Dal Secolo d'Italia di sabato 26 settembre 2009
No, la vita non è facile come «un reality show». E guai a lasciarsi sedurre dalle scorciatoie. «Qualche successo effimero si può anche ottenere per caso, con compromessi o con l’inganno. Ma solo il duro lavoro dà risultati duraturi». Bisogna faticare: studiare, studiare, studiare. Napolitano cita Obama nel discorso tenuto ieri nel cortile del Quirinale in occasione dell’apertura dell’anno scolastico. «Capisco che questo richiamo all’impegno, al dovere, ai valori ideali e morali, possa suonare fastidioso, predicatorio – ha detto il Capo dello Stato – ma è un richiamo che vale non solo per voi ma per tutti e in particolare a ciascuno di noi che rappresenta le istituzioni della Repubblica».
Esempi, quelli offerti dal mondo politico e non solo – ça va sans dire – spesso tutt’altro che edificanti. Di fronte ai quali il compito della scuola appare ogni giorno più arduo. «L’immaginario che la scuola prova a costruire è una gondoletta di fronte a una portaerei», chiosa Marco Lodoli, scrittore ma anche, da trent’anni, professore in trincea nella periferia romana. Controcorrente, meglio: controvento. «Pubblicitari, creativi, uomini del marketing, belle ragazze in mutande, politici, televisioni, tutti a soffiare a pieni polmoni sulle vele del desiderio e del consumismo più sfrenato, perché è da lì che vengono i soldi e il benessere». Una portaerei che viaggia spavalda e indifferente ai mille problemi della scuola, all’ormai quotidiano tentativo di delegittimazione dell’intera classe insegnante, rappresentata a mo’ di braccio intellettuale delle oligarchie – sic! – e composta da sovversivi o, nella migliore delle ipotesi, da fannulloni. Ex sessantottini, tutti e senza eccezioni, se non altro per vizio anagrafico. Sì, perché se la scuola non funziona – c’è chi sostiene con una sconcertante superficialità – la colpa è del ’68. Imperdonabili quei ragazzi che, più di quarant’anni fa, chiesero di spazzare via un po’ di polvere da programmi ottocenteschi per lasciare entrare nella scuola quel che di vivo e buono si muoveva nello spirito del tempo: nuovi autori, musiche e tendenze.
A raccontare come si è trasformata la scuola, e soprattutto come il venir meno di un sistema dei valori possa aver trasformato irrimediabilmente il rapporto tra insegnanti e studenti, ci ha provato lo stesso Lodoli con un libro da pochi giorni nelle librerie: Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana (Einaudi pp. 156, € 15).
«Tutto è cambiato – scrive – quando la società dei consumi s’è fatta più furba e aggressiva, ha azzannato dolcemente i giovani alla giugulare e gli ha versato dentro il veleno del desiderio. Chi pensa spende poco, chi si ferma a leggere, a coltivare la propria individualità, a sognare l’impossibile, non ascolta le sirene che cantano la canzone della felicità facile facile». Se sino a qualche tempo fa sulla bandiera della giovinezza c’era scritto «non qui e non ora» e i ragazzi coltivavano una fisiologica avversione per il proprio tempo, «cercando nel passato o nel futuro altre soluzioni, spesso puramente immaginarie, figlie del dispetto e della fantasia», adesso vivono in una «dittatura del presente» che non permette di saltare i suoi fili spinati: «L’industria dello spettacolo, della moda e dell’attualità chiude tutte le prospettive. I giovani sono un mercato troppo importante, non è possibile lasciarli andare verso mondi lontani, gratuiti, senza scontrino. Sono così pieni gli scaffali del presente, c’è talmente tanta merce da smaltire, che non rimane alcuna possibilità di guardare indietro». Il presente regna incontrastato, si è sbarazzato del prima e del dopo e detta la sua legge, pretende «un’ incrollabile fedeltà la cui conseguenza è la cancellazione della memoria come strumento di ricerca».
Una “lezione” appresa da «cento programmi televisivi» che diseducano a pensare e che la scuola fa fatica a disattivare. «Tutti i sapientoni ripetono che bisogna accontentarsi, senza sciupare la propria esistenza dietro alle sciocchezze che ci vengono proposte a getto continuo – si sente dire da uno studente Lodoli – ma il mondo occidentale si regge sull’eccitazione dei desideri e tutto il nostro immaginario è costruito da adulti che ci considerano solo come consumatori».
