domenica 23 novembre 2008

Jazz, il '900 in sincope (di Pierluigi Biondi)

Articolo di Pierluigi Biondi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 23 novembre 2008
Prima ancora che l’aviatore statunitense Charles Lindbergh, con la sua trasvolata atlantica, consegnasse alla Francia (e a un’estasiata Europa) lo “spirito” di St. Louis dell’America profonda e sognatrice – che aveva scoperto la vitalità scoppiettante del jazz – già si agitava tra Parigi e l’Italia una personalità eclettica e irruenta, Filippo Tommaso Marinetti, che portava quel ritmo nel sangue e lo trasferiva nel linguaggio dirompente e disarticolato con il quale annunciava, all’Europa del ‘900, la nascita della prima avanguardia letteraria e artistica del secolo. La musica afro-americana si era impossessata dell’anima del caposcuola del futurismo sin dalla tenera età, come sottolineava un ritratto che nel 1926 su Le grandi novelle – rivista fondata da Pitigrilli – ne faceva un estensore celato sotto pseudonimo: «Marinetti è nato ad Alessandria d’Egitto: lo affidarono ad una balia nera che gli pompò nel sangue nera frenesia da Jazz-Band ed una resistenza da boxeur. Il latte succhiato dalla caffettiera di quelle mammelle nere fu eccitante e decisivo: anche oggi, fra tutte le definizioni che gli hanno incollate, preferisce infatti “Caffeina d’Europa”». Il legame tra jazz e futurismo, comunque, non si esaurisce con il connotato genetico di Marinetti ma va ben oltre e attraversa tutto il movimento: ne I creatori di estetiche, ad esempio, il triestino Giorgio Carmelich scriveva che «fra i creatori di estetiche moderne possiamo contare i pittori Prampolini, Léger, Paladini, Picasso, le case operaie e i grattacieli americani, lo scultore Archipenko, le automobili, le macchine, Ridolini, i costruttivisti russo-scandinavi, il jazz-band». Di là dell’oceano questa simbiosi era stata sancita sin dal 1913 sulle colonne del San Francisco Chronicle, con un articolo dal titolo emblematico: In lode al Jazz, un mondo futurista si è appena aggiunto al linguaggio.
In casa nostra, la passione jazzistica dei futuristi esploderà soprattutto tra il 1923 e il 1934. Sono gli anni in cui escono, tra l’altro, poesie come Sincopatie e Newyorkcocktail di Farfa e il poemetto Aria di jazz di Vladimiro Miletti. Sul numero 10 del dicembre 1924 de IL FUTURISMO Rivista Sintetica Illustrata, il pugliese Franco Casavola delineava i canoni della musica futurista: «Il jazz-band rappresenta, oggi, l’attuazione pratica, sebbene incompleta, dei nostri principî: la individualità del canto dei suoi strumenti, che riuniscono per la prima volta elementi sonori sonori di differente carattere; la persistenza dei suoi ritmi, decisi e necessari, costituiscono la base della musica futurista. Diamo a ciascuna voce, nel canto, una individualità libera, improvvisatrice: dallo insieme non prevedibile, nei rapporti improvvisi ed inevitabili, avrà vita il nuovo canto, ricco e profondo come l'anima della folla». Tra i cenacoli in cui si sperimentavano le nuove forme musicali va annoverato quello che si ritrovava a casa di Fortunato Depero. Il quale, come ha ricordato Giorgio Rimondi nel suo imperdibile La scrittura sincopata, cercava il modo per «travasare l’oro dalle tasche dei borghesi alle sue»: l’idea è quella di realizzare una festa da ballo dove «pagando un pedaggio assai forte, l’intera borghesia del Circolo Italia sarebbe stata sottoposta all’elettroshock futurista». La sorpresa arriva quando l’orchestra viene sostituita da giovanotti che preparano la sorpresa: entra in scena la jazz-band, «con grande ampliamento della batteria e diminuzione di archi» che suona «precisa e disinvolta con ritmo di impagabile allegria, dando alla festa l’ultimo tocco finale». Depero, benché nativo della Val di Non, aveva eletto il suo domicilio artistico a Rovereto: la città che, oggi, ospita – presso i locali del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea – la mostra Il Secolo del Jazz. Arte, cinema, musica e fotografia da Picasso a Basquiat, aperta fino al 15 febbraio 2009. Si tratta di un’esposizione complessa e affascinante, che vede la dinamica collaborazione di prestigiose istituzioni internazionali. Il progetto ha coinvolto attivamente, oltre al Mart, il Musée du Quai Branly di Parigi e il Centre de Cultura Contemporània di Barcellona. Come si legge nella nota di presentazione dell’evento, la mostra «è una tappa importante per il consolidarsi di un approccio interdisciplinare allo studio dei fenomeni artistici del secolo scorso».
L’intento è quello di «aprire un approfondito dibattito critico su uno degli intrecci epocali più curiosi e interessanti del XX secolo: il jazz non fu infatti solo uno straordinario genere musicale, che rivoluzionò i canoni tradizionali della musica, ma rappresentò anche un nuovo modo d’essere della società del ‘900 e un fenomeno che influenzò profondamente la storia artistica del secolo scorso». L’esposizione è articolata cronologicamente intorno a una timeline lungo la quale si snodano, anno dopo anno, i principali momenti della storia del jazz. Spartiti, affiches, dischi, riviste e giornali, libri, fotografie e altri memorabilia evocano i numerosi episodi del periodo storico considerato. Dalle partiture di The Banjo di Gottschalk a Nobody di Bert Williams (1905) – successi che precedono l’avvento del misterioso termine “jazz”, che qualcuno ha voluto attribuire ad un’espressione dialettale congolese che allude all’eccitazione erotica – ai manifesti per il Gran Bal Dada del 1920, fino a quelli di Joel Shapiro per il Lincoln Center (1996). Un filo rosso scandito ovviamente da una vastissima documentazione sonora, passando per dischi, concerti e registrazioni fondamentali, come quella di Strange Fruit da parte di Billie Holiday, nel 1939. Lungo tutto il percorso espositivo si aprono anche piccole mostre autonome che si propongono di mettere in evidenza i rapporti tra il jazz e le altre arti: pittura, fumetto, cinema, fotografia e