giovedì 29 gennaio 2009

Da oggi nelle librerie "African Inferno", il nuovo romanzo di Piersandro Pallavicini: «L'integrazione senza retorica»

Dal Secolo d'Italia di giovedì 29 gennaio 2009
Leggi “immigrati africani” e pensi a Lampedusa, ai famigerati centri di accoglienza che così accoglienti non sono. Pensi ai disperati arrivati a bordo di barconi improbabili e pronti a essere rispediti al mittente. Extracomunitari, una definizione generica quanto definitiva. Peggio: clandestini. Numeri, più che persone. Eppure c’è un’altra immigrazione, numericamente rilevante, che non fa notizia e che, sinora, non sembrava aver ispirato scrittori italiani: africani – e non solo africani – che nel nostro paese sono arrivati comodamente in aereo, con una laurea in tasca o ancora da prendere. Con un progetto di vita che non è solo fuga e sopravvivenza. Molti di loro sono ben inseriti e rivendicano legittimamente un ruolo nella nostra società. Del resto, un afroamericano, Barack Hussein Obama, è il 44esimo presidente degli Stati Uniti. E altri “immigrati” ricoprono incarichi di grande responsabilità. Basti pensare, per rimanere negli States, ad Arnold Schwarzenegger, austriaco naturalizzato statunitense e apprezzato governatore della California, o a Nicolas Sarkozy, di padre ebreo-ungherese e con un nonno greco di Salonicco, diventato presidente della Repubblica francese. In Italia non abbiamo casi altrettanto eclatanti, ma anche qui sono molti gli extracomunitari che cercano di farsi valere.
L'argomento viene ora affrontato da Piersandro Pallavicini – classe ’62, narratore ma anche ricercatore e docente di chimica all’università di Pavia – che, con il suo nuovo romanzo, African Inferno (I Narratori/Feltrinelli pp. 352, € 17,00), in uscita oggi nelle librerie, che colma al meglio questa lacuna e raccontato questa immigrazione invisibile. Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci. L’intenzione dell’autore – fatte proprie le lezioni di «supremo lucidissimo realismo di Michel Houellebecq» e «lo sguardo tagliente sulla società contemporanea di Breat Easton Ellis» – non è quella di offrire il volto presentabile dell’immigrazione dal Continente Nero. Né tantomeno di riproporre il dualismo tra i sin troppo scontati stereotipi dell’italiano razzista e dell’immigrato eroe positivo. Al contrario: nel libro non ci sono né buoni né cattivi. O meglio: ci sono buoni e cattivi, indipendentemente dal colore della pelle. Nessuna concessione alla retorica. I luoghi comuni, insieme con il buonismo esasperato (ed esasperante) del protagonista, cadono in frantumi di fronte a una quotidianità della “convivenza”, quella rappresentata dall’autore – che sa di cosa parla, “condividendo” amicizie, attività e progetti con africani – che non fa sconti ad alcuno.
«Se nel nostro immaginario – ci spiega Pallavicini – pensiamo all’africano come al buon selvaggio oppresso che deve pulirci la coscienza, è perchè ci trasciniamo dietro i tic ideologici della sinistra, che in questi anni non ha smesso di spararsi addosso in nome di un antioccidentalismo alimentato da quel senso di colpa che ci viene dal colonialismo e che ha fatto sì che noi stessi finissimo per scagliarci contro l’Europa e i valori che rappresenta». E Pallavicini lo sa che la sta facendo grossa. Anzi: che la sta rifacendo. Perchè già nel 2005 il suo bellissimo romanzo Atomico Dandy (Feltrinelli) procurò qualche mal di pancia a una sinistra spesso e volentieri priva di senso dell’humor e soprattutto poco disponibile a mettersi in discussione. Sì, perché la tragicomica parabola esistenziale e politica del professor Vittorio Nuvolari – il quarantenne ricercatore universitario senza scrupoli, protagonista di quello che Tullio Avoledo definì il più bel romanzo dell’anno – altro non è che un ritratto al vetriolo di una snobissima sinistra in Jaguar. E oggi, in questo nuovo romanzo, è ancora un quarantenne di sinistra, impiegato «semicomunale» a Pavia, Sandro Farina, a trovarsi suo malgrado protagonista di una vicenda - esilarante nella sua drammaticità – che lo porterà a dover rivedere alcuni suoi convincimenti “ideologici”. Sandro, infatti, ha sempre subito il fascino del mondo africano e tra le sue «medaglie arruginite» ostenta un’esperienza di lavoro in un gruppo di solidarietà Italia-Senegal e il padrino africano di sua figlia. Quando il suo matrimonio finisce rovinosamente – con la colpevole complicità dell’amico Joyce Lukwazi, un giovane e talentuoso artista congolese, laureato ma incorreggibilmente casinista – e un disastroso effetto valanga finisce per travolgere ogni aspetto della sua vita personale e sociale, non esita a trasferirsi in un appartamento in affitto con due africani. Inizia questa “avventura” con un entusiasmo a tratti imbarazzante. Si adatta senza colpo ferire alla camera più piccola e peggio arredata, si intesta i contratti con le bollette addebitate direttamente sul suo conto corrente e, come se non bastasse, offre a sue spese un abbonamento Sky e una connessione Fastweb. Pronto – al minimo conflitto – a dare ragione ai suoi coinquilini, anche quando gli riempiono la casa di ospiti non annunciati o manifestano la loro intolleranza verso i bianchi, «convinto all’istante con loro che i bianchi siano di merda forse proprio tutti, forse anche tu». È sin troppo servizievole con quei suoi amici – immediatamente promossi al rango di zii della figlioletta treenne Chiara – se si tratta di preparare il caffè, cucinare o anche pagare un conto al bar o al ristorante. E non esita a mettersi nei guai, per loro. «I miei nuovi fratelli neri di cui prendermi cura. Gli amici per cui darei il sangue, il conto in banca, il lavoro e mi taglierei una mano». Una disponibilità non sempre ripagata con la stessa moneta. Tanto è tollerante lui, tanto sono intransigenti gli altri. Ad esempio quando lo criticano, ingiustamente, sull’educazione da dare alla figlia. «Voi in Europa rovinate i figli viziandoli», tuona il coinquilino Richard, trentunenne del Camerum, laureato in informatica alla statale di Milano. E Sandro abbozza.
