domenica 2 agosto 2009

Ecco le armi affilate (e mai spuntate) di Leonard Cohen (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 2 agosto 2009
Bisogna conquistarsela da giovani, la possibilità di essere ascoltati da vecchi. O almeno bisogna cominciare, prima che sia troppo tardi. Come? Vivendo intensamente. Colmando il proprio tempo ora di bollente sensualità e di travolgenti emozioni, ora di riflessioni acuminate, affilate a tal punto da diventare armi, pronte per essere impugnate di fronte all’avanzata, minacciosa, di qualsiasi terribile dubbio su di sé e sugli altri. Sulla vita stessa. Inabissandosi per accrescere la meraviglia dell’essere al mondo. Riaffiorando per ottenere di nuovo la sicurezza di una respirazione normale. Tutta quella voglia di andare là sotto. Tutto quel bisogno di tornare qui fuori. Domande pescate nelle profondità di quello che non puoi (e magari non vuoi) dominare. Risposte alle quali ancorarsi in vista di una nuova immersione.
“Suzanne ti accompagna al suo posto lungo il fiume / [...] Quando stai per dirle che non hai amore da darle / lei ti cattura sulla sua lunghezza d’onda / e lascia che sia il fiume a rispondere / che sei sempre stato il suo compagno / E allora vuoi partire con lei / e viaggiare alla cieca / Sai che lei ti darà fiducia / perché ti ha lasciato toccare con la mente / il suo corpo perfetto”. La prima forma di abbandono totale: l’amore. La seconda forma di abbandono totale: la religione. “Gesù era un marinaio / [...] Assai prima che il cielo si aprisse / incustodito e quasi uomo / affondò nel tuo senno come una pietra / Ma vuoi viaggiare con lui / vuoi partire alla cieca / e pensi che forse gli darai fiducia / perché ha toccato il tuo corpo perfetto / con la sua mente.”
La prima e la seconda strofa di Suzanne. Il pezzo di apertura dell’album con cui Leonard Cohen esordì nel 1967, a 33 anni. Un’età decisamente avanzata, per un cantautore: Dylan aveva cominciato coi long playing a 21 anni. Donovan, Tim Buckley e Cat Stevens tutti e tre a 19. Eppure, almeno per quanto riguarda la dimensione verbale, che in questo genere di composizioni è sempre stata così importante, Leonard Cohen era tutt’altro che un novellino: nel suo curriculum editoriale c’erano già quattro raccolte di poesie e due romanzi, più che sufficienti ad accreditarlo come un autore degno d’attenzione. La sua prosa era acuta. I suoi versi illuminanti. Non era un principiante che arrancava a forza di tentativi. Era un artista già maturo che continuava a crescere. E che poteva contare su un desiderio di conoscenza, nel senso meno accademico e astratto del termine, che lo spingeva a non fermarsi nemmeno come uomo. Innanzitutto, come uomo.
“Il mondo – si legge nel suo primo romanzo The Favourite Game, apparso nel 1963 – si lasciava beffare da una disciplinata malinconia. Tutti i bozzetti facevano dello struggimento una virtù. Tutto quello che occorreva per essere amati era solo pubblicare le proprie ansie. L’intera impresa artistica era solo una calcolata manifestazione di sofferenza.”
Una calcolata manifestazione di sofferenza. Calcolata da parte di chi la propone e calcolata da parte di chi la accetta, fino a celebrarla come il non plus ultra della sensibilità esistenziale ed artistica. L’arte che prevale sulla vita. L’arte che si compiace a ritrarre i difetti della vita reale. Che si gloria nel sottolineare tutto quello che gli uomini non sono (più) capaci di raggiungere. Nietzsche impazzisce, Proust immalinconisce. Nietzsche è del tutto pazzo. Proust è così sensibile.
L’arte è una trappola, se la si scambia per il fine ultimo della mente e del cuore. L’arte è sempre decadente se blandisce la diminuzione di vitalità e assolve il venir meno dell’azione in prima persona, cioè dell’esperienza diretta. Quell’esperienza diretta, insondabile nei suoi motivi, imprevedibile nei suoi esiti, che rifugge qualsiasi tattica come una vigliaccheria, e qualsiasi furbizia come una zavorra. L’arte, troppo spesso, non riflette nient’altro che il rimpianto di un’intensità perduta. Bene, se il rimpianto è il punto di arrivo di questa pigra e stolta passeggiatina sui marciapiedi della routine. Bene, se è il punto di partenza di una furiosa rincorsa sulle tracce del destino. Malissimo, invece, se il rimpianto si risolve in consolazione. In autoassoluzione. Se si lascia ingannare da tutti quei sentimenti declinati al passato, da tutte quelle qualità rievocate accuratamente, e accoratamente, come in un elogio funebre – e immeritato, per di più.
Leonard Cohen, che domani sera suonerà a Venezia in piazza San Marco, nell’unica data italiana del tour 2009, crede profondamente nelle proprie parole – e più in generale nella bellezza e nella forza del linguaggio – ma sa benissimo che bisogna evitare di sopravvalutarle. Pur senza abiurare all’ebraismo, e anzi rivendicandolo come una religione che lo ha sempre appagato, ha praticato a lungo il buddismo, risiedendo a più riprese nel californiano Mount Baldy Zen Center. «Ci sono meno riferimenti strettamente legati alla religiosità – spiegò nel 2001 commentando l’uscita di Ten New Songs – ma è normale perché più si studiano certe cose, più è difficile parlarne; il mio maestro non riusciva ad esprimersi molto bene in inglese per cui le nostre conversazioni erano ridotte all’essenziale, ci scambiavamo poche idee, nessun grande concetto, niente religione, eppure c’era un gran senso di pace, riuscivamo quasi a comunicare meglio senza parole: parlavano per noi i nostri sguardi, gli atteggiamenti dettati dall’interiorità».
Ma affrancarsi da un’esagerazione – quella del predominio dei concetti e delle parole come strumenti di conoscenza – non significa rinunciare alle attrattive di un utilizzo più equilibrato.
Le canzoni rimangono un rito importante, da condividere volentieri. Ad ogni nuovo concerto, col miscuglio di passione e di saggezza di chi non teme di immergersi e non ha fretta di risalire, Leonard Cohen tira fuori i suoi brani e maneggiandoli li accarezza. Il metallo di cui sono fatti torna a splendere. Quel metallo che a guardarlo da lontano brilla come se fosse nuovo di zecca, ma che appena ti avvicini, se hai il coraggio la pazienza l’empatia, ti mostra (ti rivela) una miriade di graffi preziosi e di scalfitture necessarie. Come è giusto per ogni arma, o utensile, o gioiello, che si sia portato con sé nelle battaglie, nel lavoro, negli amori di tutta una vita.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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