venerdì 16 ottobre 2009

Il padrino? Cominciò come gigolò

Dal Secolo d'Italia di venerdì 16 ottobre 2009
Il leggendario Al Pacino, icona imperitura del machismo italoamericano o meglio siculoamericano – ante litteram rispetto a ogni Fight Club che dir si voglia e ai “duri” che il cinema a stelle e strisce ha sfornato negli ultimi decenni – ha avuto un passato da american gigolò? Se John Travolta, sull’onda del successo de La febbre del sabato sera e Grease, ebbe il coraggio (o l’impudenza, a seconda dei punti di vista) di rifiutare il ruolo di Julian Kay in American Gigolò – ruolo poi interpretato da Richard Gere nella fortunata pellicola del 1980 – Al Pacino avrebbe confessato alla decana del gossip mondiale in Usa, Cindy Adams, di essersi spinto oltre quando aveva vent’anni e viveva in Sicilia. Non solo accompagnatore di donne ricche e sole. E, quel che è peggio, non nella finzione cinematografica. Nella vita, quella che ti segna ben più di qualche ciak. Prostituendosi – ha dichiarato – «per mangiare e mantenere un tetto sopra la testa». Decidendo di vendersi, parole sue, a una donna più anziana. «Offrendo l’unico bene che potevo offrire: il mio corpo». Negli anni Sessanta, quando, dopo aver abbandonato gli studi, per sopravvivere aveva provato ogni genere di lavoro – facchino, operaio, persino sciuscià – pur di alimentare un sogno: fare l’attore. Per quanto il prestigioso Actor Studio rimanesse un miraggio lontano. Prima, ovviamente, di diventare quel monumento vivente della cinematografia mondiale che è. Tanto emulato da più generazioni di attori quanto inarrivabile, ancora oggi. Prima di conoscere e frequentare, splendido settantenne che per usare un consolidato eufemismo potremmo definire dalla vita sentimentale irrequieta, le attrici più belle e desiderate dell’epoca: da Jill Clayburgh a Carol Kane, da Diane Keaton a Beverly D’Angelo, dalla quale ha avuto due dei suoi tre figli. Numero da considerarsi provvisorio e potenzialmente soggetto a smentita.
Parole che ovviamente hanno fatto il giro del mondo alla velocità della luce, sino ad arrivare nella sua Italia. E che, se “il padrino” per eccellenza, il vecchio Don Vito Corleone – magistralmente interpretato da Marlon Brando nella trilogia tratta dal celebre romanzo di Mario Puzo, vera e propria pietra miliare della storia del cinema – avesse ascoltato pronunciate dal figlio Micheal (Al Pacino, per l’appunto), non avrebbe certamente gradito. Neanche un po’. «Mai dire a una persona non della famiglia – si raccomanda Don Vito in una celebre scena del film – ciò che ti passa nella testa!».
La confessione, peraltro, fa a pugni con la sua immagine di celluloide, così come scolpita nell’immaginario collettivo. E chissà cosa ne avrebbe pensato il suo stesso alter ego, Micheal Corleone, ruolo che nel ’72 lo impose all’attenzione del grande pubblico e che segnò il suo ingresso trionfale nel cinema dando inizio a una carriera ben lungi dal dirsi finita, impegnato com’è tra i mestieri di attore, regista e produttore. Non avrebbe apprezzato neanche lui, probabilmente. Sì, perché Micheal è un duro, decorato della Seconda guerra mondiale. Soltanto quando viene a sapere che il padre è in pericolo di vita, si decide, sia pure con riluttanza, a raccoglierne l’eredità “criminale”. Sempre ispirandosi a un rigoroso quanto personale codice etico. Quando, per sfuggire all’arresto o alle vendette della mafia, Micheal lascia gli Stati Uniti e si nasconde a Corleone, in Sicilia, terra natia del padre Vito, si innamora e sposa una siciliana, Apollonia. E Corleone è anche la terra natia dei suoi veri nonni materni, perchè – anche se Alfredo James Pacino è nato nel quartiere di East Harlem – la sua famiglia è di inequivoche origini siciliane. Sangue isolano, pertanto, e sentimento cattolico. Appartenenza e senso dell’onore che dimostra di avere anche l’attore, che – nel rendere pubblica quella pagina buia della sua vita – ricorda come al mattino, dopo quegli incontri a luce rossa, si sentisse in colpa: «odiandomi per quello che stavo facendo». E chissà se è anche per questo che, nel 1990, declinò l’invito a interpretare il ruolo di protagonista in un’altra pellicola che diventerà un cult, Pretty Woman, in cui Julia Roberts indossa i panni, pochi a dire la verità, di una giovane prostituta di Hollywood. Lì si trattava di una commedia a lieto fine, a mo’ di Cenerentola, dove a redimersi sono sia lei che lui, un affarista senza scrupoli interpretato anche qui da quello stacanovista della macchina da presa di Richard Gere. La vita, si sa, generalmente è un po’ diversa, più dura, meno edulcorata. E Al Pacino, che rimane un grandissimo, ce lo ha ricordato.

Nessun commento: