Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di sabato 5 settembre 2009
Al fondo c’è una intuizione che era già stata colta da Giorgio Gaber una quindicina d’anni fa. «L’appartenenza – spiegava il compianto cantautore – non è un insieme casuale di persone / non è il consenso a un’apparente aggregazione / l’appartenenza è avere gli altri dentro sé / Sarei certo di cambiare la mia vita / se potessi cominciare / a dire noi». Ecco, Walter Veltroni in questo suo ultimo bel romanzo si è spinto oltre, trasformando il pronome personale in prima persona plurale come metafora della memoria corale di una famiglia italiana del Novecento. La narrazione, una vera e propria saga in quattro stagioni e un periodo lungo ottantadue anni, riguarda infatti una famiglia italiana a partire dall’estate del 1943. Una tipica famiglia italiana nel corso di quattro generazioni nella quale un po’ tutti, per un aspetto e l’altro, possono riconoscersi e rispec chiarsi. Il romanzo di Veltroni – Noi, Rizzoli, pp. 352, euro 19,00 – ha oltretutto il merito di intrecciare e rievocare voci, destini, ricordi, avvenimenti, oggetti della quotidianità, canzoni, film, sentimenti e passioni che collocano immediatamente le vicende narrate all’interno dell’immaginario vissuto della maggioranza dei lettori. Si tratta di una vocazione e una sensibilità cui il nostro autore si è sempre attenuto sin dal suo libro del 1981 Il sogno degli anni Sessanta: «Ciò che mi preme – annotava quasi trent’anni fa – è cercare di restituire, intatta, la misura reale dei capovolgimenti storici del nostro passato e della loro portata nei comportamenti, nella coscienza, negli orientamenti diffusi di più generazioni e di una intera società. E poi fuori da ogni iconografia dolciastra e idilliaca, restituire alla nostra memoria la sensazione di liberazione e di sviluppo di quegli anni. Ciò che manca è il paese reale, la gente in carne e ossa. Procedendo per grandi sintesi, per nuvole di grandi idee, di analisi e di saggi si è persa la dimensione minuta, ma essenziale, della vita degli uomini, delle loro storie, dei loro problemi. Le storie individuali, i racconti, le testimonianze delle emozioni e delle impressioni ci possono consentire di cogliere meglio, perché fuori dagli schemi rigidi dell’interpretazione “dotta” o ideologica, cosa è avvenuto nel nostro passato. Ciò che è difficile teorizzare è meglio raccontare». Su questa sensibilità Veltroni ha modulato tutto il suo itinerario politico, culturale e di scrittura. E gliene va dato pienamente atto. Non è un caso che da giornalista e da direttore de l’Unità abbia impresso una spinta in direzione di una cultura popolare condivisa e postideologica, che politicamente sia stato protagonista insieme a Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini della scelta di portare Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica, determinando di fatto un clima condiviso di ritrovata unità nazionale, e che, infine, con la volontà di far nascere e guidare nella sua fase genetica il Partito democratico ha svolto – al di là e oltre gli stessi esiti immediati – un ruolo “storico” nel tentativo di chiudere l’eterna guerra civile italiana e di inaugurare uno svolta dialogica per la nostra democrazia. Un filo rosso che viene sottolineato in due citazioni che fungono da epigrafi introduttive di questo suo nuovo romanzo. La prima, è una frase di Hannah Arendt: «Anche nei tempi più oscuri – scriveva nel ’68 l’allieva di Heidegger – abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che essa ci giungerà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante e spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze». La seconda è invece la traduzione di un popolare proverbio arabomusulmano: «Quando vai ad arare, se vuoi fare il solco diritto, punta l’aratro verso la stella». Noi è, come dicevamo, la storia condivisa di una famiglia italiana che percorre quasi tutto il Novecento e arriva con una proiezione nel futuro sino agli anni Venti del Duemila. Il capostipite, Alfredo Noi, è dal 1933 il maggiordomo di un ministro e gerarca mussoliniano, e anche lui è stato per anni, almeno sino al 25 luglio, «fascista sincero e convinto ». In fondo, quell’Italia era apparsa a lui e alla maggioranza degli italiani negli anni del consenso, come il migliore dei mondi possibili: «C’era un’aria di festa permanente, una specie di primavera. Fuori nascevano strade nuove, palazzi nuovi, industrie nuove. Tutto sembrava