Una volta – come si diceva nelle favole - «grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli». Adesso gli unici a meritare ammirazione sono i Vip, coloro che si sono sollevati dal fango e hanno guadagnato un’inquadratura televisiva. Poco o nulla importa cosa abbiano fatto nella loro vita, se siano scienziati o piuttosto criminali, calciatori, cantanti, attrici, veline o, peggio, escort. Loro ce l’hanno fatta comunque. Hanno vinto, come in una lotteria, il diritto ad avere una personalità. Per loro si accendono i riflettori, si improvvisano feste, si scatena l’emulazione. Agli altri non rimane che sperare in una comparsata, iscriversi a un casting o, come suggerì qualcuno, sposare un milionario.
Gli studenti per primi avvertono l’impotenza della scuola e della “cultura”: «Se spendi ci sei, se spendiamo tutti il paese va avanti, il resto sono solo chiacchiere inconsistenti, inconsapevolmente sovversive».
Le esortazioni a impegnarsi di più, l’invito rivolto agli studenti a farsi valere – i toni predicatori, come li definisce il presidente della Repubblica – rimbalzano come su tanti muri di gomma. Difficile trasmettere loro l’etica del sacrificio quando il mondo intero afferma il contrario e in televisione e sui manifesti pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato. «Abbiamo costruito un modello di società che rifiuta il dolore – spiega Lodoli – e la nostra capacità di raccogliere le energie di fronte a una piccola salita, di pretendere qualcosa di più da noi stessi grazie a uno sforzo anche esiguo, ormai si sta esaurendo. Abbassiamo ogni giorno gli obiettivi, ci ritiriamo da ogni confronto. Tutto va bene così com’è, e se non va bene ci si può sempre voltare dall’altra parte, distrarsi, stordirsi, evitarsi. E così questa civiltà, che tante battaglie ha combattuto e vinto contro ogni dolore, ora si sta afflosciando. Anche una semplice interrogazione o un compitino in classe diventano vette impervie da spianare con un rifiuto, in nome dell’edonismo assoluto. I nostri padri hanno preso a schiaffi la sofferenza, noi invece oggi restiamo zitti e buoni, crediamo che non si debba fare più nulla, diventiamo grassi e pigri, scontenti senza dolore, annoiati in tanta fortuna. Piccoli, disarmati, infelicemente soddisfatti».
La politica rimane sullo sfondo, distante, incastrata in uno stucchevole gioco delle parti che si autoalimenta con luoghi comuni e qualunquismi grossolani. «I telegiornali sono dispacci dalla luna, le crisi di governo guazzabugli inspiegabili, e i politici sembrano tutti uguali, persi dentro un linguaggio che i ragazzi non riescono a tradurre».
I grandi temi sono un lusso che i ragazzi non possono più permettersi. Sembra che abbiano rinunciato al diritto/dovere di essere scontenti. Capita che protestino, sì, ma per questioni minimali, organizzative: l’orario di ingresso a scuola, termosifoni più caldi, porte nuove dei bagni, il rincaro delle pizzette. «Pragmatismo puro. Niente di male, intendiamoci, ma la spinta ideale verso un’altra vita ormai è fiacchissima».
Altri, ancora, si arrendono senza combattere, accontentandosi di indossare i panni degli sconfitti dalla modernità. Figlio di Renzo Lodoli, (1913-2008), ingegnere, scrittore, fondatore del Msi e soprattutto reduce di una guerra vissuta “dalla parte sbagliata” – come titolò una sua raccolta di racconti – l’autore ha ricevuto un formidabile esempio di quanto possa essere vissuta con dignità tale condizione.
«Ci stavamo bene dentro i panni dei vinti – scrive il figlio Marco – e disprezzavamo i vincitori come fossero esseri banali, prevedibili, addirittura opportunisti, sempre dalla parte del trionfo, sempre sul carro giusto, gente che non ha mai assaporato il gusto agrodolce della caduta e della polvere. Amavamo tutta una schiera di perdenti, un pantheon in cui trovavano posto figure lontanissime tra loro: Carlo Pisacane e Paperino, Che Guevara e Vercingetorige, Bonnie and Clyde e Toro Seduto, Dorando Petri e Jim Morrison, Leopardi e la banda Bonnot, Tenco e Borromini, poeti, sportivi, rivoluzionari, musicisti segnati dalle stimmate della disgrazia, pronti però ad accettare il loro destino sino in fondo, fino alla morte. La festa, le medaglie d’oro, gli allori andassero pure agli altri, a quei miserabili dei vincitori. Vincere ci sembrava di cattivo gusto, sono i padroni quelli che vincono, sono i peggiori. È facile vincere, basta mettersi in linea con i tempi, obbedire alle regole del gioco, arraffare la posta. Poi all’eroismo perdente subentra una sorta di vaga e improduttiva malinconia: voi altri fate, fate pure, sbattetevi a più non posso, occupate in fretta i posti migliori nella società, io me ne sto da una parte».
