Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 12 aprile 2009
Uno strato sull’altro. Ma non come sedimenti geologici, che si accumulano lentamente e poi, a meno di un immane cataclisma, quello che c’è in cima resta in cima per sempre. No. Uno strato sull’altro come una pila di fogli in equilibrio precario, che basta un po’ di vento e li disperde, li confonde, li rimescola una, dieci, cento volte. Quello che stava sopra cade a terra. Quello che stava sotto riemerge.
Nel gennaio 1994 Kurt Cobain parla con David Fricke, il giornalista di Rolling Stone che lo incontra a Chicago dopo un concerto alla Aragon Ballroom («Lo spettacolo più di merda del tour», afferma Cobain; «È stato veramente pessimo», concorda Fricke), e gli dice «Io sono molto più felice di quanto molta gente pensi». L’otto aprile successivo lo trovano morto, ucciso da un colpo di fucile che, secondo la ricostruzione ufficiale degli inquirenti, si è sparato egli stesso tre giorni prima.
Primo strato: l’infanzia felice fino alla separazione dei genitori. Secondo strato: l’adolescenza turbolenta ad Aberdeen, «un paese di burini perdenti» situato nella Grays Harbor County dello Stato di Washington, all’estremità nordoccidentale degli Usa. Terzo strato: il trasferimento a Seattle e gli inizi da musicista, all’interno di quella scena alternativa che brulica di gruppi ancora semisconosciuti, dai Mudhoney ai Soundgarden ai Pearl Jam, ma che in seguito diventerà celebre sotto l’etichetta di “grunge”. Quarto strato: il successo travolgente di Nevermind, il secondo album dei Nirvana, uscito nel 1991 in una timida tiratura iniziale di 50mila copie ma destinato a diventare uno degli album più venduti della storia del rock. Quinto strato: il matrimonio con Courtney Love, il 24 febbraio 1992, e la nascita di loro figlia Frances, il 18 agosto dello stesso anno. Sesto strato...
Okay. È solo un riassunto. Un esempio. Uno schema. Una traccia per capire come, nella breve vita di Kurt Cobain, le situazioni esterne – e di riflesso, e soprattutto, quelle interiori – siano mutate spesso, in un’oscillazione vertiginosa tra sicurezza e frustrazione, tra rabbia e serenità, tra il desiderio di affermarsi e quello di lasciar perdere. Si spostano le cose, ti sposti anche tu. Non c’è una direzione prefissata, c’è solo il desiderio (il bisogno) di fare a modo tuo. Non perché tu abbia ragione in assoluto, qualsiasi cosa si intenda per “avere ragione”. Giusto perché non puoi farne a meno. E perché non c’è proprio nessuno di cui ti fidi fino in fondo. Nessuno al quale guardare come a una guida, in tutto questo caos arrogante e disperato che ti si muove attorno. Che ti si agita attorno.
Kurt Cobain scrive parecchio. Non letteratura. Più che altro annotazioni quotidiane a proprio uso e consumo, ma anche bozze di lettere di ogni sorta, ivi incluse quelle di lavoro. E testi di canzoni, naturalmente. Materiale privato che si dipana in modo frammentario e che si accumula, e talvolta si perde, nello stesso disordine. Un puzzle certamente incompleto – ma ugualmente utilissimo per capire cosa c’era dietro le parole cantate dai Nirvana – che verrà pubblicato nel 2002, con tanto di riproduzione delle pagine autografe, piene di cancellature e di correzioni, nonché di disegnini che di tanto in tanto smettono di essere bozzetti di contorno e diventano vere e proprie tavole, buone per un’illustrazione o per una strip. Il titolo, intuibile, è Journals. Mondadori lo ripropone quasi subito anche qui in Italia, per poi inserirlo a fine 2003 negli Oscar Bestsellers (Diari, pp. 285, € 12,00).
Kurt registra quello che gli passa per la testa. Ma si vede benissimo che anche i concetti, anche i giudizi, scaturiscono più da stati d’animo transitori che da ragionamenti consolidati. L’umore è instabile. I propositi intermittenti. Il desiderio di esprimersi lo accende. Il timore di non essere capito lo spegne. O lo fa vacillare. Quello che non gli piace negli altri lo predispone a reagire. Quello che non gli piace in se stesso lo precipita nell’insoddisfazione. È un’ambivalenza che conosce bene. Un’altalena su cui è salito già da ragazzino e dalla quale è stato lì lì per scendere nel modo peggiore. «Dato che stavo simpatico a tanta gente – scrive rievocando un brutto episodio della sua adolescenza, in cui si ritrovò accusato di aver indotto una ragazza ritardata, o presunta tale, a scopare con lui, anche se poi venne accertato che le cose non stavano così e che lei era maggiorenne e sufficientemente lucida, comunque, da capire quel che stava facendo – i miei sostenitori erano pari ai miei detrattori, ma non potevo sopportare il ridicolo a cui ero stato esposto, così un sabato sera fumai e mi sbronzai, dopo di che camminai fino ai binari della ferrovia e mi ci sdraiai sopra aspettando il treno delle 11, sistemandomi due grossi pezzi di cemento sulle gambe e sul petto e intanto il treno si avvicinava sempre di più. E invece di travolgermi passò accanto a me.»
Kobain scriveva parecchio. E accanto al suo cadavere, infatti, venne trovato un ultimo biglietto, che aveva tutta l’aria di un messaggio d’addio. «Io non provo più emozioni nell'ascoltare musica e nemmeno nel crearla nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. (...) Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%.» E via di questo passo. Scendendo rapidamente le scale di una delusione che risucchia tutto. Giù lungo il precipizio di una perplessità che diventa rifiuto. Che diventa una resa. «Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall'età di sette anni che sono avverso al genere umano. Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e il supporto che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo stravagante, lunatico, bambino! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.»
