Dal Secolo d'Italia di venerdì 13 marzo 2009
Tra i centenari letterari di questo 2009 ce n’è indubbiamente uno di cui, con molta probabilità, i giornali non scriveranno più di tanto. Ed è quello di Robert Brasillach, poeta e narratore francese di cui, comunque, la casa editrice Settecolori di Manuel Grillo manda in questi giorni in libreria la ristampa del romanzo La ruota del tempo (pp. 242, euro 18,00) e annuncia la costituzione di un comitato scientifico e accademico per un grande convegno dedicato allo scrittore entro l’autunno. E perché non ricordare che Giorgio Almirante, di cui si tanto si parla in questi giorni, pubblicò nel 1979, esattamente trent’anni fa, un libro dedicato proprio a Brasillach? In Francia giunge ora anche in edizione tascabile, alla sua ventesima ristampa, una delle ultime fatiche dello scrittore: un’antologia della poesia greca, utilizzata dagli studenti dei licei. E si tratta solo di qualche elemento per introdurre il ruolo svolto dal poeta, narratore, drammaturgo e critico nato a Perpignan il 31 marzo del 1909 e morto, condannato a morte per collaborazionismo, a soli trentasei anni.
Il 6 febbraio 1945, infatti, ad appena tre mesi dalla vittoria degli alleati in Europa, Robert Brasillach veniva condannato a morte dal governo della Liberazione francese. «Solo un mese dopo, il 15 marzo successivo, un altro grande scrittore francese, Pierre Drieu La Rochelle, si suicida a Parigi dopo aver riposto in libreria le Upanishad. E per capire il loro specifico destino vale una confessione dello stesso Drieu: «La funzione degli intellettuali, o almeno di un certo tipo di intellettuali, è di andare al di là dell’avvenimento, di tentare cammini rischiosi, di percorrere tutte le strade possibili della storia. Niente di grave se sbagliano. Hanno compiuto una missione necessaria, quella di andare dove non c’è nessuno». Parole che sintetizzano, meglio di qualsiasi interpretazione ex post, il senso del percorso di tutta una generazione, proprio quella descritta e celebrata da Brasillach nei suoi libri. Uno storico come Jean-Louis Loubet Del Bayle cercando, nei primi anni ’70, di rievocare quella temperie in Francia titolò infatti un suo importante saggio I non conformisti degli anni Trenta, presentandolo come il «diario di una generazione». Che era, nei fatti, la seconda generazione di “contestatori” del ’900, i francesi che avevano 25 anni nel 1930: Robert Aron, Robert Brasillach, Daniel Rops, Jean Lacroix, René Daumal, Alexandre Marc, Thierry Maulnier, Emmanuel Mounier, Denis de Rougemont e qualcun altro poco più grande d’età, come Drieu, Céline, Abel Bonnard, Alphonse de Chateaubriant, Lucien Rebatet… Benché di origini sociali, culturali e religiose diverse, essi, per solidarietà di generazione, collaborarono alle stesse riviste, parlarono lo stesso linguaggio e sognarono insieme di rinnovare e cambiare la Francia e l’Europa del loro tempo… Erano a tutti gli effetti figli del ’900, il secolo incandescente, il secolo delle avanguardie storiche, il secolo della “conquista delle stelle” per dirla col primo suo interprete, Filippo Tommaso Marinetti.
