Dal Secolo d'Italia di venerdì 10 ottobre 2008
Quando, nel Duemila, la rivista francese La quinzaine littéraire chiese a sessanta scrittori cosa avrebbero salvato del Novecento, lo scrittore francese Jean-Marie Gustave Le Clézio rispose senza troppi tentennamenti che avrebbe messo in salvo sicuramente «il canto degli uccelli e lo spirito della rivoluzione». Avendo, però, la premura di precisare subito dopo: «Non la lotta di classe o la dittatura del proletariato, ma la volontà di rivolta contro la tirannia e il profitto». Una risposta che, nella sua schiettezza, riesce oggi a inquadrare alla perfezione la cifra culturale e ideale del nuovo premio Nobel per la lettera tura, ufficializzato ieri dai giurati di Stoccolma: Jean-Marie Gustave Le Clézio, 68 anni, viaggiatore dello spirito, libertario per vocazione, individualista per necessità estetica prima che ideologica. Di madre francese e padre mauritano, Le Clèzio ha vissuto e vive in giro per il mondo, fra Albuquerque in New Mexico e le Mauritius, l’Inghilterra e la Costa Azzurra, alla continua ricerca di un’identità plurima, non riducibile ad alcun confine nazionale. Lo stesso Le Clézio ha voluto spiegare la sua cifra letteraria: «Scrivere è AGIRE», ha più volte ribadito sottolineando la necessità che quel secondo verbo dovesse necessariamente andare tutto in lettere maiuscole. Cosa sia l’azione per Le Clézio lo ha spiegato alla perfezione l’inviato e fine scrittore di viaggio Stenio Solinas: «Innanzitutto è uscire dalla rotta ben oleata della modernità, con il suo pensiero unico, con l’idea che il modello di sviluppo occidentale sia il solo metro di giudizio per tutte le culture, e che il progresso, tecnico, scientifico, sociale sia una divinità a sé stante cui vada sacrificata ogni idea di diversità, di moderazione, di equilibrio».
Contro ogni totalitarismo ideologico, quindi. E soprattutto contro ogni possibilità di pensiero unico. «Le Clézio – è stato il commento a caldo del presidente francese Nicolas Sarkozy – è un cittadino del mondo, figlio di tutti i continenti e di tutte le culture». E questo lo sa bene anche lo scrittore e poeta Giuseppe Conte (sostanzialmente un compatriota, visto che il neo premio Nobel è di Nizza e il nostro è di Sanremo): «Dal punto di vista artistico – spiega ancora Conte – lo considero un vero e proprio fratello maggiore. Le Clézio è uno scrittore fuori dal mondo ma sempre nello spirito nel tempo: è passato dallo sperimentalismo europeo per arrivare alle narrazioni mitiche, drammatiche ed epiche, dimostrando che la tradizione europea, quando vuole, può aprirsi al mondo, ad altre tradizioni, ad altri linguaggi».
Quella di Le Clézio, infatti, è una concezione sferica, non lineare, dell’esistenza. E quindi non monolitica, mai ideologica: «La vita è tonda», non c’è un inizio e una fine, una progressione continua... Si parte e si ritorna, siamo impastati del nostro ieri che sarà anche il nostro domani, e capire ciò che si è stati ci permette di affrontare con cognizione di causa ciò che siamo e che saremo. Viaggiare – e il premio nobel è indubbiamente (anche) uno scrittore di viaggio – non è una fuga da qualcosa: «Non sono un disertore. Al contrario è sentire che qualcosa ti attrae». Una concezione osmotica della cultura, aperta, inclusiva, avventurosa. Fatta di addizioni e mai di sottrazioni. Una fisione alchemica, in cui le commistioni non sono mai negative ma sempre frutto di nuove scoperte, nuove ricchezze. Per questo l’attrazione fatale per il mito, per le civiltà antiche, per un mondo «che non era fondato sulla ragione, animato da questa danza, questo slancio verso la magia, il soprannaturale; basato su una percezione differente...».
Nei suoi romanzi come nei suoi saggi, ciò che affascina Le Clézio sono i grandi spazi, le distese, il legame con la natura e con la storia, l’idea di un’identità, di una tradizione comuni pur nelle diversità delle esperienze umane. «È un antimoderno – spiega ancora Solinas – non perché sogna impossibili ritorni al passato, ma perché non condivide l’ansia da possesso, la frenesia dei ritmi e dei rapporti, lo sradicamento e l’esistenza da formicaio che il mondo moderno porta con sé». Come nel romanzo Gens des nuages, il viaggio fantastico ma reale che in compagnia di Jemia, la moglie marocchina della stirpe degli Aroussiyne, compie sulle tracce del passato di lei: «Volevamo sentir risuonare i nomi che sua madre le aveva insegnato, come un’antica leggenda, e che ora prendevano un senso diverso, un senso vivo». Nel 1980, alla prima edizione, l’Acadèmie franáaise gli ha conferito il Premio Paul Morand, Deserto. Tra gli altri suoi suoi titoli Il continente invisibile, Stella errante, L’africano, Diego e Frida. I critici lo hanno accostano a Emile Zola e James Joyce, a Robert Louis Stevenson e a Lautrèamont, ma lui preferisce citare fra i suoi modelli Rimbaud e alcuni contemporanei americani, da N. Scott Momaday ad Henry Roth. «La letteratura è un genere polimorfo – ha detto Le Clèzio – è flessibile per sua natura, e rappresenta un’apertura verso altre culture, altri linguaggi. Per questo può funzionare da antidoto alla cultura occidentale, che è diventata monolitica, che mette l’accento solo sulla tecnica e reprime i sentimenti, considerandoli manifestazioni espressive di serie B. Nei miei romanzi invece i sentimenti, soprattutto quelli femminili, sono la storia, e se chi li esprime ha radici europee, considero un mio privilegio quello di permetterle di manifestarli a dispetto delle censure impostele dalla nostra cultura».
Viaggiatore incantato di tutti i possibili incanti del mondo, Le Clézio conferma nei suoi libri che «scrivere è AGIRE» devono andare per forza di pari passo per far nascere una cultura pluralista e non dogmatica, rispettosa delle diversità e dove l’uomo ritrova la sua libertà di essere e di creare.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
1 commento:
Io non ho nulla contro questo signore, magari scrive anche dei libri carini... però le scelte dell'Accademia mi lasciano spesso perplesso. Dubito che tra 20 o 50 anni si parlerà ancora di lui, insomma. Per un Canetti o un Coetzee ecco un esubero di Buck, Fo, Clézio e quell'austriaca pornografa che manco ricordo come si scrive...
Roth intanto aspetta. E nemmeno un McEwan, un Rushdie (poi gli islamici s'incazzano), un DeLillo, un McCarthy, una Kristof o un Handke (vabbé, lui è punito per avere delle opinioni che non piacciono ai più, come Céline all'epoca - che sia o o meno un grande scrittore non importa) o magari un Ghosh o una Munro...
Lo dessero almeno a Dylan, a questo punto. Sarebbe sempre meglio di questo signor nessuno.
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