martedì 8 settembre 2009

La musica sale in vetta per ritrovare il senso profondo dell'arte (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 6 settembre 2009
L’uomo che cammina sul sentiero ha un bagaglio decisamente insolito. E voluminoso. Gli escursionisti che lo accompagnano portano gli zaini che è normale aspettarsi su queste montagne. Lui no. Lui ha sulle spalle, e se ne riconosce al colpo d’occhio la sagoma nonostante la custodia protettiva che lo avvolge completamente, un... violoncello. Per essere precisi (anche se questo non è dato saperlo osservandolo ora, mentre procede incolonnato con gli altri) un prezioso Maggini del Seicento.
L’uomo si chiama Mario Brunello. E sta facendo ciò che fa abitualmente in luglio o in agosto: sta partecipando a quella splendida manifestazione, intitolata “I suoni delle Dolomiti”, che si svolge a partire dal 1994 e che, come ricorda la direttrice artistica Chiara Bassetti, «invita gli appassionati di musica ad avvicinarsi all’escursionismo, oppure gli escursionisti ed alpinisti ad ampliare la conoscenza di quei “suoni” che, da quindici edizioni, ogni estate si possono ascoltare sulle Dolomiti del Trentino». Non solo un festival, dunque: non solo una rassegna di artisti più o meno celebri che si esibiscono in un contesto particolare, insolito e bellissimo, come questo. L’idea è un’altra, per fortuna. L’idea è ripensare il modo in cui ci si accosta alla musica – e più in generale a qualsiasi forma espressiva appartenente a quello che si definisce “il mondo dello spettacolo” – proiettandosi al di là delle modalità con cui lo si fa di solito. Come ha detto lo stesso Brunello nel 1998, subito prima di cominciare un’esecuzione di Bach, «Mi piacerebbe che l’ascolto della musica in questi ambienti non fosse solo suggestione, che non è quello che cerco. La cosa più interessante è che i musicisti e i fruitori hanno vissuto un’esperienza comune, che si può riassumere con l’amore per la montagna».
Spettacolo viene dal latino “spectare”, guardare. La regola è che l’artista appare sulla scena e che il pubblico si è pagato il diritto di entrare in contatto con lui per la sola durata dell’esibizione. Le loro vite non dividono né il prima né il dopo. Non approdano a questo momento così importante – che nei casi migliori diventa rito e magia, nel suo dare accesso a percezioni che trascendono l’ordinario – attraverso una preparazione condivisa. Il passaggio dalla piattezza della vita quotidiana alle emozioni potenti dell’arte è improvviso. La distanza non viene colmata stabilmente. Non viene neppure diminuita. Quell’isola galleggiante e incantevole su cui ci si è affacciati grazie all’artista-sciamano rimane lontanissima dalla costa su cui si vive (su cui si è costretti a vivere) per il resto del tempo. Rimane irraggiungibile, una volta che si sia tornati sulla terraferma della routine.
Non è giusto. Non è intelligente. Non è armonioso. Un conto è che l’incontro con l’arte sia il punto più alto in una successione di stati d’animo che è comunque ricca di salite, e talvolta di impennate, verso il meglio della nostra sensibilità. Ben altro è che si stagli, meravigliosa per un verso, inquietante per l’altro, come un totem isolato nel deserto delle abitudini. Quando Brunello contrappone la semplice suggestione, che non insegue e che gli appare riduttiva, a un’esperienza comune, che offre e che si augura di ottenere, coglie perfettamente la differenza tra l’arte come exploit a sé stante e l’arte come zenit di una traiettoria. Giungere in cima è importante, e il panorama che si vede tutt’intorno è comunque grandioso, ma lo è ancora di più il modo in cui ci si arriva. Se ti limiti a pagare il biglietto d’ingresso allo show è come se fossi arrivato in vetta a bordo di una cabinovia. Non hai rubato nulla. Ma non hai neppure guadagnato niente. Se salivi a piedi il trasporto diventava viaggio. Se fossi salito a piedi avresti visto, avresti sperimentato, che dentro di te si verificavano dei cambiamenti progressivi. Come un assestamento. Come una pulizia.
“I suoni delle Dolomiti” gode di uno scenario irripetibile, ma ciascuna delle sue lezioni si può trasferire altrove con la stessa efficacia. E con analoga bellezza. La chiave di volta è superare, almeno di tanto in tanto, la frammentazione schizofrenica delle nostre vite. Aggressivi e cinici sul lavoro, commossi e sognanti di fronte a un film o a una canzone. Reciprocamente estranei nelle nostre città troppo grandi (e persino nei centri più piccoli, sempre più simili a spezzoni di periferia trapiantati a decine di chilometri dalle metropoli) e di colpo vicini, solidali, quasi fraterni, sulle gradinate del palasport in cui canta la star preferita o dello stadio in cui gioca la squadra del cuore.
Siamo dottor Jekyll e mister Hyde. Ancora peggio: siamo mister Hyde per la maggior parte del tempo e solo a volte, grazie all’artista-taumaturgo o a qualche altro genere di guaritore (o di illusionista), ridiventiamo quel galantuomo del dottor Jeyill. E lo stesso, in realtà, vale per i nostri “eroi” della musica, del cinema, dello sport. Sul versante economico sono famelici come i pescecani di Wall Street, poi si accendono le luci della ribalta e si trasformano, una tantum, in incarnazioni del Bello e del Buono. Ringraziano e si inchinano. Inebriati dagli applausi. Euforizzati dagli incassi.
“I suoni delle Dolomiti” è ad accesso libero. Ti va di venire, vieni. Tranne che nel caso dei trekking, che si snodano per più giorni e che comportano, perciò, i costi di vitto e di alloggio, per il resto non si paga nulla. Certo: è una promozione del territorio, e quindi del turismo, e gli oneri economici e organizzativi se li assumono gli enti locali. Chiaro: non tutto si può realizzare nella stessa maniera, cioè nella gratuità assoluta. Ma è l’approccio, che conta. È l’approccio, che cambia. Lo scopo non è riunire una folla per il tempo di uno show e poi levarsela di torno al più presto. L’obiettivo, la speranza, è ritrovarsi insieme e rispecchiarsi vicendevolmente nella stessa ricerca di bellezza, di pace, di armonia. Il bisogno di trovarle. La capacità di riconoscerle. E di benedirle con uno sguardo o con un sorriso, con una parola o con un silenzio.
Tutti a piedi, in senso letterale e metaforico. Niente limousine, sulle strade e sui sentieri di montagna. Solo persone, artisti e no, che camminano fianco a fianco per ritrovarsi un po’ più in alto del loro punto di partenza.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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