Un atteggiamento nobile finché si vuole ma fondamentalmente autolesionista, buono solo a spalancare autostrade agli arrivisti, ai mediocri, ai raccomandati di ieri e di oggi. «Si può provare a vincere senza essere necessariamente delle carogne? – si domanda lo scrittore – Chi vince è per forza un conformista, un ruffiano, un maramaldo? O invece a una certa età bisogna cercare di fiorire nel mondo, di dare un contributo a una società migliore? Dobbiamo uscire dal mito della sconfitta – esorta Lodoli – trasformando la malinconia in azione, senza seppellire tre metri sotto terra o sopra al cielo i nostri talenti. Bisogna saper perdere, come cantavano i Rokes tanto tempo fa, ma bisogna anche saper vincere. Ognuno dia il meglio di sé. E non importa se non passeremo tra gli applausi e i lanci di rose sotto l’arco di trionfo, importa solo tirare su la testa e dire io ci sono, io ci provo».
Per questo bisogna raccogliere l’invito di Napolitano. Spegnere, quando è necessario, la televisione e accendere il pensiero, trasformarlo in azione. Senza inseguire le mode, senza aspettarsi regali, senza intrupparsi, senza diventare nichilisti in servizio permanente effettivo. Giocarsela. A tutto campo. Perché l’importante non è né partecipare né vincere, ma mettercela tutta.
Esempi, quelli offerti dal mondo politico e non solo – ça va sans dire – spesso tutt’altro che edificanti. Di fronte ai quali il compito della scuola appare ogni giorno più arduo. «L’immaginario che la scuola prova a costruire è una gondoletta di fronte a una portaerei», chiosa Marco Lodoli, scrittore ma anche, da trent’anni, professore in trincea nella periferia romana. Controcorrente, meglio: controvento. «Pubblicitari, creativi, uomini del marketing, belle ragazze in mutande, politici, televisioni, tutti a soffiare a pieni polmoni sulle vele del desiderio e del consumismo più sfrenato, perché è da lì che vengono i soldi e il benessere». Una portaerei che viaggia spavalda e indifferente ai mille problemi della scuola, all’ormai quotidiano tentativo di delegittimazione dell’intera classe insegnante, rappresentata a mo’ di braccio intellettuale delle oligarchie – sic! – e composta da sovversivi o, nella migliore delle ipotesi, da fannulloni. Ex sessantottini, tutti e senza eccezioni, se non altro per vizio anagrafico. Sì, perché se la scuola non funziona – c’è chi sostiene con una sconcertante superficialità – la colpa è del ’68. Imperdonabili quei ragazzi che, più di quarant’anni fa, chiesero di spazzare via un po’ di polvere da programmi ottocenteschi per lasciare entrare nella scuola quel che di vivo e buono si muoveva nello spirito del tempo: nuovi autori, musiche e tendenze.
A raccontare come si è trasformata la scuola, e soprattutto come il venir meno di un sistema dei valori possa aver trasformato irrimediabilmente il rapporto tra insegnanti e studenti, ci ha provato lo stesso Lodoli con un libro da pochi giorni nelle librerie: Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana (Einaudi pp. 156, € 15).
«Tutto è cambiato – scrive – quando la società dei consumi s’è fatta più furba e aggressiva, ha azzannato dolcemente i giovani alla giugulare e gli ha versato dentro il veleno del desiderio. Chi pensa spende poco, chi si ferma a leggere, a coltivare la propria individualità, a sognare l’impossibile, non ascolta le sirene che cantano la canzone della felicità facile facile». Se sino a qualche tempo fa sulla bandiera della giovinezza c’era scritto «non qui e non ora» e i ragazzi coltivavano una fisiologica avversione per il proprio tempo, «cercando nel passato o nel futuro altre soluzioni, spesso puramente immaginarie, figlie del dispetto e della fantasia», adesso vivono in una «dittatura del presente» che non permette di saltare i suoi fili spinati: «L’industria dello spettacolo, della moda e dell’attualità chiude tutte le prospettive. I giovani sono un mercato troppo importante, non è possibile lasciarli andare verso mondi lontani, gratuiti, senza scontrino. Sono così pieni gli scaffali del presente, c’è talmente tanta merce da smaltire, che non rimane alcuna possibilità di guardare indietro». Il presente regna incontrastato, si è sbarazzato del prima e del dopo e detta la sua legge, pretende «un’ incrollabile fedeltà la cui conseguenza è la cancellazione della memoria come strumento di ricerca».
