzana, Caffeina cultura a Viterbo, il Festival Letterature di Roma, il Festival delle letterature di Pescara, il Festival della Letteratura Mediterranea di Lucera, Aria di libri a Palermo, il Festival internazionale della letteratura di Gavoi…
Lungo, vi avevamo avvertito. E si tratta solo di alcuni degli eventi culturali che, ogni anno, svelano l’esistenza di un’altra Italia: di un paese misconosciuto che fugge dagli anemici dibattiti in politichese, che non si accascia inebetito davanti a un televisore, che non si accontenta di una cultura stampata, piovuta dall’alto. Che non ha paura di comprare più di un libro al mese e, però, non ha nemmeno timore di scoprire quel che c’è dietro: una storia, un pianto, un urlo, un tradimento, un amore, una delusione. Una passione, insomma. Un’Italia che va verso la vita, che cerca il calore di un incontro, l’intesa di uno sguardo ma anche il disturbo di una domanda inattesa, il sorriso, l’applauso e il fischio. Ha raccontato Zygmunt Bauman, dopo aver partecipato al Festival dell’economia di Trento: «Il festival ha realizzato il sogno di ogni intellettuale pubblico: la possibilità unica di un incontro faccia a faccia con migliaia di persone, interessate non ai meriti accademici ma a una saggezza che migliori la vita». Grandi successi: la prova che una certa cultura ideologica predominante in Italia è ormai, definitivamente, al capolinea. Dal pensiero critico al pensiero mitico. E’ finita la cultura di quelli che – come li ha descritti Gino Agnese – «leggono un testo, andando filati, senza incertezze, di riga in riga, o almeno seguono il filo tracciato in foglietti da booknote». Di quelli che, ancora Agnese, «stanno nel binario tematico, e meglio è se il binario è a scartamento ridotto. Quelli che temono il deragliamento, sono sequenziali, non conoscono l’ariosità delle brevi digressioni, delle efficaci comparazioni…».
I festival, questa la tesi, come antidoto naturale a una cultura italiana che per decenni è rimasta bloccata, prigioniera nelle stanze delle università e degli editori… I festival come eccitatoio di cultura promiscua, in cui tutti parlano con tutti, in cui alcuni legami si sciolgono e altri si formano. Grazie all’incontro, alla stretta di mano. C’è qualcosa del Futurismo in questa fuga dalla istituzionalizzazione della cultura. Come Marinetti con le “serate futuriste” coinvolgeva nello spettacolo di piazza e poi teatrale gli spettatori, così i festival invitano alla partecipazione, seducono nella loro promiscuità. Ed è forse per questo che i soliti moralisti hanno fatto di tutto per denigrare la marea montante di una cultura parlata, aperta a tutti, sganciata da qualsiasi postulato. Giusto per fare un esempio, Lucetta Scaraffia sul Corriere della Sera a luglio si è scagliata contro la mania tutta italiana dei festival: «Secondo una ricerca “Iard” – ha scritto la Scaraffia – i giovani italiani leggono molto meno dei loro coetanei europei. Questo dato, unito al fatto che in Italia aumenta il numero di chi ha difficoltà a comprendere testi scritti, è senza dubbio prova di una vera e propria crisi culturale. I dati di cui sto dicendo sembrano apparentemente in contrasto, però, con quelli che fornisce Economia della cultura: secondo la rivista, non solo i giovani, infatti, sarebbero i più numerosi fruitori ma anche tra i più assidui organizzatori (con o senza compenso) dei festival culturali così di moda negli ultimi anni. Apparentemente. Perché in realtà i festival non implicano il leggere, bensì il semplice coinvolgimento nelle più varie manifestazioni, fondate sul semplice ascolto. Ma, si sa, ascoltare è una pratica collettiva, che può essere vissuta come “un’emozione”, laddove leggere, invece, richiede impegno individuale. Ed è proprio di questo tipo d’impegno che i giovani non sembrano avere troppa voglia». Ma già nel 2005 sull’Osservatore Romano, il critico Mario Gabriele Giordano definiva il festival di Mantova «un grande gioco che presume di usare lo spettacolo a fini culturali mentre in realtà fa l’esatto contrario».
“Spettacolarizzazione della cultura”, questa l’accusa. Lo scrittore e poeta Paolo Di Stefano sul Corriere si è infatti fatto qualche domanda rilevatrice di un atteggiamento altezzoso, ancora diffuso contro il successo dei festival culturali: «Non è che per caso queste manifestazioni funzionano come surrogato del libro? E finiscono per sostituirlo? O per creare un buon alibi alla poca voglia di andare in libreria? Uno dice: in fondo ne so già abbastanza senza faticare troppo e di certo divertendomi di più… Ma la lettura è un’altra cosa. Richiede una fatica e una concentrazione che non prevedono l’uso di quel verbo». Ecco svelato il vero nodo della questione: razionalismo contro sentimento; sovrastruttura contro vita vera; accademia contro naturalezza. Basta decidere da che parte stare. Al Festival di Mantova, Daniel Pennac non ha avuto dubbi: «Io somaro delle lettere contro l’accademia». Il critico letterario Alfonso Berardinelli sull’Avvenire, nel tentativo di criticare il sistema dei festival, è riuscito in realtà a spiegarne tutta la carica rivoluzionaria: «In un festival l’immagine fisica e la voce degli autori sovrastano, rendono secondario il testo scritto e stampato, la sua tradizionale centralità. Forse l’attrazione per i festival letterari allargherà il numero dei lettori di libri. O forse attirerà soprattutto quei lettori che sognano di leggere, ma non hanno abbastanza tempo, passione e carattere per restarsene fermi davanti a un libro cercando di capirlo».
