Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 1 marzo 2009
La prima benedizione i suoi occhi. La seconda benedizione la sua voce. L’unica maledizione, invincibile ma con l’attenuante dell’universalità, quella di invecchiare come chiunque altro. Il resto è ricerca, esplorazione, avventura. La ragazzina scozzese di famiglia modesta che diventa una superstar. La superstar che non si lascia risucchiare definitivamente nei meccanismi del successo, e alla lunga, all’alba dei cinquant’anni, ridefinisce la gerarchia tra apparenza e sostanza.
The Annie Lennox Collection, questa sua prima antologia che qui in Italia esce addirittura in anticipo rispetto ai Paesi di lingua inglese (complice il passaggio, intrinsecamente bellissimo, all’ultimo Sanremo, intrinsecamente bruttissimo), mischia il prima e il dopo in una coesistenza piacevole ma per forza di cose eterogenea. Dodici pezzi, più un paio di inediti, pescati nella sua carriera solista dal 1992 in avanti. Un riassuntivo veloce e inevitabilmente sommario, che non dovrebbe certo sostituire una conoscenza accurata. Anche perché, in fondo, i diciassette anni trascorsi hanno generato solo quattro album: e quindi…
L’ascesa di Annie Lennox, del resto, comincia assai prima del suo esordio da sola. Comincia negli anni Ottanta con gli Eurythmics: le musiche accattivanti di Dave Stewart, che forse non sarebbero bastate; la sua presenza magnetica che sarebbe bastata eccome. Saranno anche canzoni efficaci, ma si trasformano innanzitutto in occasioni per fare cantare lei. Per farla esibire. Per poterla riprendere nei video mentre si muove, mentre lancia i suoi sguardi pieni di luce e di inquietudine. Inquietudine sotterranea. Luce lunare, che può brillare quanto vuole ma che non basta a dissipare del tutto le ombre della notte, che non riesce a far dimenticare completamente l’intrinseca vastità del buio, le minacce latenti dell’oscurità. Il canto come pretesto, benché onorato nel migliore dei modi. La musica come una colonna sonora dalla quale farsi avvolgere. Come una collezione di abiti da indossare in passerella. I mille travestimenti di scena per sedurre gli altri e, magari, un po’ anche se stessa. Tutto era contorno e la star restava lei. Ed è di lei che ti ricordavi.
E poi gli anni Novanta. L’apoteosi da sola, tanto per togliere ogni dubbio a chi ancora ne avesse. Nel 1992 Diva. Nel 1995 Medusa. Album da milioni di copie. Exploit internazionali che la portano al primo posto in Gran Bretagna, nella Top Ten in Australia, ad alta quota negli Usa. È fatta, come si dice. Annie Lennox, nata ad Aberdeen il 25 dicembre 1954, ha raggiunto la consacrazione definitiva. Coi suoi pro e i suoi contro. L’alone della fama che ti esalta. L’alone della fama che ti distorce. Dici una cosa e ne capiscono un’altra. Oppure capiscono bene, ma capiscono anche che è meglio far finta di aver capito male. L’idea di “notizia”, specie per i tabloid inglesi, è tutt’altro che oggettiva. A maggio del 1995 viene fuori che lei avrebbe deciso di farla finita coi concerti. «A questo punto della mia esistenza posso davvero dire di avere raggiunto quella maturità che mi consente di comprendere che vivere è meglio che andare in tournée». Davvero? Ma figurati. La smentita è perentoria: «Mai pensato di ritirarmi dalle scene. Hanno distorto il mio pensiero, manipolando un' intervista che avevo concesso a un giornale americano. Vero è che ho rallentato i miei ritmi di lavoro: sono madre di due bambine... ».
