domenica 11 gennaio 2009

Ughi-Allevi, arte alta o bassa, ma se la musica fosse in un altro luogo? (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 11 gennaio 2008

La polemica è cominciata il 24 dicembre: in un’intervista a La Stampa il celebre violinista Uto Ughi ha attaccato frontalmente il celebre pianista Giovanni Allevi. Primo campanellino d’allarme: nell’epoca attuale la celebrità è un dato di fatto, un sinonimo di notorietà (di una notorietà al quadrato, per così dire) che non attesta nulla più che se stessa; è celebre Paris Hilton ed è celebre Meryl Streep, è celebre Robert De Niro ed è celebre Rocco Siffredi. Ma non esattamente per le stesse, commendevoli ragioni.
Il titolo dell’intervista è drastico: “Il successo di Allevi mi offende”. L’attacco del pezzo anche: Ughi parte dal concerto di Natale promosso dal Senato e dice chiaro e tondo che affidarlo ad Allevi è stato assurdo. Testuali parole: «Che spettacolo desolante! Vedere le massime autorità dello Stato osannare questo modestissimo musicista». Potrebbe sembrare il climax e invece è solo il prologo. In rapida successione, come in una requisitoria che sfocerà nella richiesta del massimo della pena, Ughi rovescia su Allevi ogni sorta di addebito. «Le composizioni sono musicalmente risibili, un collage furbescamente messo insieme». Come strumentista «in altri tempi non sarebbe stato ammesso al Conservatorio». Insomma, una nullità assoluta sia come esecutore che come compositore. «Il suo successo è una conseguenza del trionfo del relativismo: la scienza del nulla, come ha scritto Claudio Magris».
Passano quattro giorni e arriva la replica, sempre sulla Stampa. Allevi scrive una lettera aperta in cui non si limita affatto a ribattere punto per punto alle contestazioni di Ughi, ma cerca di delegittimarle riconducendole a un pregiudizio. Interessato. Come sintetizza il titolo, «Caro Ughi, lei difende soltanto la sua Casta». Il problema non è estetico ma pratico: la musica classica è un mondo chiuso in se stesso e chi ne tira i fili non ammette intrusioni. Guai a chi, come Allevi, rivendica la dignità e il background di musicista colto ma li riversa in ambiti pop, vendendo dischi a carrettate e sottraendosi alle seriosità, e alle pressioni, e ai diktat, dei circuiti tradizionali.
Ughi lo accusa di non valere un soldo e di essere l’apoteosi della banalità? Sciorinati i propri titoli di studio (diploma in pianoforte e in composizione con 10/10, laurea con lode in filosofia) Allevi ribadisce quello che ha già detto e scritto mille volte: il suo obiettivo è gettare «le basi di una nuova musica colta contemporanea, che recuperi il contatto profondo con la gente». Al contrario di ciò che sostengono i suoi detrattori, che lo accusano di ammannire a un pubblico sprovveduto i cascami di un repertorio abusato e romanticheggiante, «la mia è una musica nuova perché contiene quel sapore, quella sensibilità dell’oggi, che nessun musicista del passato poteva immaginare». Di più: come si legge in apertura del suo sito, «stiamo tornando nel Rinascimento italiano, dove l’artista deve essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un po’ folle, deve uscire dalla torre d’avorio e avvicinarsi al sentire comune». E il campione di questa nobile battaglia, ça va sans dire, è ovviamente egli stesso.
La querelle, al netto delle intemperanze e dei personalismi, è davvero interessantissima. Il problema al quale rinvia, infatti, non è tanto la qualità intrinseca della musica di Allevi, o di chiunque altro goda di un ampio successo commerciale, ma la capacità del pubblico di esprimere giudizi attendibili. Secondo campanellino d’allarme: normalmente si parla di successo e basta, senza aggiungere aggettivi, ma in realtà l’aggettivo “commerciale” è implicito. Avere successo significa vendere tanti dischi e avere molti spettatori ai concerti. Tanti dischi, molti spettatori: elementi quantitativi, se c’è bisogno di sottolinearlo.
Ma qual è lo scopo effettivo dell’arte? È innescare un cospicuo giro d’affari o apportare nuova linfa all’immaginario collettivo? Terzo campanellino d’allarme (una sinfonia per campanellini d’allarme, praticamente…): il termine “arte” è utilizzato con un eccesso di disinvoltura, sorvolando sul fatto che non tutte le forme espressive si collocano nella medesima prospettiva. Da un lato, per chi vive nel presente senza dimenticare il passato, le nuove produzioni artistiche devono obbligatoriamente fare i conti con tutto ciò che è stato creato in precedenza: se prendi Mozart e ci aggiungi un arrangiamento moderno, come avvenne a suo tempo con la sinfonia 40 K550, sul piano squisitamente artistico non stai aggiungendo un fico secco. Se prendi un frammento di Mozart e ci fai una canzoncina per Sanremo sei un ciarlatano, per non dire un ladro.
Dall’altro, per chi se ne infischia delle acquisizioni pregresse e si limita a giudicare gli effetti concreti che si producono “qui e ora”, l’arte coincide con la comunicazione. Con la comunicazione di massa, più precisamente. L’arte, per loro, ha come unico scopo quello di attrarre e coinvolgere la maggiore quantità di persone possibile in un dato momento. Una specie di democrazia diretta: la bontà di un’opera è determinata dal seguito che riesce ad ottenere. Quarto (e ultimo) campanellino d’allarme: proprio come avviene nella democrazia politica, la capacità di giudizio è attribuita per diritto di nascita. Se anche non si ha la benché minima preparazione specifica, e al cospetto di un banalissimo “giro di Do” si rimane estasiati come di fronte alle vette della ricerca armonica, non c’è nulla che non va. Una testa un voto, statuisce la democrazia. Un paio d’orecchie un acquirente, riecheggia il marketing.
Il problema è qui: è nel confondere i piani e nel pretendere che ciò che vale in un ambito valga anche nell’altro. Che ognuno ascolti quel che gli pare, e si bei a sua esclusiva discrezione dei Cugini di Campagna o di Beethoven, è una scelta puramente soggettiva. Che, in quanto tale, si colloca al di fuori (al di fuori: non al di sopra) di qualsiasi giudizio. Ma la conclusione non è affatto che i Cugini di Campagna e Beethoven abbiano il medesimo valore. La conclusione è che la strada che porta dall’analfabetismo alla laurea è lunga e impegnativa in ogni campo. E in quello musicale, complici le case discografiche e le radio e le tivù che le assecondano, qui in Italia siamo sì e no alle elementari. O addirittura all’asilo.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

1 commento:

Anonimo ha detto...

non si capisce niente.