martedì 17 marzo 2009

Giuseppe Culicchia: «Qui a Torino la sinistra è scomparsa» (intervista a cura di Giovanni Tarantino)

Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia di martedì17 marzo 2009
Torna a fare parlare di sé lo scrittore Giuseppe Culicchia. Torinese, classe ’65, Culicchia si era dimostrato abbastanza indipendente sul piano intellettuale, al punto tale da fornire, nel 2004, una sua colorita versione degli anni Settanta, ne Il Paese delle meraviglie, edito a suo tempo da Garzanti, dove tra i protagonisti trovava spazio anche l’irriverente e anarcoide “camerata” Frank Zazzi. Lo stesso narratore, sull’eco del dibattito seguente la pubblicazione di quel romanzo, realizzò per il mensile Linus una serie di interviste a personaggi legati - come studiosi o interpreti - ala destra culturale, tra cui Marco Tarchi, Filippo Rossi e Gabriele Marconi.
«Quelle interviste – dice adesso – sono nate dopo la pubblicazione del romanzo Il paese delle meraviglie, e dell'interesse riscosso dal personaggio di Zazzi. Chissà che un giorno non ne venga fuori qualcos'altro. Non so quali riflessi abbiano avuto nel dibattito italiano circa l’evoluzione della/e destra/e, so però che Linus ha ricevuto diverse lettere di protesta. In Italia c’è stata una guerra civile. Poi sono venuti gli Anni di Piombo e certe divisioni sono rimaste. Si pensi, per fare un ultimo esempio, alle polemiche per Valerio Morucci a Casa Pound». Da sempre appassionato di letteratura e sport, Culicchia si è dilettato in passato nel collocare i suoi scrittori preferiti in una formazione di calcio dove «in porta gioca Dante che dà sempre una certa sicurezza. Terzini due tosti e cattivi, Houellebecq e Bukowski. Mediano Pasolini, che a pallone ci giocava davvero. Stopper Hamsun, norvegese roccioso. Libero Nietzsche. Poi all’ala destra Céline, all’ala sinistra Hemingway. Come regista vedrei bene Shakespeare. Mezz’ala uno elegante, Fitzgerald. Come centravanti Omero, uno che di battaglie in area avversaria se ne intende». Da non molto Culicchia è tornato in libreria col suo ultimo romanzo Brucia la città (Mondadori, pp.401, euro 19).
Come si colloca Brucia la città rispetto ai suoi precedenti lavori? Riscontra punti di contatto (o di contrasto) con qualche altro suo precendete romanzo?
Con Brucia la città ho cercato di raccontare l’Italia di oggi attraverso lo specchio deformante di una Torino in crisi d’identità, alla pari dei protagonisti del libro: Iaio e Allegra, lui dj e pubblicitario, lei fuoricorso al Dams che da anni rimanda l’ultimo esame perché terrorizzata dal futuro. I due fanno uso quotidiano di coca, come tutte le persone che conoscono: non a caso la mafia è la prima azienda del Paese, e la “bamba” è la voce principale del suo fatturato. Comunque: Iaio e i suoi amici dj Zombi e Boh, rampolli di famiglie ricchissime e inesistenti, passano da una festa a una vernice a un’orgia a un aperitivo a una serata, preoccupati solo di riempire le loro giornate e le loro notti con quel che passa la realtà di questi nostri anni. Sono figli del benessere, ma la loro voglia di divertirsi a ogni costo nasconde ferite profonde. Detto questo, forse Brucia la città è un po’ il Tutti giù per terra di questi anni Zero, scritto però dopo un libro come Il paese delle meraviglie, che per me è stato uno snodo importante.
Torino sta messa davvero così tanto male?
Torino è una città che dopo la crisi dell’industria automobilistica ha cercato una sua strada puntando in generale “sulla cultura”, che spesso oggi corrisponde all’intrattenimento. Infatti uno dei personaggi del libro è Mintasco, l’assessore alle Notti Bianche. Si tratta di un destino comune a un gran numero di città europee che proprio con la fine dell’epoca industriale si sono dovute riciclare. Nel nostro caso, si è pensato che le Olimpiadi sarebbero state l’inizio di qualcosa. Poi però è venuta fuori una sorta di ansia da prestazione: dopo i Giochi Torino, già città-fabbrica, è diventata una città-fabbrica di eventi. Certo si sono pianificate anche grandi opere, per esempio la nuova biblioteca del Bellini, che doveva diventare un nuovo Beaubourg: ma alla fine non se ne farà nulla, perché mancano i soldi. Peccato che il solo progetto sia costato circa 20 milioni di Euro. Torino è la città più indebitata d’Italia, e stando ai giornali siede su tre miliardi di Euro di derivati. C’è poi la questione edilizia: con le Olimpiadi e l’interramento della ferrovia, a Torino si è costruito più che in ogni altra città italiana. Ma con risultati discutibili, come rimarcato l’anno scorso dal Congresso Mondiale degli Architetti tenutosi in città. Spesso tra l’altro si è scelto di abbattere le fabbriche, anziché riconvertirle come accade altrove in Europa per destinarle a usi appunto culturali. E si è scelto di costruire condomini. Così è andato perduto un notevole patrimonio di architettura industriale, si pensi alla Michelin. A Torino il solo grande esempio di riutilizzo di una fabbrica resta quello del Lingotto.
Esiste una componente giovanile (a Torino, in Italia) del tutto differente a quella dei tipi umani descritti nel libro?
Certo: gli esempi non mancano. Ma a me questa volta interessava raccontare il mondo dei privilegiati, quelli che con ogni probabilità saranno la classe dirigente del futuro, sempre che il futuro glielo permetta. Gli scricchiolii ormai sono sempre più insistenti, nel libro per esempio questi ragazzi della Torino-bene si muovono in un paesaggio pullulante di pensionati che cercano qualcosa da mangiare nei cestini dei rifiuti, e di mendicanti, e immigrati, e da parte loro si limitano a scacciare infastiditi chi li importuna mentre sorseggiano un cocktail nei dehors dei locali alla moda.
