Dal Secolo d'Italia di giovedì 26 marzo 2009
Madame Bovary, la romantica Emma, sarà pure stata Flaubert, ma Jack London e Martin Eden, il protagonista del romanzo omonimo – in buona parte autobiografico – del grande scrittore americano pubblicato giusto cento anni fa (1909), sono la restante parte dell’umanità, quella che ama sognare ma tutto sommato lo fa invano. Jack e Martin sono la dose essenziale dei catulliani contrasti, rappresentano la vera scintilla dell’avidità di sapere, sono le anticamere verso un’esistenza più ricca, bella e consapevole. In due brevi parole lo scrittore socialista nato nel 1876 ed il giovane marinaio di San Francisco rappresentano quel “noi” che desidera tanto, che sente ardere il fuoco della passione creativa, ma che in fin dei conti non raccoglie che uno scarso profitto. Venuto al mondo dalla breve relazione fra una spiritualista socialmente impegnata e un astrologo, Jack London (fu questo il nome che gli fu dato quando la madre otto mesi dopo la sua nascita sposerà il commerciante John London), ebbe una vita travagliata che Jorge Luis Borges seppe sintetizzare da par suo nelle pagine iniziali di una celebre raccolta di racconti. Fu marinaio e operaio, poliziotto e furfante, perfino vagabondo. Ma fu anche un cercatore d’oro, un inviato di guerra e un conferenziere; e come socialista più volte candidato a sindaco. Insomma London fu essenzialmente un uomo d’azione votato al futuro, affascinato come tanti dall’evoluzionismo e dal socialismo (seppure non manchevole di molte contraddizioni e di certo pessimismo), fu un giornalista e un narratore di realtà estreme impareggiabile (fu perfino cronista di incontri di boxe), dalle nevi del Nord ai mari del Sud; e fu anche uno dei tanti intellettuali che si invaghì di Carl Gustav Jung. Morì nel 1916 dopo aver lavorato, con costanza e attenzione alle leggi di mercato, a saggi, romanzi e racconti e dopo aver progettato viaggi e avventure oggi scarsamente immaginabili.
Originario anch’egli di San Francisco, Jack London fu anche un fortunatissimo, appassionato, testimone di un mondo, il Nuovo mondo, che grazie all’immigrazione e al graduale spostamento dalla campagna alla città stava per assumere i connotati di una nuova potenza e di una realtà profondamente moderna (di una moderna società industriale e di mercato). Con mille ovvi contrasti, crisi economiche e squilibri: in primo luogo quelli interni dovuti alla qualità del lavoro, alla fatica dell’uomo, alla produzione della ricchezza e alla sua giusta distribuzione.
Ma London (il leggendario London), fu anche tante altre cose. Fu ad esempio la dimostrazione pratica dell’impossibilità dell’individuo di vivere per se stesso e di non subire la forza di ciò che sta al di fuori sia essa la società o la natura. E di volerla sfidare quest’ultima, e di continuo. Da questo punto di vista com’è stato giustamente scritto l’America londoniana da un luogo da sogno è pronta a trasformarsi in un luogo da incubo. E per motivi diversi tutti riconducibili a certi temi presenti nei suoi libri (denuncia sociale ma anche vitalismo, valore della forza, razzismo…), London è un autore molto amato anche da chi si ispira alle ideologie del primo Novecento.
La vita di Jack London (seppur limitata alla sua fase giovanile), non è però esattamente quella di Eden il marinaio, sicuramente uno dei suoi personaggi più celebri, anche se al di fuori dei particolari ci somiglia parecchio. Martin era un giovane turbolento ma anche un sensibilissimo e curioso libertario di fine Ottocento, che viveva nella più classica delle società americane quella suddivisa in classi. Da un lato donne e uomini colti, ricchi e belli, e dall’altro e in maggioranza lavoratrici e lavoratori brutti e ignoranti, tutti parte di un continente povero, cinico e prostrato. Eden il marinaio era irresistibilmente attratto dai canoni estetici ed intellettuali dell’high society cioè dal ceto al quale la sua famiglia ed egli stesso non erano mai appartenuti. Una società che non poteva non affascinarlo come una dolcissima rima di una poesia sconosciuta. Martin aveva infatti faticato per anni su e giù per le navi e gli oceani ma credeva di esser capace d’inventarsi scrittore. La mente, l’ingegno, la penna, sarebbero stati la chiave d’accesso verso la vita da sogno delle classi superiori (quelle che amavano la cultura per la cultura), quelle che il futuro poeta e narratore aveva conosciuto attraverso gli occhi di una donna romanticamente elevata a parte migliore – spirituale – dell’esistenza.