grafica. Dall’Harlem Renaissance statunitense fino alla pop-art di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, dalla Revue Nègre della intrigante danzatrice di charleston (la danse folle) Joséphine Baker alle copertine di Andy Warhol, dai Soundies – cortometraggi musicali considerati gli antenati dei videoclip, girati per la maggior parte intorno agli anni Trenta e Quaranta – al fumetto L’uomo di Harlem di Guido Crepax, la mostra è un caleidoscopio luccicante e colorato delle combinazioni in cui è stato declinato il jazz anche fuori dalle righe degli spartiti. Nelle parole dell’appassionato curatore del progetto, Daniel Soutif, si può leggere questa straordinaria versatilità del jazz, in grado tanto di adattarsi quanto di contaminare: «Una musica con una storia sua che si può narrare come tutte le storie delle arti: con eroi, piccoli maestri, “maledetti”, glorie vere e false, innovatori e imitatori, geni e truffatori, movimenti vari, rotture, primitivi, classici, moderni, avanguardisti e così via. Una storia raccontata in tanti libri e salvata in centinaia di migliaia di dischi, sparsi in tutti i continenti a un punto tale che il fenomeno si è rapidamente universalizzato. Una musica magnificamente gioiosa o triste, ballad e blues, corposa un giorno, evanescente l’altro, trionfale o delicata, tonitruante o soave secondo l’umore, ma sempre con questo particolare ritmico – sincope, swing, tensione-distesa… – e con quest’altra peculiarità che non esclude né il pensiero, né la preparazione: l’improvvisare dal minimo al tutto, ma comunque sempre là».
A maggior riprova di quanto il jazz sia stato parte integrante del secolo scorso e ne sia divenuto – in qualche modo – colonna sonora, c’è la circostanza che non sia stato sottratto, molto più di altri generi musicali, a giudizi politici sferzanti, come ha avuto modo di sottolineare Giorgio Ieranò nel suo articolo sul numero scorso di Panorama: «Anche se oggi si stenta a crederlo, ci sono stati tempi in cui il jazz non ha avuto vita facile. Per i nazisti era musica degenerata. Per i bolscevichi qualcosa di “disumano” che “annichiliva la dignità del singolo”, con la sua “meccanicità esasperata, ispirata al ritmo delle macchine” (parola di Anatolij Lunaciarskij, leninista della prima ora). Il filosofo Theodor Adorno lo condannava come l’ennesimo ingannevole feticcio prodotto dalla cultura di massa». Stalin, di contro, sosteneva che «chi fa del jazz oggi, venderà la patria domani». Emblematica, a tal proposito, la storia del jazzista ebreo Eddie Rosner che, riparato in Bielorussia dopo esser fuggito dalla Polonia invasa dalla Germania hitleriana, si ritrovò confinato in Siberia dal regime sovietico.
L’Italia fascista, da questo punto di vista, rappresentava un’anomalia. Nel 1934, su Regime Fascista, il giornale diretto dal duro di Cremona, il ras Roberto Farinacci, si riconosceva come il jazz fosse «una delle forme di superamento di romanticismo e di irruzione del primordiale nel mondo moderno. Preso nei suoi aspetti più salienti e puri, il jazz ha questa caratteristica: di essere una musica che non si rivolge più all’“anima” per farla divagare, commuovere o sognare ma passa direttamente a muovere il corpo, risolvendosi a mezzo dei sincopati, in puri impulsi all’azione. Ciò significa che il jazz porta essenzialmente la musica di là dall’ambito sentimentale e patetico che la caratterizzava nel periodo borghese». Il jazz, quindi, come risposta alla vita comoda. Ma il clou si raggiunge a Torino nel 1935, quando il grande Louis Armstrong si esibisce davanti a un pubblico in visibilio e a spellarsi le mani, in platea, anche molti gerarchi. Nonostante la campagna autarchica e l’alleanza con il Reich, il jazz continuò a circolare sulle frequenze delle radio italiane, comprese le repubblichine Radio Tevere e Radio Fante. Anche un “ragazzo di Salò” come Piero Vivarelli, volontario a sedici anni nella Decima Mas, ha confessato che «grazie all’amata musica jazz avevo capito, sin da piccolo, che il colore della pelle, la razza e via discorrendo cono cose che non contano. I grandi solisti da me prediletti, come Armstrong, Fats Waller o Duke Ellington, avevano la pelle nera… Anche ora che ero un soldato ne ero convinto». D’altra parte lo stesso Mussolini aveva un jazzista in casa, il figlio Romano, che in seguito diventerà uno dei migliori interpreti italiani della musica afro-americana. Con il dopoguerra, il jazz è tornato ad unire la politica: se a sinistra il trombettista jazz Paolo Fresu è stato il primo coordinatore regionale sardo del Pd e alla figura tragica del musicista Luca Flores Walter Veltroni ha dedicato il romanzo Il disco del mondo, a destra un’insospettabile Evola, in Cavalcare la tigre, proponeva il jazz come «superamento delle espressioni melodrammatiche e patetiche dell’anima ottocentesca» e lasciava come custode testamentario il giovane seguace Giampiero Rubei, che sarà uno dei protagonisti assoluti del jazz in Italia con il suo club Alexanderplatz.
L’esempio migliore della ritrovata concordia politica sul jazz, tuttavia, lo si è avuto il 9 febbraio 1999 a Bari: quel giorno si celebrava il funerale di Pinuccio Tatarella, il ministro dell’armonia, come veniva definito, colui che tesseva le alleanze e ricuciva i rapporti. Ad attendere il corteo funebre, sul sagrato della basilica, un’orchestrina composta da alcuni ragazzi di Ruvo. All’uscita del feretro nessuna marcia, né inni nostalgici, ma solo una motivetto jazz: When the saints go marchin’ in. Come aveva chiesto lui.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, collaboratore dell'ufficio stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, scrive per le pagine culturali del quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura.
E' coautore, con Roberto Alfatti Appetiti, de L'ABC di un Sessantotto postideologico (Charta Minuta n. 4/2008) e ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007).
Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).