Una “lezione” appresa da «cento programmi televisivi» che diseducano a pensare e che la scuola fa fatica a disattivare. «Tutti i sapientoni ripetono che bisogna accontentarsi, senza sciupare la propria esistenza dietro alle sciocchezze che ci vengono proposte a getto continuo – si sente dire da uno studente Lodoli – ma il mondo occidentale si regge sull’eccitazione dei desideri e tutto il nostro immaginario è costruito da adulti che ci considerano solo come consumatori».
Una volta – come si diceva nelle favole - «grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli». Adesso gli unici a meritare ammirazione sono i Vip, coloro che si sono sollevati dal fango e hanno guadagnato un’inquadratura televisiva. Poco o nulla importa cosa abbiano fatto nella loro vita, se siano scienziati o piuttosto criminali, calciatori, cantanti, attrici, veline o, peggio, escort. Loro ce l’hanno fatta comunque. Hanno vinto, come in una lotteria, il diritto ad avere una personalità. Per loro si accendono i riflettori, si improvvisano feste, si scatena l’emulazione. Agli altri non rimane che sperare in una comparsata, iscriversi a un casting o, come suggerì qualcuno, sposare un milionario.
Gli studenti per primi avvertono l’impotenza della scuola e della “cultura”: «Se spendi ci sei, se spendiamo tutti il paese va avanti, il resto sono solo chiacchiere inconsistenti, inconsapevolmente sovversive».
Le esortazioni a impegnarsi di più, l’invito rivolto agli studenti a farsi valere – i toni predicatori, come li definisce il presidente della Repubblica – rimbalzano come su tanti muri di gomma. Difficile trasmettere loro l’etica del sacrificio quando il mondo intero afferma il contrario e in televisione e sui manifesti pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato. «Abbiamo costruito un modello di società che rifiuta il dolore – spiega Lodoli – e la nostra capacità di raccogliere le energie di fronte a una piccola salita, di pretendere qualcosa di più da noi stessi grazie a uno sforzo anche esiguo, ormai si sta esaurendo. Abbassiamo ogni giorno gli obiettivi, ci ritiriamo da ogni confronto. Tutto va bene così com’è, e se non va bene ci si può sempre voltare dall’altra parte, distrarsi, stordirsi, evitarsi. E così questa civiltà, che tante battaglie ha combattuto e vinto contro ogni dolore, ora si sta afflosciando. Anche una semplice interrogazione o un compitino in classe diventano vette impervie da spianare con un rifiuto, in nome dell’edonismo assoluto. I nostri padri hanno preso a schiaffi la sofferenza, noi invece oggi restiamo zitti e buoni, crediamo che non si debba fare più nulla, diventiamo grassi e pigri, scontenti senza dolore, annoiati in tanta fortuna. Piccoli, disarmati, infelicemente soddisfatti».
La politica rimane sullo sfondo, distante, incastrata in uno stucchevole gioco delle parti che si autoalimenta con luoghi comuni e qualunquismi grossolani. «I telegiornali sono dispacci dalla luna, le crisi di governo guazzabugli inspiegabili, e i politici sembrano tutti uguali, persi dentro un linguaggio che i ragazzi non riescono a tradurre».
I grandi temi sono un lusso che i ragazzi non possono più permettersi. Sembra che abbiano rinunciato al diritto/dovere di essere scontenti. Capita che protestino, sì, ma per questioni minimali, organizzative: l’orario di ingresso a scuola, termosifoni più caldi, porte nuove dei bagni, il rincaro delle pizzette. «Pragmatismo puro. Niente di male, intendiamoci, ma la spinta ideale verso un’altra vita ormai è fiacchissima».
Altri, ancora, si arrendono senza combattere, accontentandosi di indossare i panni degli sconfitti dalla modernità. Figlio di Renzo Lodoli, (1913-2008), ingegnere, scrittore, fondatore del Msi e soprattutto reduce di una guerra vissuta “dalla parte sbagliata” – come titolò una sua raccolta di racconti – l’autore ha ricevuto un formidabile esempio di quanto possa essere vissuta con dignità tale condizione.