«È difficile, se non impossibile, discutere di queste cose obiettivamente con un africano – ci dice Pallavicini, che di amici neri ne ha molti, dei quali uno, come per il protagonista, è davvero padrino di sua figlia (nella foto a sinistra, ndr) – perchè scatta quel meccanismo per cui se contraddici il nero sei razzista e invece dovremmo difendere con orgoglio le conquiste fondanti dell’occidente, valori essenziali, per loro tutt’altro che importanti, come la parità tra uomo e donna, la non discriminazione sessuale, la democrazia e la paternità. I figli, per gli emigrati africani, lo dicono le statistiche, sono un optional, figli fatti e lasciati senza prendersene cura. E invece tendiamo timidamente a tirarci indietro, abbiamo paura di passare per irrispettosi».
Non si fa remore, invece, Richard, di calpestare i sentimenti di Sandro. Succede in occasione del barbaro assassinio di Fabrizio Quattrocchi, uno dei quattro italiani sequestrati a Falluja nell’aprile 2004. L’africano scoppia a ridere e a urlare contro il televisore che manda in onda il filmato arrivato ad Al-Jazeera. «Ti hanno pagato per questo! Mercenario! Sono cazzi tuoi! Ti sta bene! Li hai voluti i soldi? Eroe un cazzo! Vaffanculo! Italiano di merda!».
«Con quelle risate – commenta amaro Sandro – io avevo visto alzarsi le saracinesche che nascondevano gli immensi e agghiaccianti sotterranei di un mondo sconosciuto e oscuro». Una doccia fredda per chi si sentiva «una specie di Che Guevara nel contrattare gli affitti con i padroni di casa più taccagni o quando magari spaccavo di notte le finestre a sassate a quelli che quando vedevano un nero dicevano che, purtroppo, l’appartamento era stato appena affittato a uno studente arrivato prima».
Sì, perché i pregiudizi non mancano neanche dall’altra parte, intendiamoci. Sandro, da cittadino agiato e coccolato, si trova a essere straniero in casa sua, messo all’indice dai superiori per le sue frequentazioni. Sperimenta sulla propria pelle il razzismo del padrone di casa – il signor Pacifico Omodeo, che mal tollera i «negher del kaiser» – i pregiudizi che fanno di ogni africano un probabile terrorista (e dei suoi amici bianchi dei potenziali fiancheggiatori) e le difficoltà nel vedersi riconosciuti anche i diritti più elementari. Come quelli che calpestano con arroganza Bollini «assessorino in forza alla Margheritina» e il suo assistente, il fascistissimo Stefano Mantegazza, stretto in un trench di pelle nera come Klaus Kinski nei suoi nazi-porno, o anche il suocero, l’avvocato Pierangelo Migliorati, «il signore del male del foro pavese», intento a fare a pezzi un ex genero troppo amico dei neri.
L’integrazione - che è cosa diversa e più ambiziosa della tolleranza reciproca - è pertanto da ritenersi un mero miraggio? No, e il romanzo si congeda con un finale tutto sommato positivo, che lascia ben sperare sulla possibilità di affrontarla per quella che è: una grande opportunità… da prendere con le molle, senza pregiudizi ma anche senza aperture di credito incondizionate. Un rapporto da costruire alla pari e senza ipocrisie.
«L’integrazione è difficile perchè le posizioni, gli immaginari, i convincimenti sono distanti e vivere insieme giorno dopo giorno un’amicizia o un amore è più complicato di quel che si creda – spiega Pallavicini – e occorre molta disponibilità all’ascolto da parte di entrambe le parti, soprattutto è necessario comprendere e rispettare le culture altrui senza mitizzarle».
Superare le oggettive “incompatibilità” culturali e le reciproche diffidenze. È stato questo, del resto, anche il messaggio dell’ultimo film di Cristina Comencini, Bianco e nero, uscito qualche tempo fa nelle sale italiane e attualmente in programmazione su Sky Cinema. Una commedia gradevole che racconta l’amore “clandestino” tra Carlo/Fabio Volo e Nadine/Aïssa Maïga, la bellissima attrice senegalese che nella pellicola interpreta una donna sposata, ricca e perfettamente integrata. Sarà la reazione piccata e vagamente razzista della moglie di lui, Elena/Ambra Angioini – sino a quel momento mediatrice culturale impegnata a organizzare iniziative benefiche per il Senegal – a svelare l’ipocrisia del politicamente corretto: «Una negra! Mi hai tradito con una negra!». Perchè il razzismo più insidioso e hard to die è quasi sempre quello che si nasconde dietro l’ecumenismo di facciata.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Bellissimo articolo, Roberto. Hai raccontato il libro come lo avrei voluto raccontare io. Hai colto snodi importanti e le citazioni che hai preso dal mio testo sono perfette. Ti ringrazio moltissimo, sono davvero contento.
Ti abbraccio
Sandro