In Italia, fino al secondo dopoguerra, di Brasillach non si seppe più di tanto. Sappiamo solo che Moravia nel ’41 fece pubblicare un suo racconto (“Morte improvvisa”, del ’35) sulla rivista francese Je suis partout che era diretta proprio dal giovane intellettuale francese. Da noi, in realtà, solo nel maggio 1961, grazie al coraggio di un editore non-conformista e di area socialista-libertaria come Massimo Pini, arriva nelle librerie Romanticismo fascista di Paul Sérant, con cui per la prima volta veniva portata alla diretta conoscenza nel nostro contesto culturale quell’importante movimento generazionale, poetico, letterario, culturale, sociale e politico. Le 350 pagine di quel saggio – ripubblicato poi nel 1971 dalle Edizioni del Borghese curate da Claudio Quarantotto – provocheranno curiosità, traduzioni, approfondimenti. E il primo interprete sarà Giano Accame con il suo saggio “Contraddizioni di un romanticismo a destra” che solleciterà anche una lunga e articolata risposta dello stesso Sérant. Solo da allora Robert Brasillach (con Drieu la Rochelle) entra nell’immaginario dei giovani non-conformisti italiani degli anni ’60. E arrivano le prime traduzioni di quegli scrittori ”maledetti”: splendida quella di Luciano Bianciardi del Gilles di Drieu, sempre del 1961, e poi quella – sempre di un racconto lungo di Drieu – di Fuoco fatuo, da cui qualche anno dopo Louis Malle trarrà anche un bel film. Di qualche anno successiva la pubblicazione in Italia dei primi testi di Robert Brasillach, dovuti soprattutto al lavoro di Adriano Romualdi.
È del 1964 la pubblicazione di Lettera a un soldato della classe ’40, curato dalle edizioni “Caravelle”, con un lungo saggio introduttivo dello stesso Romualdi. Era un testo coinvolgente, un diario dal carcere, in cui Brasillach iniziava con «caro ragazzo», rivolgendosi ai giovani della generazione successiva alla sua e si concludeva così: «Tu che mi leggerai, e che vivrai in un mondo diverso, avrai fatto la tua, scelta, e guarderai le nostre disgrazie, contemporanee alla tua infanzia, con la stessa obiettività storica che noi abbiamo avuto per la prima grande guerra del secolo. Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza».
Sei anni dopo arriva la prima pubblicazione italiana, de I poemi di Fresnes, quindi la riproposizione della Lettera per i tipi della casa editrice Volpe e, soltanto dopo, gli altri testi, soprattutto I sette colori, il romanzo che rappresenta il manifesto estetico-esistenziale di tutta quella generazione. Negli anni successivi dell’opera di Drieu si approprierà la grande editoria: tutti i suoi romanzi e i suoi racconti, sino ai suoi diari, verranno pubblicati con successo: da Guanda, da Sugar, dal Mulino… Per Brasillach, invece, ci sarà sempre una certa qual ritrosia… Perché? Ce lo spiegava, già nel 1965, proprio Giano Accame: «Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità. Confesso: non riesco a leggerlo senza un senso di disagio; solo i suoi scritti dal carcere mi risultano sopportabili. Il suo ottimismo, la sua gioia di vivere oggi sono irritanti per le ragioni su cui si fondavano». Scriveva ancora Accame: «Con un po’ di vergogna al fondo di noi stessi ci ritroviamo adesso con lo spettro di Robert Brasillach, illuminato ancora con pallida luce dai nostri sorrisi incoscienti, dai nostri giuramenti mancati, dalle nostre canzoni, dai nostri fez neri con il fiocco…».
Sta forse anche in questa confessione di Giano Accame la chiave della “rimozione” di Brasillach da un certo ambiente il quale, per anni, del “romanticismo fascista”, ha apprezzato soltanto la dimensione tragica e l’eroismo della fine… Tardi, troppo tardi, abbiamo infatti riscoperto I sette colori, Il nostro anteguerra e La ruota del tempo. Brasillach, il poeta morto giovane, è stato soprattutto il cantore della giovinezza, della bellezza, della modernità con l’anima, della speranza, del cambiamento, dell’ottimismo… Ha scritto Stenio Solinas: «Brasillach sta a Stendhal così come Flaubert sta a Céline. Per i primi la vita vale la pena d’essere vissuta, per i secondi l’orrore e la stupidità che ne sono alla base fanno sì che essa non meriti altro che la sua descrizione, come un biologo che osservi al microscopio una coltura di batteri». E aggiunge: «Il grande equivoco sul quale poggia il giudizio, ideologico più che critico, nei confronti di Brasillach è quello di non perdonargli proprio questo atteggiamento di fronte alla vita». È vero: l’ambiente degli “sconfitti” ha sempre preferito il martire allo scrittore, il santino al “non conformista degli anni Trenta”.