Notizia falsa, dunque. Ma senza volerlo è una sorta di presagio. Il “rallentamento dei ritmi” si tradurrà in otto anni di assenza dal mercato discografico. E in una profonda revisione del proprio atteggiamento creativo. Nonché, inevitabilmente, della propria immagine pubblica. Quando finalmente viene pubblicato il nuovo album, nel 2003, Annie Lennox si presenta in una veste che è agli antipodi di quella di un tempo. Medusa era una raccolta di cover. Una messa in scena sfarzosa. Una sarabanda di travestimenti non sempre azzeccati. Bare, che significa appunto Nuda, è l’esatto contrario. La franchezza come conquista. La confessione come riscatto. La semplicità come antidoto alla menzogna, o anche solo all’equivoco. L’avevamo lasciata nel fulgore della sua bellezza altera. Nella foto di copertina la ritroviamo nella modestia, quasi dimessa, di una donna adulta e segnata dagli anni. Segnata dall’esistenza. Il viso, coraggiosamente ritratto in piena luce, è pallido e tirato. Non puoi definirla brutta. Non vuoi definirla triste. Passi in rassegna altri termini – pensosa, provata, disillusa – e ti ci vuole un po’ per capire che lei dev’essersi stancata proprio di questo. Della prevalenza, o del predominio, degli aggettivi. Uno per ogni impressione. Uno per ogni seduzione, tentata o (ancora peggio?) riuscita. Gioielli così facili da mettere e così difficili da togliere. Strano: la chiusura deve essersi bloccata; eppure, quando era scattata, aveva prodotto solo un clic leggerissimo, quasi inavvertibile.
Annie Lennox a un passo dai cinquant’anni. La donna che rieduca l’artista. L’artista che si libera dell’icona. E che tira fuori un album di assoluta sincerità. Pieno di convinzione nella forza della musica: una forza che non ha più bisogno di pensarsi anche, o soprattutto, come un potere da far valere nei confronti degli altri. La musica che riflette l’energia di chi la fa e non si limita a conservarla ma la moltiplica. Magia buona e alla luce del sole. Tenebre da attraversare al solo scopo di arrivare in salvo. Tenebre che sono già alle spalle, e che si possono rievocare senza troppa ansia.
The Annie Lennox Collection, questa sua prima antologia che qui in Italia esce addirittura in anticipo rispetto ai Paesi di lingua inglese (complice il passaggio, intrinsecamente bellissimo, all’ultimo Sanremo, intrinsecamente bruttissimo), mischia il prima e il dopo in una coesistenza piacevole ma per forza di cose eterogenea. Dodici pezzi, più un paio di inediti, pescati nella sua carriera solista dal 1992 in avanti. Un riassuntivo veloce e inevitabilmente sommario, che non dovrebbe certo sostituire una conoscenza accurata. Anche perché, in fondo, i diciassette anni trascorsi hanno generato solo quattro album: e quindi…
L’ascesa di Annie Lennox, del resto, comincia assai prima del suo esordio da sola. Comincia negli anni Ottanta con gli Eurythmics: le musiche accattivanti di Dave Stewart, che forse non sarebbero bastate; la sua presenza magnetica che sarebbe bastata eccome. Saranno anche canzoni efficaci, ma si trasformano innanzitutto in occasioni per fare cantare lei. Per farla esibire. Per poterla riprendere nei video mentre si muove, mentre lancia i suoi sguardi pieni di luce e di inquietudine. Inquietudine sotterranea. Luce lunare, che può brillare quanto vuole ma che non basta a dissipare del tutto le ombre della notte, che non riesce a far dimenticare completamente l’intrinseca vastità del buio, le minacce latenti dell’oscurità. Il canto come pretesto, benché onorato nel migliore dei modi. La musica come una colonna sonora dalla quale farsi avvolgere. Come una collezione di abiti da indossare in passerella. I mille travestimenti di scena per sedurre gli altri e, magari, un po’ anche se stessa. Tutto era contorno e la star restava lei. Ed è di lei che ti ricordavi.