Martin legge tutto e il suo contrario, dalla fisica alla grammatica, dalla Blavatsky (una spiritualista… forse in omaggio alla vera madre di Jack) a Herbert Spencer, entrambi per parte loro evoluzionisti, anche se, da perfetto sognatore proletario, il suo fine è quello di poter passare (egli stesso s’intende), dall’uno all’altro ceto elevandosi culturalmente. Martin è un progressista nello spirito privo di coscienza di classe e che poco riflette sulla potenza del danaro e sul valore di quella “socialità” che tanto invece sembra interessare l’uomo Jack London (in fin dei conti infatti, come romanzo, Martin Eden è solo una critica dell’individualismo borghese). Il marinaio è alla ricerca di un’erudizione totalizzante che pare non solo sfuggirgli ma perfino confonderlo. In Martin proprio per i repentini cambiamenti occorsi superati i vent’anni, sorgono improvvisi dubbi sulla propria identità («Chi sei Martin Eden, chiese all’immagine riflessa nello specchio quella sera tornando in camera sua…»). Finirà sì per avere successo ma sarà costretto a barattarlo con la perdita dell’innocenza. Quel che resta da fare sarà solo lasciarsi morire. Uccidendo il male: quel carrierismo forsennato che aveva portato il marinaio al successo.
Forse lo stesso Jack London seppure sfiduciato e non in buona salute, non sarebbe mai arrivato a tanto... Tuttavia ancora oggi qualcuno sospetta che anche il “padre” del cane Buck, eccessivo in ogni gesto, abbia voluto suicidarsi sette anni dopo, ad appena quarant’anni. Magari, chissà, imitando quel gesto disperato ma vano (il suicidio appunto), tentato della madre, con Jack in arrivo, già al secondo mese di gravidanza.
Al punto in cui siamo, fare un rapidissimo bilancio delle opere di London (quelle uscite prima e dopo Martin Eden e quantomeno delle più famose), può risultare perfino inutile. Tanto sono lette, tanto sono famose, tanto sono diremmo (se il termine non cozzasse col vissuto del romanziere californiano), formative. Fra quelle di tipo “naturalistico” spiccano ovviamente Il richiamo della foresta (1903), Zanna Bianca (1906) e John Barleycorn (1913). I primi due sono fra i libri più letti e citati dai giovani del XX Secolo insieme ai lavori, un po’ meno recenti, di Melville, Twain e Verne.
Il London meno conosciuto invece (strano a dirsi), è forse quello fantastico – fantascientifico. Anche in questo caso tuttavia i suoi romanzi sono amati e per l’ampiezza del punto di vista e per la cristallina vena di avventura che fluisce ad ogni passo. Noto - e noto per essere anch’esso un libro scelto dai giovani del nostro tempo per i continui richiami ad un immaginario spirituale squisitamente moderno - è Il vagabondo delle stelle (1915), intreccio non privo di curiosa genialità di filosofia, spiritualismo e amara denuncia.
Un romanzo così chiaramente londoniano, pessimista, a metà strada fra realtà e stupore, avventura e sogno, ma anche un romanzo che parla di morte e che ha la stessa morte (un’esecuzione sommaria), come atto conclusivo. Qui la pietà del lettore compie un bizzarro viaggio nel tempo per andare a riversarsi nel destino del protagonista come un fiume presso il proprio mare. Quel mare che era stato la grande madre di Jack London e al quale lo stesso Martin Eden – uno dei personaggi che più lo ricorda – era voluto affannosamente tornare. Quel mare che tutto nasconde, la verità e il suo contrario che non è la menzogna, ma il buio, le tenebre, la morte appunto; perché come scrisse lo stesso London nel suo Eden: è in quel luogo che si compì il destino del protagonista. Di Martin il marinaio appunto.
Ed è lì che, un secolo fa, nell’istante in cui seppe, cessò di sapere…
Originario anch’egli di San Francisco, Jack London fu anche un fortunatissimo, appassionato, testimone di un mondo, il Nuovo mondo, che grazie all’immigrazione e al graduale spostamento dalla campagna alla città stava per assumere i connotati di una nuova potenza e di una realtà profondamente moderna (di una moderna società industriale e di mercato). Con mille ovvi contrasti, crisi economiche e squilibri: in primo luogo quelli interni dovuti alla qualità del lavoro, alla fatica dell’uomo, alla produzione della ricchezza e alla sua giusta distribuzione.
Ma London (il leggendario London), fu anche tante altre cose. Fu ad esempio la dimostrazione pratica dell’impossibilità dell’individuo di vivere per se stesso e di non subire la forza di ciò che sta al di fuori sia essa la società o la natura. E di volerla sfidare quest’ultima, e di continuo. Da questo punto di vista com’è stato giustamente scritto l’America londoniana da un luogo da sogno è pronta a trasformarsi in un luogo da incubo. E per motivi diversi tutti riconducibili a certi temi presenti nei suoi libri (denuncia sociale ma anche vitalismo, valore della forza, razzismo…), London è un autore molto amato anche da chi si ispira alle ideologie del primo Novecento.
