Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 4 gennaio 2009
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 4 gennaio 2009
«And the clock… Tick-tock…» Vi dice niente? Vi sembra solo un’espressione banale, una rima infantile, un frammento di chissà quale filastrocca (che non vi interessa e non vi tocca)? Peccato. Per noi che conosciamo e amiamo i Genesis – gli unici, autentici, indimenticabili Genesis della prima metà degli anni Settanta, quelli illuminati dal carisma di Peter Gabriel – è un frammento che rievoca all’istante tutto il quadro. Un quadro che si intitola The Musical Box. Un quadro seducente ed inquietante, ammaliante e tenebroso, intrigante ed enigmatico, che era posto in apertura di una sequenza, splendida, che ne contava altri sei. E che, a sua volta, si intitolava Nursery Crime.
Forse vi ricordate la copertina, almeno. Il disegno (il dipinto) della ragazzina abbigliata in stile vittoriano che brandisce una mazza da cricket sullo sfondo di una spianata immensa e onirica, percorsa da strisce gialle e marrone chiaro che convergono, alle sue spalle, verso un orizzonte remoto e perfettamente, morbosamente sgombro, sotto un cielo innaturale che sembra riflettere i medesimi colori delle strisce: giallo, in una tonalità più smorta, dove dovrebbe esserci l’azzurro; marrone più scuro, appena sbaffato di bianco, dove incombono le nuvole, con la loro minaccia di una pioggia che non è detto che cada ma che, in ogni caso, non avrà proprio nulla di purificatore. A proposito: vi ricordate ciò che c’era per terra? Chiudete gli occhi. Fate uno sforzo di memoria, trattenendo il disgusto e la paura. Aiutatevi con questo: «Mentre il piccolo Henry Hamilton-Smythe giocava a croquet con Cynthia Jane De Blaise-William, sorridendo dolcemente Cynthia sollevò la sua mazza in alto e con grazia staccò la testa di Henry».
Le disegnava Paul Whitehead, quelle copertine. Oggi, sul suo sito, chiude le note di presentazione affermando «Remember if you can imagine it, I can paint it». Ricordate: se voi potete immaginarlo, io posso dipingerlo. Trenta anni prima lo faceva coi Genesis. Loro lo immaginavano, coi loro suoni e con le loro parole, e Paul lo dipingeva. «Mi davano le canzoni e talvolta ero presente quando le suonavano per la prima volta o persino quando scrivevano le parti durante le prove. Poi – quando la band faceva una pausa – facevamo delle sessioni di brainstorming, finché non arrivavamo a un concetto che per tutti aveva senso. Una volta stabilito quel concetto, io me ne andavo e realizzavo il disegno. Spesso aggiungevo piccoli dettagli sullo sfondo. I ragazzi si divertivano a scovarli nei disegni.»
Era un mondo così, quello dei Genesis. Un mondo in cui dovevi entrarci completamente o tanto valeva che te ne stessi alla larga. Un mondo nel quale non aveva senso restarsene solo sulla soglia, dove ciò che accade all’interno arriva attutito e rimane quasi indistinto. Le porte andavano aperte, una dopo l’altra, e bisognava inoltrarsi fin tanto che era possibile. Fin tanto che non ci si trovava di fronte alla barriera, invalicabile, dell’ultimo muro. Dell’ultima nota del disco.
Trespass, Nursery Crime, Foxtrot, Selling England by the Pound, The Lamb Lies Down on Broadway. Le tappe fondamentali furono queste. Cinque album, di cui l’ultimo doppio, che si inanellarono tra l’ottobre del 1970 e il novembre del 1974. Quattro anni di esplorazioni – le esplorazioni inarrestabili e benedette di giovani artisti che navigano fiduciosi verso gli estremi limiti della propria ispirazione, non essendo stati ancora costretti ad apprendere che il talento è un vento capriccioso che cade di colpo, e a volte per sempre – racchiuse in poche ore di musica. I ragazzi che diventano uomini, nel bene e nel male. Marinai che si stancano di far parte dello stesso equipaggio. Che come Phil Collins – animo da mozzo, saldezza da timoniere, cinismo da armatore – iniziano a chiedersi se la nave non filerebbe più veloce, con qualche sostanzioso ritocco allo scafo e alle vele. Che come Peter Gabriel – il navigatore solitario che si è imbarcato per sottoporsi al doveroso apprendistato, ma che è troppo libero e curioso per accettare di ridurre un’esperienza a una routine – non hanno nessuna voglia di obbligare gli altri a seguirli in acque pericolose e sconosciute, ma allo stesso tempo non hanno nessuna intenzione di rinunciare ad avventurarcisi loro, non appena sarà possibile.