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie a te, Piersandro, per la fiducia accordata. Mi fa molto piacere che ti sia piaciuto. Spero quanto a me è piaciuto African Inferno! ;)Un abbraccio a te!

Giorgio Ballario ha detto...

Bravo Roberto, bellissimo articolo. Confesso che non conoscevo il libro di Pallavicini, ma la tua recensione mi ha messo voglia di leggerlo. Da quanto scrivi fustiga mirabilmente quei vizi mentali da sinistra radical (e anche un po' cat-com...) che ammorbano pure le redazioni dei giornali.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Sì, proprio così. E se non l'hai letto, ti consiglio altrettanto vivamente il suo Atomico Dandy, sempre Feltrinelli, del 2005.
Un abbraccio.

Anonimo ha detto...

Atomico Dandy l'ho letto. Notevole. Ho trovato alcune aoprti migliori di altre, qualche stereotipo, ma lieve, comunque un ottimo romanzo.
Questo mi incuriosisce. Quando un autore riesce a provocare, non per il gusto di farlo, né in modo becero, ma per analizzare degli apsetti inediti della cultura, non riesco a non leggerlo.

Claudio Ughetto ha detto...

Scusa la grafia, Rob :-)
Ma dopo quello chem'è successo sto scrivendo da accicato!

Claudio Ughetto ha detto...

Peggio di D'Annunzio :-)))))

Claudio Ughetto ha detto...

Ah, l'anonimo sono io, naturalmente.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Provocare... ma non per il gusto di farlo. Mi sembra un'ottima definizione per Pallavicini.
Claude, mi verrebbe da dirti "riguardati" ma forse non è il caso :-D

Claudio Ughetto ha detto...

Bellissima :-))))))

Anonimo ha detto...

ciao robè,

acquisterò i libri dell'autore.

bart