Una certa deriva da “nobiltà della sconfitta” è stata, per troppi anni, un pessimo servizio al valore di tutti questi scrittori, ma anche – come ha rilevato ancora Solinas – «un pessimo servizio nei confronti del tempo in cui si è chiamati ad agire». Robert Brasillach, per dirne una, è stato invece un contestatore al servizio della vita. Era affascinato come pochi dalla magia della modernità: amava il jazz, il teatro, il cinema, i cartoni animati, le belle donne, la musica, i caffè, tutto ciò che era estetica. Niente di decadente, niente di recriminatorio, tanto meno nessuna tentazione conservatrice o passatista… Certe sottolineature – più neofasciste che fasciste, questo va detto – sul senso di una tradizione e di una visione della comunità in cui prevalgono il culto funerario, il ricordo dei morti, erano la cosa più lontana da lui. Il fascismo stesso gli apparve come la rivolta dei giovani contro la decadenza e la bruttezza. «La gravità – scriveva – non è tutto nell’esistenza, e persino assai meno importante della leggerezza». Leggerezza, che va ricordato sulla scorta della trasvalutazione dionisiaca avviata da Nietzsche, è qualcosa di prossimo alla musica e alla danza, tutto il contrario della superficialità e dell’inautenticità. Si legge in La ruota del tempo: «Noi viviamo in quell’eminente dignità del provvisorio che è così contraria alla concezione borghese della vita». Libertario, in fondo, non conformista, ribelle e vitalista, quasi anarchico. Gli piacerà negli ultimi tempi dell’occupazione tedesca la battuta di un ragazzo deluso dall’esito totalitario, oppressivo, moralistico e bigotto dei fascismi storici: «In fondo noi siamo degli anarco-fascisti». Una inclinazione che, a ben leggere, nella visione di Robert Brasillach è tutt’uno con l’essenza della giovinezza, il grande mito politico del migliore Novecento. Un mito politico che era il “fascismo” poetico di Brasillach, che lui così definiva: «Spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione». Allo stesso modo cerchiamo di non dimenticare che per Brasillach il cinema era l’invenzione più importante della sua epoca, e che tutto poteva giocarsi sulla bellezza e la speranza.
Oggi il rileggere Brasillach e gli altri autori del “romanticismo fascista” va compiuto declinando la capacità – per dirla con il filosofo Mario Tronti – di essere eredi allo stesso tempo della sconfitta delle rivoluzioni del Novecento ma anche dello spirito di quelle stesse rivoluzioni, estetiche, esistenziali e politiche. L’approccio migliore è quello formulato qualche anno fa dallo storico israeliano Zeev Sternhell: «Si può essere pieni di ammirazione per la vitalità della cultura fascista, per lo stesso senso di unità che il fascismo restituiva alla collettività, ma nello stesso tempo aborrire il totalitarismo, lo Stato poliziesco, il crimine politico. Non si è necessariamente candidati al posto di guardiani di campi di concentramento o di servi delle dittature se si riesce a percepire quello che i dissidenti degli anni Trenta ammiravano nello spirito del tempo e cioè l’antimaterialismo e la rivolta contro la concezione utilitaristica della società». È un percorso possibile per riscoprire le potenzialità libertarie e profondamente novecentesche degli scrittori fascisti. Per dirla metaforicamente: superare il fascismo reale con le potenzialità energetiche del fascismo immaginario, il «fascismo immenso e rosso» di cui parlava proprio Brasillach. Ed è – per usare le parole già citate di Drieu – forse proprio questo il compito intellettuale della nostra epoca: «Andare al di là dell’avvenimento, tentare cammini rischiosi, percorrere tutte le strade possibili». Niente di grave se emergeranno anche errori. Ma è l’unico modo per «andare dove non c’è nessuno».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
Di fronte all'oggi,ad un mondo del genere,allo scempio quotidiano di una mescolanza selvaggia,vedendo che la politica è asservita non per l'interesse individuale più scellerato,quella di B.non fu una esecuzione (con sentenza farsa),ma come lui stessò affermò,un Onore.
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