La vita di Jack London (seppur limitata alla sua fase giovanile), non è però esattamente quella di Eden il marinaio, sicuramente uno dei suoi personaggi più celebri, anche se al di fuori dei particolari ci somiglia parecchio. Martin era un giovane turbolento ma anche un sensibilissimo e curioso libertario di fine Ottocento, che viveva nella più classica delle società americane quella suddivisa in classi. Da un lato donne e uomini colti, ricchi e belli, e dall’altro e in maggioranza lavoratrici e lavoratori brutti e ignoranti, tutti parte di un continente povero, cinico e prostrato. Eden il marinaio era irresistibilmente attratto dai canoni estetici ed intellettuali dell’high society cioè dal ceto al quale la sua famiglia ed egli stesso non erano mai appartenuti. Una società che non poteva non affascinarlo come una dolcissima rima di una poesia sconosciuta. Martin aveva infatti faticato per anni su e giù per le navi e gli oceani ma credeva di esser capace d’inventarsi scrittore. La mente, l’ingegno, la penna, sarebbero stati la chiave d’accesso verso la vita da sogno delle classi superiori (quelle che amavano la cultura per la cultura), quelle che il futuro poeta e narratore aveva conosciuto attraverso gli occhi di una donna romanticamente elevata a parte migliore – spirituale – dell’esistenza.
Martin legge tutto e il suo contrario, dalla fisica alla grammatica, dalla Blavatsky (una spiritualista… forse in omaggio alla vera madre di Jack) a Herbert Spencer, entrambi per parte loro evoluzionisti, anche se, da perfetto sognatore proletario, il suo fine è quello di poter passare (egli stesso s’intende), dall’uno all’altro ceto elevandosi culturalmente. Martin è un progressista nello spirito privo di coscienza di classe e che poco riflette sulla potenza del danaro e sul valore di quella “socialità” che tanto invece sembra interessare l’uomo Jack London (in fin dei conti infatti, come romanzo, Martin Eden è solo una critica dell’individualismo borghese). Il marinaio è alla ricerca di un’erudizione totalizzante che pare non solo sfuggirgli ma perfino confonderlo. In Martin proprio per i repentini cambiamenti occorsi superati i vent’anni, sorgono improvvisi dubbi sulla propria identità («Chi sei Martin Eden, chiese all’immagine riflessa nello specchio quella sera tornando in camera sua…»). Finirà sì per avere successo ma sarà costretto a barattarlo con la perdita dell’innocenza. Quel che resta da fare sarà solo lasciarsi morire. Uccidendo il male: quel carrierismo forsennato che aveva portato il marinaio al successo.
Forse lo stesso Jack London seppure sfiduciato e non in buona salute, non sarebbe mai arrivato a tanto... Tuttavia ancora oggi qualcuno sospetta che anche il “padre” del cane Buck, eccessivo in ogni gesto, abbia voluto suicidarsi sette anni dopo, ad appena quarant’anni. Magari, chissà, imitando quel gesto disperato ma vano (il suicidio appunto), tentato della madre, con Jack in arrivo, già al secondo mese di gravidanza.
Al punto in cui siamo, fare un rapidissimo bilancio delle opere di London (quelle uscite prima e dopo Martin Eden e quantomeno delle più famose), può risultare perfino inutile. Tanto sono lette, tanto sono famose, tanto sono diremmo (se il termine non cozzasse col vissuto del romanziere californiano), formative. Fra quelle di tipo “naturalistico” spiccano ovviamente Il richiamo della foresta (1903), Zanna Bianca (1906) e John Barleycorn (1913). I primi due sono fra i libri più letti e citati dai giovani del XX Secolo insieme ai lavori, un po’ meno recenti, di Melville, Twain e Verne.
Il London meno conosciuto invece (strano a dirsi), è forse quello fantastico – fantascientifico. Anche in questo caso tuttavia i suoi romanzi sono amati e per l’ampiezza del punto di vista e per la cristallina vena di avventura che fluisce ad ogni passo. Noto - e noto per essere anch’esso un libro scelto dai giovani del nostro tempo per i continui richiami ad un immaginario spirituale squisitamente moderno - è Il vagabondo delle stelle (1915), intreccio non privo di curiosa genialità di filosofia, spiritualismo e amara denuncia.
Un romanzo così chiaramente londoniano, pessimista, a metà strada fra realtà e stupore, avventura e sogno, ma anche un romanzo che parla di morte e che ha la stessa morte (un’esecuzione sommaria), come atto conclusivo. Qui la pietà del lettore compie un bizzarro viaggio nel tempo per andare a riversarsi nel destino del protagonista come un fiume presso il proprio mare. Quel mare che era stato la grande madre di Jack London e al quale lo stesso Martin Eden – uno dei personaggi che più lo ricorda – era voluto affannosamente tornare. Quel mare che tutto nasconde, la verità e il suo contrario che non è la menzogna, ma il buio, le tenebre, la morte appunto; perché come scrisse lo stesso London nel suo Eden: è in quel luogo che si compì il destino del protagonista. Di Martin il marinaio appunto.
Ed è lì che, un secolo fa, nell’istante in cui seppe, cessò di sapere…
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).
1 commento:
con tutta la simpatia per london, non si può paragonare martin eden a madame bovary
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