Trespass, Nursery Crime, Foxtrot, Selling England by the Pound, The Lamb Lies Down on Broadway. I cinque album vengono riproposti ora in un cofanetto che aggiunge ai cd una serie di dvd e che, nel tentativo (superfluo, se non proprio controproducente) di aggiungere appeal all’iniziativa, sbandiera come un merito la rimasterizzazione in “Audio Surrounding 5.1”. Trucchetti da imbonitori, che si preoccupano innanzitutto di lucidare la superficie e di sottolineare quanto sia diventata brillante, ora che ci hanno messo le mani loro. Abbellimenti, se davvero lo sono, di cui francamente non si sentiva la mancanza: non è mica argenteria da far lustrare alla domestica; sono spade affilate, sono amuleti potenti, sono oggetti di famiglia che sprigionano comunque il loro fascino e la loro forza evocativa. Giù le mani, Jeeves.
L’unico pregio dell’iniziativa, così, è quello di richiamare l’attenzione di chi è ancora all’oscuro. Di chi non sa che i Genesis che suonarono a Roma nel luglio dello scorso anno sono soltanto gli omonimi di quelli che sfoderarono il loro meglio tra il 1971 e il 1974. Non proprio degli usurpatori, così come non lo è, legalmente, l’uomo imbolsito che a cinquant’anni tradisce in tutti i modi il ragazzo generoso che era stato a suo tempo, ma certo dei pessimi custodi della propria identità originaria. Nulla di più che musicisti di intrattenimento, pieni di soldi e poveri di slancio. Concerto gratuito per il pubblico? Sì, ma solo perché a pagare è lo sponsor.
Molto meglio guardare indietro, allora. Rievocare i vecchi Genesis di trenta e più anni e fa e ricordarli com’erano, in quei loro anni meravigliosi e perduti: sospinti dalla gioventù di tutti e catalizzati dalla purezza di Peter Gabriel. Tutti sul ponte della nave a scrutare l'orizzonte per indovinare la rotta, tutti alle vele per afferrare il vento, tutti ad augurarsi di poter scoprire terre di sogno delle quali raccontare con orgoglio e commozione. E con assoluta sincerità.
Forse vi ricordate la copertina, almeno. Il disegno (il dipinto) della ragazzina abbigliata in stile vittoriano che brandisce una mazza da cricket sullo sfondo di una spianata immensa e onirica, percorsa da strisce gialle e marrone chiaro che convergono, alle sue spalle, verso un orizzonte remoto e perfettamente, morbosamente sgombro, sotto un cielo innaturale che sembra riflettere i medesimi colori delle strisce: giallo, in una tonalità più smorta, dove dovrebbe esserci l’azzurro; marrone più scuro, appena sbaffato di bianco, dove incombono le nuvole, con la loro minaccia di una pioggia che non è detto che cada ma che, in ogni caso, non avrà proprio nulla di purificatore. A proposito: vi ricordate ciò che c’era per terra? Chiudete gli occhi. Fate uno sforzo di memoria, trattenendo il disgusto e la paura. Aiutatevi con questo: «Mentre il piccolo Henry Hamilton-Smythe giocava a croquet con Cynthia Jane De Blaise-William, sorridendo dolcemente Cynthia sollevò la sua mazza in alto e con grazia staccò la testa di Henry».
Le disegnava Paul Whitehead, quelle copertine. Oggi, sul suo sito, chiude le note di presentazione affermando «Remember if you can imagine it, I can paint it». Ricordate: se voi potete immaginarlo, io posso dipingerlo. Trenta anni prima lo faceva coi Genesis. Loro lo immaginavano, coi loro suoni e con le loro parole, e Paul lo dipingeva. «Mi davano le canzoni e talvolta ero presente quando le suonavano per la prima volta o persino quando scrivevano le parti durante le prove. Poi – quando la band faceva una pausa – facevamo delle sessioni di brainstorming, finché non arrivavamo a un concetto che per tutti aveva senso. Una volta stabilito quel concetto, io me ne andavo e realizzavo il disegno. Spesso aggiungevo piccoli dettagli sullo sfondo. I ragazzi si divertivano a scovarli nei disegni.»