E poi gli anni Novanta. L’apoteosi da sola, tanto per togliere ogni dubbio a chi ancora ne avesse. Nel 1992 Diva. Nel 1995 Medusa. Album da milioni di copie. Exploit internazionali che la portano al primo posto in Gran Bretagna, nella Top Ten in Australia, ad alta quota negli Usa. È fatta, come si dice. Annie Lennox, nata ad Aberdeen il 25 dicembre 1954, ha raggiunto la consacrazione definitiva. Coi suoi pro e i suoi contro. L’alone della fama che ti esalta. L’alone della fama che ti distorce. Dici una cosa e ne capiscono un’altra. Oppure capiscono bene, ma capiscono anche che è meglio far finta di aver capito male. L’idea di “notizia”, specie per i tabloid inglesi, è tutt’altro che oggettiva. A maggio del 1995 viene fuori che lei avrebbe deciso di farla finita coi concerti. «A questo punto della mia esistenza posso davvero dire di avere raggiunto quella maturità che mi consente di comprendere che vivere è meglio che andare in tournée». Davvero? Ma figurati. La smentita è perentoria: «Mai pensato di ritirarmi dalle scene. Hanno distorto il mio pensiero, manipolando un' intervista che avevo concesso a un giornale americano. Vero è che ho rallentato i miei ritmi di lavoro: sono madre di due bambine... ».
Notizia falsa, dunque. Ma senza volerlo è una sorta di presagio. Il “rallentamento dei ritmi” si tradurrà in otto anni di assenza dal mercato discografico. E in una profonda revisione del proprio atteggiamento creativo. Nonché, inevitabilmente, della propria immagine pubblica. Quando finalmente viene pubblicato il nuovo album, nel 2003, Annie Lennox si presenta in una veste che è agli antipodi di quella di un tempo. Medusa era una raccolta di cover. Una messa in scena sfarzosa. Una sarabanda di travestimenti non sempre azzeccati. Bare, che significa appunto Nuda, è l’esatto contrario. La franchezza come conquista. La confessione come riscatto. La semplicità come antidoto alla menzogna, o anche solo all’equivoco. L’avevamo lasciata nel fulgore della sua bellezza altera. Nella foto di copertina la ritroviamo nella modestia, quasi dimessa, di una donna adulta e segnata dagli anni. Segnata dall’esistenza. Il viso, coraggiosamente ritratto in piena luce, è pallido e tirato. Non puoi definirla brutta. Non vuoi definirla triste. Passi in rassegna altri termini – pensosa, provata, disillusa – e ti ci vuole un po’ per capire che lei dev’essersi stancata proprio di questo. Della prevalenza, o del predominio, degli aggettivi. Uno per ogni impressione. Uno per ogni seduzione, tentata o (ancora peggio?) riuscita. Gioielli così facili da mettere e così difficili da togliere. Strano: la chiusura deve essersi bloccata; eppure, quando era scattata, aveva prodotto solo un clic leggerissimo, quasi inavvertibile.
Annie Lennox a un passo dai cinquant’anni. La donna che rieduca l’artista. L’artista che si libera dell’icona. E che tira fuori un album di assoluta sincerità. Pieno di convinzione nella forza della musica: una forza che non ha più bisogno di pensarsi anche, o soprattutto, come un potere da far valere nei confronti degli altri. La musica che riflette l’energia di chi la fa e non si limita a conservarla ma la moltiplica. Magia buona e alla luce del sole. Tenebre da attraversare al solo scopo di arrivare in salvo. Tenebre che sono già alle spalle, e che si possono rievocare senza troppa ansia.
La nuova Annie Lennox è questa. E pazienza, se le vendite di Bare risulteranno nettamente inferiori a quelle di Diva e di Medusa. E se poi, quattro anni dopo, anche il successivo Songs of Mass Destruction si manterrà più o meno allo stesso livello. Le cifre, nei bilanci dell’arte e dell’esistenza, contano relativamente. Il camerino della nuova Annie Lennox è diventato essenziale: quel minimo di cosmetici che non si possono evitare, e che non vanno confusi coi trucchi, e al posto dei mille vestiti, e dei mille accessori, il solido supporto di qualche pagina da leggere o di qualche foglio da scrivere. Gli Anni Ottanta a distanza di sicurezza: a modo loro belli, eccitanti, piacevoli da ricordare di tanto in tanto, ma archiviati per sempre.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
1 commento:
passo per salutarti sul blog come non facevo d atempo, ora che son rientrato anche sul mio...
un abbraccio e a presto, GB
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