È solo dopo aver avuto quel che volevi, che capisci fino in fondo quanto sei solo.
Nel gennaio 1994 Kurt Cobain parla con David Fricke, il giornalista di Rolling Stone che lo incontra a Chicago dopo un concerto alla Aragon Ballroom («Lo spettacolo più di merda del tour», afferma Cobain; «È stato veramente pessimo», concorda Fricke), e gli dice «Io sono molto più felice di quanto molta gente pensi». L’otto aprile successivo lo trovano morto, ucciso da un colpo di fucile che, secondo la ricostruzione ufficiale degli inquirenti, si è sparato egli stesso tre giorni prima.
Primo strato: l’infanzia felice fino alla separazione dei genitori. Secondo strato: l’adolescenza turbolenta ad Aberdeen, «un paese di burini perdenti» situato nella Grays Harbor County dello Stato di Washington, all’estremità nordoccidentale degli Usa. Terzo strato: il trasferimento a Seattle e gli inizi da musicista, all’interno di quella scena alternativa che brulica di gruppi ancora semisconosciuti, dai Mudhoney ai Soundgarden ai Pearl Jam, ma che in seguito diventerà celebre sotto l’etichetta di “grunge”. Quarto strato: il successo travolgente di Nevermind, il secondo album dei Nirvana, uscito nel 1991 in una timida tiratura iniziale di 50mila copie ma destinato a diventare uno degli album più venduti della storia del rock. Quinto strato: il matrimonio con Courtney Love, il 24 febbraio 1992, e la nascita di loro figlia Frances, il 18 agosto dello stesso anno. Sesto strato...
Okay. È solo un riassunto. Un esempio. Uno schema. Una traccia per capire come, nella breve vita di Kurt Cobain, le situazioni esterne – e di riflesso, e soprattutto, quelle interiori – siano mutate spesso, in un’oscillazione vertiginosa tra sicurezza e frustrazione, tra rabbia e serenità, tra il desiderio di affermarsi e quello di lasciar perdere. Si spostano le cose, ti sposti anche tu. Non c’è una direzione prefissata, c’è solo il desiderio (il bisogno) di fare a modo tuo. Non perché tu abbia ragione in assoluto, qualsiasi cosa si intenda per “avere ragione”. Giusto perché non puoi farne a meno. E perché non c’è proprio nessuno di cui ti fidi fino in fondo. Nessuno al quale guardare come a una guida, in tutto questo caos arrogante e disperato che ti si muove attorno. Che ti si agita attorno.
Kurt Cobain scrive parecchio. Non letteratura. Più che altro annotazioni quotidiane a proprio uso e consumo, ma anche bozze di lettere di ogni sorta, ivi incluse quelle di lavoro. E testi di canzoni, naturalmente. Materiale privato che si dipana in modo frammentario e che si accumula, e talvolta si perde, nello stesso disordine. Un puzzle certamente incompleto – ma ugualmente utilissimo per capire cosa c’era dietro le parole cantate dai Nirvana – che verrà pubblicato nel 2002, con tanto di riproduzione delle pagine autografe, piene di cancellature e di correzioni, nonché di disegnini che di tanto in tanto smettono di essere bozzetti di contorno e diventano vere e proprie tavole, buone per un’illustrazione o per una strip. Il titolo, intuibile, è Journals. Mondadori lo ripropone quasi subito anche qui in Italia, per poi inserirlo a fine 2003 negli Oscar Bestsellers (Diari, pp. 285, € 12,00).
Kurt registra quello che gli passa per la testa. Ma si vede benissimo che anche i concetti, anche i giudizi, scaturiscono più da stati d’animo transitori che da ragionamenti consolidati. L’umore è instabile. I propositi intermittenti. Il desiderio di esprimersi lo accende. Il timore di non essere capito lo spegne. O lo fa vacillare. Quello che non gli piace negli altri lo predispone a reagire. Quello che non gli piace in se stesso lo precipita nell’insoddisfazione. È un’ambivalenza che conosce bene. Un’altalena su cui è salito già da ragazzino e dalla quale è stato lì lì per scendere nel modo peggiore. «Dato che stavo simpatico a tanta gente – scrive rievocando un brutto episodio della sua adolescenza, in cui si ritrovò accusato di aver indotto una ragazza ritardata, o presunta tale, a scopare con lui, anche se poi venne accertato che le cose non stavano così e che lei era maggiorenne e sufficientemente lucida, comunque, da capire quel che stava facendo – i miei sostenitori erano pari ai miei detrattori, ma non potevo sopportare il ridicolo a cui ero stato esposto, così un sabato sera fumai e mi sbronzai, dopo di che camminai fino ai binari della ferrovia e mi ci sdraiai sopra aspettando il treno delle 11, sistemandomi due grossi pezzi di cemento sulle gambe e sul petto e intanto il treno si avvicinava sempre di più. E invece di travolgermi passò accanto a me.»
Kobain scriveva parecchio. E accanto al suo cadavere, infatti, venne trovato un ultimo biglietto, che aveva tutta l’aria di un messaggio d’addio. «Io non provo più emozioni nell'ascoltare musica e nemmeno nel crearla nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. (...) Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%.» E via di questo passo. Scendendo rapidamente le scale di una delusione che risucchia tutto. Giù lungo il precipizio di una perplessità che diventa rifiuto. Che diventa una resa. «Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall'età di sette anni che sono avverso al genere umano. Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e il supporto che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo stravagante, lunatico, bambino! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.»
È solo dopo aver avuto quel che volevi, che capisci fino in fondo quanto sei solo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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