«Ci stavamo bene dentro i panni dei vinti – scrive il figlio Marco – e disprezzavamo i vincitori come fossero esseri banali, prevedibili, addirittura opportunisti, sempre dalla parte del trionfo, sempre sul carro giusto, gente che non ha mai assaporato il gusto agrodolce della caduta e della polvere. Amavamo tutta una schiera di perdenti, un pantheon in cui trovavano posto figure lontanissime tra loro: Carlo Pisacane e Paperino, Che Guevara e Vercingetorige, Bonnie and Clyde e Toro Seduto, Dorando Petri e Jim Morrison, Leopardi e la banda Bonnot, Tenco e Borromini, poeti, sportivi, rivoluzionari, musicisti segnati dalle stimmate della disgrazia, pronti però ad accettare il loro destino sino in fondo, fino alla morte. La festa, le medaglie d’oro, gli allori andassero pure agli altri, a quei miserabili dei vincitori. Vincere ci sembrava di cattivo gusto, sono i padroni quelli che vincono, sono i peggiori. È facile vincere, basta mettersi in linea con i tempi, obbedire alle regole del gioco, arraffare la posta. Poi all’eroismo perdente subentra una sorta di vaga e improduttiva malinconia: voi altri fate, fate pure, sbattetevi a più non posso, occupate in fretta i posti migliori nella società, io me ne sto da una parte».
Un atteggiamento nobile finché si vuole ma fondamentalmente autolesionista, buono solo a spalancare autostrade agli arrivisti, ai mediocri, ai raccomandati di ieri e di oggi. «Si può provare a vincere senza essere necessariamente delle carogne? – si domanda lo scrittore – Chi vince è per forza un conformista, un ruffiano, un maramaldo? O invece a una certa età bisogna cercare di fiorire nel mondo, di dare un contributo a una società migliore? Dobbiamo uscire dal mito della sconfitta – esorta Lodoli – trasformando la malinconia in azione, senza seppellire tre metri sotto terra o sopra al cielo i nostri talenti. Bisogna saper perdere, come cantavano i Rokes tanto tempo fa, ma bisogna anche saper vincere. Ognuno dia il meglio di sé. E non importa se non passeremo tra gli applausi e i lanci di rose sotto l’arco di trionfo, importa solo tirare su la testa e dire io ci sono, io ci provo».
Per questo bisogna raccogliere l’invito di Napolitano. Spegnere, quando è necessario, la televisione e accendere il pensiero, trasformarlo in azione. Senza inseguire le mode, senza aspettarsi regali, senza intrupparsi, senza diventare nichilisti in servizio permanente effettivo. Giocarsela. A tutto campo. Perché l’importante non è né partecipare né vincere, ma mettercela tutta.
4 commenti:
Straordinaria analisi di una societa' " del tutto e subito"... dove si deve avere ad ogni costo...e dove la cultura, ahime', e' messa all'angolo...in ogni campo, politica per prima che ha rinunciato ad essere " colta" in favore di un portafoglio piu sostanzioso...
è un'analisi molto puntuale che condivido per molti versi;pero' mi lascia perplessa la considerazione sul '68 che a mio avviso è stata la dinamite che ha fatto saltare in aria il rispetto per la cultura: condizione essenziale perchè cultura ci sia in una società;la Francia, che pure del 68 è stata la culla, non ha mai perduto di vista questo riferimento essenziale;cosi' il 68 è entrato nella storia,metabolizzato e introiettato nella parte migliore;da noi invece è diventato "endemico".Certo, non è il solo elemento, ma fronteggiare la corazzata del consumismo,del tutto e subito,del tutto per tutti,non è facile se si hanno le armi spuntate d'una cultura mutilata dall'ideologia
Splendida analisi che condivido e mi offre spunti di ulteriore riflessione.
Riguardo al '68, credo sia stato un spartiacque fondamentale di cui tutti siamo figli e di cui abbiamo tutti interiorizzato alcuni principi ormai imprescindibili nella società attuale. Tuttavia è vero che ha anche aperto la strada al lassismo, alla deresponsabilizzazione dello studente, alla criminalizzazione dell'autorità tuttora presenti nella scuola e non solo.La differenza è che quella dei movimenti giovanili di allora era una fuga nell'essenza quella di oggi una fuga ben più drammatica nell'apparenza, nel materialismo e nel rifiuto del dolore e di tutto ciò che ci mette in contatto con l'eternità di fronte alla quale siamo meno di un battito di ciglia...
perfettamente d'accordo, ma forse mancano alcuni aspetti fondamentali: le responsabilità del modello americano e di chi ha passato la vita a prostrarsi di fronte agli ordini delle lobby d'oltreoceano. allora come ora. e mi pare eccessivo allinearsi alle attuali dichiarazioni di napolitano dimenticando chi è, chi è stato, cosa ha detto in tutta la sua vita. la retorica di oggi è ben poca cosa rispetto alle responsabilità di sempre
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