Dal Secolo d'Italia di venerdì 10 ottobre 2008
Dopo il grande e inatteso successo del primo libro di Bruce Chatwin, In Patagonia (del 1977, pubblicato in Italia nel 1982 da Adelphi), Rebecca West disse all’autore, deliziandolo, che le poche fotografie in esso contenute erano talmente da rendere quasi superfluo il testo fino all’ultima parola. Del resto da giovanissimo, quando lavorava da Sotheby’s come direttore della sezione Antichità, Bruce si era subito guadagnato la fama di possedere uno straordinario e infallibile “occhio”. E nei suoi viaggi, con grande discrezione, ha scattato tante e tante fotografie. Ed ecco che adesso arriva anche nelle librerie italiane L’occhio assoluto. Fotografie e taccuini (Adelphi, pp. 160 in grande formato, euro 55), una straordinaria raccolta di sue fotografie commentate introdotta da Francis Wyndham. Ne emerge la personalità di un vero dandy, «che visse – si legge nell’introduzione – con maggiore intensità di altri, il lato estetico della vita». Un esteta, viene definito nel libro, «dal gusto sorprendentemente cattolico».
Oltre alle foto, e ai suoi straordinari romanzi e testi di viaggio, Chatwin ha lasciato cinquanta taccuini di formato tascabile, il classico moleskin nero. E in questi blocchetti, quindici centimetri per dieci, ci sono tutte le sue sensazioni, i luoghi, le persone, i libri, gli edifici, i paesaggi, i popoli che restarono impressi nel suo immaginario. E in questo L’occhio assoluto il curatore ne ha scelti tanti e senza connessione diretta con le fotografie che lo accompagnano, i quali comunicano semmai «il carattere generale del suo appetito visivo, il genere di colori, di forme e di immagini che attiravano l’attenzione del suo sguardo sempre curioso». Bella e intrigante la descrizione dell’arrivo a Kandahar, in Afghanistan, nel lontano 1969: «Ci siamo diretti all’Hotel. Tre letti in una stanza soffocante. la Coca-Cola era un imbroglio, sapore di lozione per capelli. Questo posto è davvero la fine del dannato mondo e io l’ho sempre saputo...».
Tutto in linea con il titolo del suo libro più famoso che è diventato un vero e proprio slogan: Che ci faccio qui? E questo libro-strenna è davvero un’occasione unica per sintonizzarsi di nuovo con lo scrittore che è stato il mito letterario degli anni Ottanta e Novanta, incarnando al meglio l’irrequietezza esistenzial-politica delle generazioni postideologiche. In Italia, come dicevamo, il fenomeno è nato grazie all’Adelphi di Roberto Calasso, che di Bruce fu amico prima ancora che editore. E proprio da allora anche da noi ha dilagato la moda del moleskine, il taccuino nero sui quali lui scriveva i suoi appunti. Quel taccuino, come lo zainetto “alla Chatwin” che da subito soppiantò le precedenti borse di Tolfa o in tela militare, è quindi diventato il simbolo pop di un certo modo di intendere la cultura del viaggio.
Chatwin acquistava i suoi moleskine in una cartoleria parigina in Rue de l’Ancienne Comédie e ne faceva una cospicua scorta prima di partire per ognuno dei suoi viaggi. Del resto quello stesso modello di taccuino era già stato usato dagli artisti e intellettuali europei che avevano fatto la cultura della prima parte del Novecento, da Matisse alle avanguardie storiche, da Céline a Hemingway. Chatwin aveva un suo rituale messo: prima di usare i suoi moleskine, ne numerava le pagine, scriveva all’interno il suo nome e almeno due indirizzi in diversi posti del mondo, con la promessa di una ricompensa per chi lo restituisse in caso di smarrimento. «Perdere il passaporto era l’ultima delle preoccupazioni, perdere un taccuino era una catastrofe» scrisse.
In Italia, come scoprirono in molti, i suoi libri, la moda dei taccuini e anche gli zainetti – come quello che Bruce ha in spalle in una celebre foto – lasceranno il segno. Nel 1997 il Corriere della Sera arriverà a vedere in Chatwin «la nuova bandiera antiborghese per i ragazzi della destra». Niente di casuale, visto che già nel ’94 Alessandro Campi aveva fatto uscire per le edizioni Settimo Sigillo, con introduzione di Stenio Solinas, la prima biografia apparsa in italiano sullo scrittore: L’alternativa nomade, vita e leggenda di Bruce Chatwin di Nicholas Murray. Campi lo definiva «un vero anarchico di destra, un individualista antiborghese, un aristocratico affascinato dalle personalità fuori del comune, un eterno nomade attratto dal viaggio e dal rischio». Una definizione non sorprendete per un autore e viaggiatore formatosi sulle pagine di Jünger e Malraux, Paul Morand e Drieu La Rochelle, Borges e Malaparte. E nella visione di Chatwin – nato a Sheffield nello Yorkshire nel 1940 e scomparso prematuramente nel 1989 – il viaggio è tutt’altro che fuga e disimpegno. «Il suo viaggiare – ha scritto Campi – non è la risposta di una generica inquietudine generazionale o a qualche fallimento esistenziale, bensì un bisogno profondo dell’uomo. Chatwin più che un viaggiatore fu un pellegrino».
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