2 commenti:

Anonimo ha detto...

questa è la cultura che piace a me...la cultura che viene dall'anima e non dalla forchetta...la genialità del futurismo fu quella di capire il mondo novecentesco che stava venendo ..il movimento, le macchine , zang zang, tumb tumb ..il carneplastico, i profumi...la destra post fascista non capi' queste cose e un genio come Romano Mussolini fu quasi emarginato..il suo jazz non era amato perchè la destra si rifugio' nella mediocrità di Lucio Battisti, che con le sue braccia tese diede lo spunto per dibattiti sterili, tutto si ridusse nella sterile nostalgia delel Braccia tese, senza la percezione di voler costruire un nuovo mondo...forse non c'era la possibilità , ma la nostalgia fa brutti scherzi...che dire , niente forse dovremmo organizzare un carneplastico delle nostre coscienze , trovare il samurai che è in noi , anche se poi siamo diventati tutti un po nichilisti, senza sapere cos'è il nichilismo..

Dico questo per organizzare le nostre coscienze al nuovo millennio

Federico Galassi

Anonimo ha detto...

questa è la cultura che piace a me...la cultura che viene dall'anima e non dalla forchetta...la genialità del futurismo fu quella di capire il mondo novecentesco che stava venendo ..il movimento, le macchine , zang zang, tumb tumb ..il carneplastico, i profumi...la destra post fascista non capi' queste cose e un genio come Romano Mussolini fu quasi emarginato..il suo jazz non era amato perchè la destra si rifugio' nella mediocrità di Lucio Battisti, che con le sue braccia tese diede lo spunto per dibattiti sterili, tutto si ridusse nella sterile nostalgia delel Braccia tese, senza la percezione di voler costruire un nuovo mondo...forse non c'era la possibilità , ma la nostalgia fa brutti scherzi...che dire , niente forse dovremmo organizzare un carneplastico delle nostre coscienze , trovare il samurai che è in noi , anche se poi siamo diventati tutti un po nichilisti, senza sapere cos'è il nichilismo..

Dico questo per organizzare le nostre coscienze al nuovo millennio

Federico Galassi