Dal Secolo d'Italia di giovedì 2 ottobre 2008
Dice: be’ adesso bisogna buttarla in storiografia. Ma viene subito da rispondere: stando ai più rigorosi canoni storicistici, comunque, la storia è sempre storia del pensiero. E quindi filosofia, per cui – anche – politica. Del resto ce lo hanno insegnato Vico e Gramsci, Croce e Gentile: l’interpretazione dei fenomeni storici corrisponde sempre a un prendere posizione all’interno di quelle coordinate generali che definiscono un senso all’agire politico. Ce lo conferma Antonio Pennacchi con questo suo ultimo libro, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce (presentazione di Lucio Caracciolo, Laterza, pp. 342, euro 18,00). «Un vero e proprio viaggio – lo definisce l’autore – in cui uno parte e chissà che s’aspetta; poi arriva, vede, gira e si rende conto che le cose stanno in un’altra maniera». Intanto, ad esempio, si scopre che le famose città di fondazione che si pensava fossero solo dodici sono state, in realtà, ben 147. E in tutta Italia, dalla provincia di Aosta a quella di Palermo, dalla provincia di Bolzano a quella di Enna. Pennacchi le ha visitato tutte, una per una, e le ha cercate, fotografate, vistate, respirate, studiate insieme a sua moglie Ivana Busatto, «fotografo e vero ufficiale navigatore». E il viaggio gli ha consentito anche un primo vero e proprio inventario delle città nuove italiane a cavallo degli anni Trenta. E tutti quei nomi, da Littoria a Segezia, da Torviscosa a Borgo Giardinetto, da Pomezia a Fertilia, sino a Colleferro e Cervinia. «La classificazione – precisa – è ancora provvisoria, poiché un catalogo completo e ragionato di tutte le “città del Duce” sarà possibile solo dopo l’epletamento delle ricerche tuttora in corso». Sicché il viaggio continua anche se, per intanto, ha già cambiato la prospettiva. E non solo quantitativamente. Perché – ed è quello che più conta – la storia di queste città “nuove”, assicura Pennacchi, consente una interpretazione “nuova” della stessa esperienza storica fascista.
Scusandoci per la lunga citazione, lasciamo parlare direttamente l’autore: «Ora è certo che la Repubblica italiana, con la sua democrazia e la sua Costituzione democratica, nasca dalla Resistenza; ma è altrettanto certo che tutti quelli che l’hanno costruita (o almeno la stragrandissima parte) fino al 25 luglio del 1943 fossero stati in un modo o nell’altro tutti quanti fascisti. Ergo la Resistenza, da fenomeno storico che in alcune zone e regioni ha avuto anche veri e propri caratteri di “epopea” e di “guerra di popolo”, ma che sul piano complessivo, militante e militare, non può essere oggettivamente definita fenomeno dai caratteri unanimistici, è divenuta “mito” e “mitologia lustrale”, con il preciso ed oggettivo scopo di lavare e mondare ogni colpa di chi era stato fascista fino al 25 luglio e per tutti i vent’anni precedenti. E scaricarla in toto, questa colpa, su quelli che lo erano rimasti anche nel biennio 1943-45: “Sono solamente loro i fascisti: noi stiamo in pace, amen”».
All’interno di questa considerazione generale emerge, poi, un’approccio tutto di natura strutturale – nel senso della differenza storicistico- marxiana tra struttura della società e sovrastruttura ideologica – che consente a Pennacchi di sostenere che tra il 1931 e il 1935 si realizzò in Italia «una profonda e radicale trasformazione dei rapporti di proprietà e di produzione in ambito agricolo, tale da modificare qualitativamente e quantitativamente l’assetto stesso delle classi sociali e, di converso, l’analisi e la struttura di classe del Paese».
Ed è su questo fattore strutturale – una massa di oltre due milioni di ettari di terra che cambia padrone, passando dalla grande e media proprietà terriera a formare una nuova piccola proprietà – che l’autore di Fascio e martello fonda la sua interpretazione del fascismo: «Per la prima volta dai tempi di Giulio Cesare e dei Longobardi, due milioni e 200mila ettari di terreno passano a formare una nuova piccola proprietà contadina, una nuova classe sociale che prima non c’era mai stata».
La questione starebbe tutta nella corretta individuazione, da parte di Pennacchi, della natura di classe del fascismo: «Continuare per esempio a sostenere – precisa con un ragionamento calzante – che esso sia semplicemente stato una sorta di “dittatura della piccola borghesia” e che abbia conquistato il potere come “espressione” di questa classe e degli agrari, significa operare un bypass storiografico che non tiene conto del carattere preminentemente contadino del cosiddetto “combattentismo”, che è esso sì la chiave di volta del successo fascista, della sua parola d’ordine della “terra ai contadini” e delle adesioni di massa che gli pervennero soprattutto dal Sud ma senza trascurare il consistente apporto dei mezzadri del Centro-Nord».