nuovo. E perfetto. Il popolo si sentiva riscattato. la borghesia era entusiasta di se stessa. Roma era dolce...». Alfredo, del resto, aveva un innato alto senso delle istituzioni, delle leggi, del diritto, dell’onestà, dell’etica: «Per lui il fascismo era questo: una rivoluzione – leggiamo nel romanzo – del popolo contro il vecchio Stato corrotto e inefficiente. Un nuovo ordine che doveva garantire a tutti la possibilità di mangiare e di lavorare, rispettando le leggi e i principi morali». Poi, però, nell’estate del ’43 tutto precipita. La guerra, i bombardamenti, le sirene, i rifugi, la delusione della gente e degli stessi gerarchi. E Giovanni, il figlio quattordicenne di Alfredo che si diverte a girare Roma in pebicicletta e a fissare sul suo album da disegno quello che vede, assiste al bombardamento di San Lorenzo, alla distruzione del quartiere in cui viveva un suo amico. Qualche giorno dopo, alla radio, l’annuncio dell’armistizio, la fine del fascismo. «Ora – confessa preocupato papà Alfredo – verrà il tempo delle vendette... Vedrai quanti cambieranno casacca e diranno il contrario di quello che dicevano fino al cicalino di quella maledetta radio». Giovanni se ne rende subito conto: «Nella piazza sembrava esserci più odio che festa, più urli che risate. Passando vide un giovane che inveiva contro Mussolini e ne calpestava il ritratto. Era paonazzo e portava sulla fotografia e sui vetri rotti della cornice». E, immediatemente, il ragazzo si ricordò di averlo già visto: assomigliava al loro istruttore delle adunate del sabato fascista, oltretutto era il più severo nei confronti di chi non faceva bene il saluto al duce. Ma per la famiglia Noi inizia un periodo non felice. Alfredo perde il lavoro, deve accontentarsi di andare con i suoi due figli maggiori a scaricare ai mercati generali. Poi la notizia della fuga di Badoglio e del re e i tedeschi che occupano Roma. E in queste ore tragiche Giovanni e la sua famiglia esprimono la loro solidarietà prima nei confronti di un bambino che era rimasto solo dopo il bombardamento poi nei confronti di Giuditta, una ragazzina ebrea accolta in casa dopo il rastrellamento del ghetto. La storia va avanti e ci ci ritrova nel secondo capitolo, nel quale Andrea, il tredicenne figlio di Giovanni, attraversa con il padre, su un Maggiolino Volkswagen decappottabile l’Italia del boom. Sono gli anni del Corriere dei Piccoli come bibbia dei ragazzi, della Kodak Instamatic, del ghiacciolo Arcobaleno, dell’aranciata San Pellegrino, del mangiadischi, di Edorado Vianello e Rita Pavone, del maestro Manzi che insegna a leggere attraverso la televisione anche ai braccianti e agli operai, dell’autostrada del Sole che sta davvero unificando la nazione... «Erano passati in quei giorni quindici anni dalla fine della guerra e ormai sui fascisti si facevano dei film comini come Il Federale con Ugo Tognazzi. Anche così – spiega l’io narrante – si usciva dalla guerra e dall’odio ». E si arriva al terzo capitolo, l’autunno del 1980. Sono passati gli anni Settanta e Andrea, reduce delle battaglie studentesche, fa il giornalista radiofonico e sta in crisi con la moglie, Monica. E scopre che suo fratello, Alberto Noi, lo zio che tanto diverte suo figlio Luca è un terrorista, la sua voce al telefono rivendica l’omicidio di un dirigente della Falck. Una vera crisi di coscienza per Andrea, dieci anni di carcere per Alberto. E anche queste sono vicende che una famiglia italiana può aver attraversato o sfiorato Il romanzo si conclude con le sensazioni di Nina, la nipote di Giovanni, adolescente nell’anno 2025. Che ama rivedere un filmato in cui la sua famiglia si era riunita per festeggiare nel 2000 l’inizio del nuovo millennio. «Nina amava sentire dentro di sé il segno di quel lungo cammino. La società sembrava organizzata per far vivere tutti in un presente senza ieri. Coltivare la memoria era fuori moda, era qualcosa del secolo scorso, era una inutile concessione ai sentimenti». Ed è su questa nostalgia di futuro, su questo appello alla memoria che si conclude il suo romanzo. Convincendoci che c’è anche un aspetto positivo nel fatto che l’autore abbia lasciato la guida del Pd. In un panorama di politici senza professione, Veltroni dimostra intanto di essere un buon giornalista e uno scrittore di qualità. E i libri, a nostro giudizio, restano e incidono più di tanto politichese.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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