Articolo di Luca Telese
Il «rompete le righe» deciso da Fini scompagina le posizioni interne. Accanto ai ghibellini del leader, spuntano i guelfi di Alemanno, gli anti-progressisti di Gasparri e i nazionalpopolari della Meloni
Roma. E alla fine, se non è una beffa poco ci manca, perché Gianfranco Fini celebra il congresso dell’abbandono definitivo alla «casa del padre» con un omaggio al padre, celebra l’addio ad An e alla tradizione post missina con un discorso che Giorgio Almirante avrebbe definito, da appassionato di Dante, «ghibellino». La prima cosa che ti colpisce, nel congresso della Fiera di Roma, è che An non entra dentro il Popolo della libertà con la forza di una centuria inquadrata a testuggine, ma piuttosto con un nuovo Big Bang che scompone il partito secondo nuove coordinate, e in nome di un asse in cui si misura minore o maggiore laicità. La scelta, ancora una volta, l’ha fatta Fini che, nel discorso di ieri, ha dato due grossi messaggi. Il primo una sorta di tana libera tutti, adesso ognun per sé, nessuna appartenenza garantita, nessuna politica «di potere o di sotto potere»; il secondo: nessun retaggio cameratesco, «non siamo più i migliori».
E dunque, ieri, nella stessa mattinata, ascoltando Fini e i suoi colonnelli, sembrava di udire lingue diverse. Molto «guelfo» Maurizio Gasparri, con il suo binomio inscindibile «legge & ordine» agitato davanti alla sala con passione e convinzione; neo guelfo Gianni Alemanno, con le sue sottolineature «identitarie» e la sua vicinanza dichiarata ai valori della Chiesa; pienamente ghibellino, appunto, Fini, che disegna, in quello che dal punto di vista qualitativo sembra uno dei suoi discorsi più belli, un ritratto esistenziale del tutto anomalo, rispetto ai profili tradizionali della destra. E poi, a complicare le cose con una nota di colore, tutte le citazioni, le identità si impastano, in alcuni casi si scambiano. Il primo cittadino di Roma ha una moglie - Isabella Rauti - molto ghibellina («Sono qui come delegata prima che come moglie, al mio primo e ultimo congresso, ho votato»), mentre Fini ha una compagna, Elisabetta Tulliani, bionda, incantevole, che fugge inseguita dai giornalisti senza rilasciare commenti: davanti c’è la segretaria di Fini a mo’ di badante, dietro c’è un uomo della scorta, lei tiene la bocca sigillata, e solo tramite agenzia farà avere un commento pro forma: «Gianfranco è stato bravissimo». L’uomo della scorta, alquanto arcigno, sibilava ai cronisti: «Non si possono farle domande».
Ma, a parte questo, il corto circuito inizia quando la scomposizione culturale in nuove appartenenze rispetto al principio della laicità, inizia a squadernarsi. Gasparri, per esempio, agita la biografia di Giuseppe Prezzolini, scritta dall’estensore delle tesi Gennaro Sangiuliano, e lo fa estrapolando una bella citazione che gli serve per motivare il suo anti progressismo: «I progressisti sono gli uomini di domani, i conservatori quelli di dopodomani». Fini, invece, si esalta dichiarando la sua identità «repubblicana», il suo rifiuto del culto del capo, il profilo modernista che prospetta la nuova destra, «dobbiamo essere quelli della speranza, e non quelli della paura», «dobbiamo costruire un’etica repubblicana dei doveri», «dobbiamo costruire un’identità multiculturale e multireligiosa». Alla sua «sinistra», si ritrova un amico come Roberto Menia, il triestino che ha fatto venire giù la sala esaltando l’identità missina, in antitesi all’unanimismo del partito unico. Menia sognava la «federazione», e accetta la fusione come un male minore. Ma altri finiani, come Giorgia Meloni, che pure esaltano l’identità, poi sui temi dell’etica si differenziano dal loro leader. Fini mette sopra ogni cosa la difesa della libertà «che deve essere garantita dallo Stato», la Meloni la difesa della vita, incarnata «da quella ragazza con la pancia un po’ grande che non entra più nel banco di scuola, ma che sceglie di partorire lo stesso».
Ignazio La Russa, poi, per storia personale, è stato un «ghibellino almirantiano» ma per pratica politica, è uno dei padri del partito unico; il già citato Sangiuliano, che ha scritto le tesi, si dice «un ghibellino convinto», così come l’altro intellettuale di peso di An, Alessandro Campi. Al contrario, Alemanno immagina un altro partito, che sia meglio del Movimento sociale, che fondi una nuova identità riformista e identitaria. Alemanno vorrebbe sposare i valori della Chiesa e la critica al capitalismo reale. Anche Fini, per paradosso, raccoglie la bandiera della critica al mercatismo, ma si differenzia da tutti gli altri per la sua posizione sul tema dell’immigrazione: prefigura un’Italia in cui «saranno molti gli italiani che non sono figli di italiani» e in cui bisogna costruire «un nuovo rapporto con l’islam» sfidando su questo terreno «la sinistra, che non ha un’idea nuova di società».
Ovviamente, la politica delle grandi idee è anche la sovrastruttura della politica delle cose umane. Il retroscena che i dirigenti di An conoscono, è una riunione di qualche giorno fa, in cui il presidente della Camera aveva pensato a un ingresso più organico degli ex aennini nel nuovo partito. Poi ha scoperto, con non poco fastidio, che molti dei colonnelli già stavano trattando in proprio posizioni, in alcuni casi anche organigrammi, con Silvio Berlusconi. Forse è stato proprio questo a spingerlo all’ultimo strappo, al tana libera tutti, a quell’ambizioso rompete le righe: il nuovo Pdl, dopo il suo discorso alla Fiera di Roma, nasce con un monarca e con un leader repubblicano che lo sfida, alla distanza.
C’era una frasetta, ieri, anche nell’elogio che Fini ha fatto di Berlusconi, che era rivelatrice. Spiegava che Berlusconi aveva vinto per la sua capacità di rispondere ai bisogni, «ma anche alle paure». Poi, nella seconda parte del suo discorso, spiegava che la nuova destra che immagina deve rispondere non alle paure, ma alle speranze. Quelle che lui, da ieri, si candida a incarnare, cercando nel nuovo partito, trasversalmente, alleati laici disposti a competere l’egemonia con il Pontefice massimo di Arcore.
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