Era un mondo così, quello dei Genesis. Un mondo in cui dovevi entrarci completamente o tanto valeva che te ne stessi alla larga. Un mondo nel quale non aveva senso restarsene solo sulla soglia, dove ciò che accade all’interno arriva attutito e rimane quasi indistinto. Le porte andavano aperte, una dopo l’altra, e bisognava inoltrarsi fin tanto che era possibile. Fin tanto che non ci si trovava di fronte alla barriera, invalicabile, dell’ultimo muro. Dell’ultima nota del disco.
Trespass, Nursery Crime, Foxtrot, Selling England by the Pound, The Lamb Lies Down on Broadway. Le tappe fondamentali furono queste. Cinque album, di cui l’ultimo doppio, che si inanellarono tra l’ottobre del 1970 e il novembre del 1974. Quattro anni di esplorazioni – le esplorazioni inarrestabili e benedette di giovani artisti che navigano fiduciosi verso gli estremi limiti della propria ispirazione, non essendo stati ancora costretti ad apprendere che il talento è un vento capriccioso che cade di colpo, e a volte per sempre – racchiuse in poche ore di musica. I ragazzi che diventano uomini, nel bene e nel male. Marinai che si stancano di far parte dello stesso equipaggio. Che come Phil Collins – animo da mozzo, saldezza da timoniere, cinismo da armatore – iniziano a chiedersi se la nave non filerebbe più veloce, con qualche sostanzioso ritocco allo scafo e alle vele. Che come Peter Gabriel – il navigatore solitario che si è imbarcato per sottoporsi al doveroso apprendistato, ma che è troppo libero e curioso per accettare di ridurre un’esperienza a una routine – non hanno nessuna voglia di obbligare gli altri a seguirli in acque pericolose e sconosciute, ma allo stesso tempo non hanno nessuna intenzione di rinunciare ad avventurarcisi loro, non appena sarà possibile.
Trespass, Nursery Crime, Foxtrot, Selling England by the Pound, The Lamb Lies Down on Broadway. I cinque album vengono riproposti ora in un cofanetto che aggiunge ai cd una serie di dvd e che, nel tentativo (superfluo, se non proprio controproducente) di aggiungere appeal all’iniziativa, sbandiera come un merito la rimasterizzazione in “Audio Surrounding 5.1”. Trucchetti da imbonitori, che si preoccupano innanzitutto di lucidare la superficie e di sottolineare quanto sia diventata brillante, ora che ci hanno messo le mani loro. Abbellimenti, se davvero lo sono, di cui francamente non si sentiva la mancanza: non è mica argenteria da far lustrare alla domestica; sono spade affilate, sono amuleti potenti, sono oggetti di famiglia che sprigionano comunque il loro fascino e la loro forza evocativa. Giù le mani, Jeeves.
L’unico pregio dell’iniziativa, così, è quello di richiamare l’attenzione di chi è ancora all’oscuro. Di chi non sa che i Genesis che suonarono a Roma nel luglio dello scorso anno sono soltanto gli omonimi di quelli che sfoderarono il loro meglio tra il 1971 e il 1974. Non proprio degli usurpatori, così come non lo è, legalmente, l’uomo imbolsito che a cinquant’anni tradisce in tutti i modi il ragazzo generoso che era stato a suo tempo, ma certo dei pessimi custodi della propria identità originaria. Nulla di più che musicisti di intrattenimento, pieni di soldi e poveri di slancio. Concerto gratuito per il pubblico? Sì, ma solo perché a pagare è lo sponsor.
Molto meglio guardare indietro, allora. Rievocare i vecchi Genesis di trenta e più anni e fa e ricordarli com’erano, in quei loro anni meravigliosi e perduti: sospinti dalla gioventù di tutti e catalizzati dalla purezza di Peter Gabriel. Tutti sul ponte della nave a scrutare l'orizzonte per indovinare la rotta, tutti alle vele per afferrare il vento, tutti ad augurarsi di poter scoprire terre di sogno delle quali raccontare con orgoglio e commozione. E con assoluta sincerità.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.
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