Per spiegare tutto questo Pennacchi distingue tra “bonifica integrale” e “ruralizzazione”, concetti sui quali sinora la storiografia aveva parecchio equivocato. Ma tra le due visioni ci fu in realtà contrasto e dialettica politica. Da una parte i tecnocrati di formazione nittiana – i Serpieri, i Beneduce, gli Omodeo – che puntavano a modernizzare e bonificare il Mezzogiorno attraverso la sua capitalistizzazione: espropriare non per dare la terra ai contadini, ma per levarla ai proprietari inefficienti del Sud e darla alle società capitalistiche del Nord, alla Banca Commerciale; dall’altra quelli dell’Opera nazionale combattenti – guidati da Cencelli – tesi a mantenere le promesse fatte prima della Grande Guerra, ovvero “dare la terra ai contadini”. Naturale anche il contrasto e lo scontro politico tra le due componenti. Ma c’è il ruolo essenziale svolto da Mussolini, che dà pieno mandato a Cencelli, il quale «ci impiega un niente a mettersi in urto con tutti, specie con Prampolini, quelli del Consorzio e i loro sponsor a Roma, Serpieri e Acerbo, senza dimenticare i Caetani e i vecchi proprietari». L’assetto scelto per la bonifica pontina non a caso sarà a “case sparse”: a ogni colono il podere con la casa, per radicarlo al suo terreno, alla “sua” terra. E la logica non cambierà – aggiunge Pennacchi – neanche quando al posto di Cencelli arriva il nuovo, più duttile e navigato presidente dell’Opera nazionale combattenti Araldo di Crollalanza: «Avanti verso la terra ai contadini». Stessa logica nel ’38 in Libia – dove pure gli italiani ci stavano dal 1913 – quando con Italo Balbo inizia la costruzione di nuovi villaggi, «colonizzazione e appoderamento Onc con il trasferimento nella quarta sponda di 30mila rurali dall’Italia».
Ecco, sta tutta dentro questo quadro quella che il nostro definisce «la più profonda riforma di struttura mai introdotta in Italia, l’operazione oggettivamente più rivoluzionaria effettuata in Italia dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente». Una rivoluzione sociale e strutturale che ci spiega anche il ruolo e il senso dell’urbanizzazione. Quando le città di fondazione sono state edificate, si legge nel libro, quelle terre erano abbandonate da secoli. Erano almeno sette od ottocento anni che la gente s’era ritirata tutta sopra i monti, prima per la difesa dalle invasioni, poi per i latifondi e la malaria.
Per i geografi la pianura italiana era diventata un deserto. E negli anni Trenta la pianura viene ripopolata. «La città – annota Pennacchi – non è semplicemente un posto dove abita della gente e dove dorme. Come le stie per i polli o i campi di concentramento. La città è il posto, l’incrocio, la cerniera, dove si svolgono i traffici, gli scambi e le comunicazioni d’ogni tipo: economico, sociale, culturale. Ed è per questo che una città non è un museo, se non è già morta. Se è viva si trasforma». Così come, appunto, si sono trasformate le città del Duce, le – al momento – 147 città fondate dal regime fascista durante la grande stagione delle bonifiche: prima nell’Agro Pontino poi un po’ dappertutto, dalle Puglie alla Sardegna, dalla Libia all’Istria, al vecchio latifondo siciliano. Una vera epopea edificatrice, almeno a sentire Antonio Pennacchi che – da narratore di razza qual è – le racconta e le fa vivere. Alcune sono oggi grandi, affollate, trasformate; altre desolate e spettrali come città fantasma di un Novecento ormai lontano.
Dice: vabbè, ma tu vuoi rivedere il giudizio, alla fine? «Io – conclude Pennacchi – non voglio rivedere niente, io voglio solo che per poter ragionare di storia lo si debba fare in maniera corretta, senza raccontarsi le fesserie. Anzi, a dire il vero, io il mio giudizio l’ho rivisto. E più di qualche volta. Man mano che facevo il viaggio. Andavo in una città, scavavo e ne trovavo altre dieci. Come fai a non rivedere i giudizi?».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
2 commenti:
Per fortuna c'è ancora chi ha il coraggio di raccontare "l' altra storia" senza cadere nel nostalgismo, in un area politica in cui chi più chi meno è un cacasotto.
Non solo è raro il coraggio (oggi più che mai... chissà perchè???) di raccontare l' "altra storia" , ma addirittura a meno di un mese dal diktat finiano, per trovare
un clima 'felice' bisogna spostarsi sul fronte avverso...
www.spigoli.info/archives/203
Posta un commento