Possiamo definire le ragioni del successo della droga in certi ambienti?
Penso che alla base di tutto ci sia molta solitudine, molta insicurezza, molta fragilità. La nostra poi è sostanzialmente una società “dopata”, molto competitiva, nella quale spesso si assumono certe sostanze perché così fan tutti e si ritiene che non farlo sarebbe da stupidi: la cosa non riguarda solo il ciclismo. Com’è noto, ormai si “sbamba” per affrontare la nottata di lavoro ai mercati generali e per reggere i ritmi della Borsa. C’è poi un’omologazione ormai asfissiante, che nel romanzo è simboleggiata dal tatuaggio tribale che tutte le ragazze in cui s’imbatte Iaio sfoggiano in fondo alla schiena.
Diceva lo scrittore Ernst Junger: «Prendo la droga troppo sul serio per pensare che se ne possa fare un’abitudine e utilizzarla come una specie di sigaretta». Cosa ne pensa di questa testimonianza? Quanto passa dal modo “jungeriano” di considerare la droga e quello dei vari dj Iaio, Zombi e Boh?
Per un certo periodo storico, almeno da noi in Occidente, l’uso di determinate sostanze è stata una prerogativa di pochi. Oggi come si diceva accade il contrario. Nel mezzo c’è stato il Sessantotto, nel quale le droghe erano un ingrediente nella ricerca della libertà. Qui e ora invece mi pare che più che di libertà si debba parlare di dipendenza. Intendiamoci: il discorso sulle dipendenze non riguarda solo la cocaina o l’eroina, ma anche l’alcool e molti prodotti dell’industria farmaceutica. Comunque: Iaio, Zombi e Boh sono consumatori di coca così come di altre merci, dai vestiti firmati all’ultimo modello di telefono cellulare. Tra loro e Junger c’è ovviamente un abisso.
Perché a un certo punto uno dei protagonisti del racconto (Brocchi) pensa a candidarsi col Pd? Perché proprio quel partito?
Innanzitutto perché il romanzo è ambientato nella Torino di questi anni, una città dove da diversi mandati governa quella che un tempo si sarebbe detta la sinistra e che oggi non si sa bene che cos’è. Poi perché il Pd è all’epoca in cui si svolgono i fatti la grande novità della scena politica italiana, e agli occhi di Brocchi rappresenta soprattutto un’opportunità di carriera, come cantavano i Clash: tanto che alla fine lui dice che se per caso non dovesse farcela alle elezioni, opterà per un provino per il Grande Fratello. Ecco, a me interessava raccontare attraverso Brocchi lo scollamento tra gli ideali di riferimento e certi comportamenti privati, tra la tradizione politico-culturale e l’operato amministrativo. Da noi, infatti, si tende a dimenticare tutto molto rapidamente, ma il precariato in Italia è stato introdotto proprio dal primo esecutivo di “sinistra” nella storia della Repubblica. E chissà, qualche precario questo forse se lo ricorda.
Cosa è rimasto della sinistra torinese?
Mah, si sarebbe tentati di dire ben poco. A Mirafiori si è appena insediata la Lega Nord, e la sinistra “di governo” dà l’impressione di essere interessata più a quel che dicono i banchieri che a quel che dicono gli operai. Non a caso si rimase un po’ spiazzati anni fa per il fatto che la sinistra avesse vinto le elezioni su in collina, il luogo simbolo dell’alta borghesia torinese, perdendo nei quartieri tradizionalmente operai. Il palazzo del centro dove visse Gramsci, che ospitava alloggi popolari, è stato venduto dal Comune a un costruttore che realizzerà un albergo a cinque stelle.
Esistono realtà politiche (non necessariamente partitiche) che a Torino continuano ad essere avanguardia di qualcosa?
Torino è una città tradizionalmente all’avanguardia, noi teniamo molto a rimarcare che all’ombra della Mole sono nati in Italia non solo l’industria automobilistica ma pure il cinema e la radio e la moda eccetera. A Torino perfino il Sessantotto iniziò nel ’67. Da qualche anno questa parte siamo all’avanguardia nella movida, tanto che parlando del futuro della città proprio il sindaco Chiamparino ha detto di recente che bisognerà “coniugare movida e industria”. Questo politicamente mi pare senza dubbio all’avanguardia. Però non è tutto...
Se Torino “brucia” come se la passa il resto dell’Italia?
Non benissimo, sembra. E non si tratta solo del Pil che scende e della crisi economica che sale. Per restare a uno dei temi del libro, a un certo punto Iaio e Zombi vengono a sapere che a Roma ci sono tracce di cocaina nell’aria, e che a Firenze in base all’analisi delle acque reflue dell’Arno se ne consuma più che a Londra, in proporzione al numero di abitanti, per tacere di Milano. Da parte loro, concludono di doversi impegnare di più. Poi c’è il discorso della formazione e della ricerca, trascurando le quali l’Italia non andrà da nessuna parte, e ancora quello dei costi che comporta vivere nel nostro Paese. Ma non penso solo al raddoppio dei prezzi seguito all’introduzione dell’Euro: da noi, per esempio, leggendo i giornali si scopre che l’Alta Velocità costa sei o sette volte più che nel resto d’Europa. Perché? E quanto costa a ogni cittadino in termini di qualità di servizi fondamentali come la scuola o la sanità il fenomeno dell’evasione fiscale?
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Attento indagatore delle culture e delle dinamiche giovanili, collabora con il Secolo d’Italia. Si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.