A braccetto con la rete e con la google-kultur, i festival culturali segnano una svolta culturale più importante di quello che gli osservatori pensano: apertura dei confini, crollo dei muri ideologici, nuove interconnessioni. Perché la parola scritta si affida di nuovo al calore della lingua parlata, della retorica, del sentimento. A ben pensare, è un fenomeno che sta coinvolgendo – tra le ramanzine dei critici – la scrittura stessa, la stessa forma romanzo. E così le migliaia di persone che sentono l’intima esigenza di ascoltare di persona, di conoscere senza filtri, l’intellettuale, lo scrittore, lo studioso ricordano alla lontana (ma non troppo) quei clerici vaganti, quegli studenti girovaghi che, nel Basso medioevo, si spostavano in tutta Europa per poter seguire le lezioni che ritenevano più opportune. Segno di libertà. E proprio a causa della loro autonomia intellettuale, quei clerici – che poi diventeranno i goliardi – piovvero le ire degli ambienti ecclesiastici. Secondo Jacques Le Goff, il fatto che quei individui «fossero sfuggiti alle strutture stabilite erano un primo scandalo per gli spiriti tradizionalisti. L’Alto Medioevo s’era sforzato di legare ogni uomo al suo posto, al suo lavoro, al suo ordine, alla sua condizione. I goliardi – spiega Le Goff – sono degli evasi, se ne vanno così all’avventura, avventura intellettuale, seguendo il maestro che li ha entusiasmati, accorrendo verso quello di cui si parla, spigolando di città in città l’insegnamento che viene impartito in ciascuna di esse...»
L’analisi del fenomeno festival deve, allora, andare oltre il turismo culturale. Certo le kermesse sono un volano potente e muovono un indotto non di poco conto, producendo anche una quota di posti di lavoro a tempo indeterminato: i visitatori frequentano ristoranti e alberghi, fanno shopping, vanno al cinema, ma anche dal parrucchiere, al museo, sul bus. Ma c’è di più. Molto di più. Lo ha spiegato il filosofo Remo Bodei, direttore scientifico del Festivalfilosofia di Modena (quest’anno dedicato alla fantasia): «C’è un pubblico affamato di cultura letteraria, filosofica, scientifica non trasmessa in pillole. Il che dimostra da una parte che il fast food intellettuale ha saturato il cervello, dall’altra che le chiese intese in senso religioso, politico, ideologico non offrono più certezze granitiche sul senso della vita e del mondo». La cultura alla riscoperta della vita, dell’uomo. Ancora Bodei: «La voglia di stare insieme, la festa, l’incontro con gli autori, che può essere anche una sorta di feticismo, è comunque un modo per far circolare le idee. Platone diceva che i maestri emanano delle scintille in modo che ognuno possa poi illuminarsi di luce propria, questi incontri sono una specie di semina».
C’è, insomma, la richiesta di un rapporto diretto con le persone, non mediatico: «Non più la rappresentazione televisiva – ha spiegato Daniele del Giudice – dove vedi e ascolti tutto senza toccare ma l’esigenza di una relazione vis à vis con chi ti racconta la propria esperienza culturale».
Ancora nessuno l’ha detto chiaramente, ma l’effetto profondo del successo dei festival culturali alla fine sarà proprio un colpo di grazia a quella cultura razionalista, codificata, figlia della rivoluzione Gutemberg. Da qui il collegamento stretto, quasi di causa effetto, tra lo sviluppo della rete e un nuovo modo di fruire la cultura: E’ moribonda quella cultura statica, accademica, strutturata, perfettamente descritta da Antonio Gramsci: «Una nuova tradizione comincia coll’Umanesimo, che introduce il “compito scritto” nelle scuole e nell’insegnamento: ma si può dire che già nel Medio Evo, con la scolastica, si critichi implicitamente la tradizione della pedagogia fondata sull’oratoria e si cerchi di dare alla facoltà mnemonica uno scheletro più saldo e permanente. Se si riflette, si può osservare che l’importanza data dalla scolastica allo studio della logica formale è di fatto una reazione contro la “faciloneria” dimostrativa dei vecchi metodi di cultura. Gli errori di logica formale sono specialmente comuni nell’argomentazione parlata». Ecco, il grande successo dei festival può benissimo essere letto come la controffensiva contro una cultura ideologica, scolastica e dogmatica. Un recente sondaggio sul Corriere della Sera chiedeva ai lettori: «I festival letterari aiutano la diffusione della cultura?». Sorvolando sui risultati, forse bisognerebbe cambiare domanda: «I festival letterari rivoluzionano la cultura italiana?». La risposta non può che essere affermativa.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".

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