2 commenti:

Claudio Ughetto ha detto...

Da torinese non posso che condividere l'opinione di Culicchia. Purtroppo siamo in molti, tra colore che si sentono forse più "a sinistra" che a destra ad essere profondamente delusi e incazzati contro la sinistra (o sedicente tale) che governa la città e il Piemonte. Mesi fa ero in birreria con un mio caro amico, di quelli che la destra proprio la detestano, che senza mezze misure mi diceva che alle prossime provinciali bisognerà votare centrodestra per cambiare un sistema che ha negato alla città, e implicitamente al Piemonte, ogni opzione democratica. Questa sinistra, di produzione FIAT, ha dato la città in mano alle lobbyes bancarie, ha non solo fabbricato eventi, come dice Culicchia, ma anche slegato l'attività dei politici dalla politica stessa. I cittadini non hanno voce in capitolo, gli eventi sono prodotti dall'alto e noi siamo gli aquirenti obbligati. Di politica vera zero, e non c'è da stupirsi se il Piemonte è una polveriera pronta ad esplodere.
In un certo senso, a Torino si è realizzata appieno quella che è la politica contemporanea: tecnocratica, economicista all'estremo, lontana da ogni coscienza del territorio e della vita vera.
A me viene un po' male, perché l'idea di votare dei partiti vicini all'attuale Governo italiano mi disgusta. Probabilmente mi asterrò, da buon Anarca.

PS: solo una precisazione per Giovanni: Marco Tarchi non si considera un esponente intellettuale della destra culturale. Oggigiorno meno che mai.
Ciao.

Pinzimonio ha detto...

Culicchia ha scritto un romanzo mediocre (a parer mio...), e confermando il suo esordio cavalca l'onda della mediocrità generazionale (vedi tutti giù per terra). Non è nè una voce contestataria, nè una voce alternativa, è soltanto un meccanismo "ottimamente" congegnato sui parametri della mediocrità. Un applauso a Culicchia, perchè torino, l'italia, il mondo, hanno bisogno di scrittori come lui. Speriamo di vederlo presto tra gli amici di mariadeifilippidi.