Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 18 ottobre 2009
Sette album in vent’anni. Una cadenza triennale che si ripete dal 1994 e che la dice lunga sul suo desiderio di inseguire l’ispirazione, piuttosto che il successo. E sulla consapevolezza che una canzone, se non miri solo a vendere dischi e ad accumulare quattrini, è ben altro che un’istantanea da scattare-sviluppare-stampare nel più breve tempo possibile, per poi distribuirla ai fan come una foto promozionale “con firma autografa dell’autore”. Una canzone, se hai avuto la fortuna di crescere libero dalle mode e di imbatterti per tempo negli artisti veri (che rimangono tali dentro o fuori le Hit Parade, perfettamente a loro agio in un piccolo locale o in un grande teatro, troppo intenti a viaggiare per domandarsi chi ci sarà ad accoglierli al punto d’arrivo), è il tuo modo di dire al mondo che ci sei e che non ti sei ancora fermato. Sei stato bene, e vorresti condividere quel bene. Sei stato male, e vorresti cancellare quel male.
Samuele Bersani si sente innanzitutto un musicista, e infatti i testi li aggiunge solo in un secondo momento. Prima deve innamorarsi dei suoni, convincersi che non si tratta soltanto, al di là delle buoni intenzioni, dell’ennesimo riverbero dell’immaginario collettivo: luoghi comuni assorbiti senza volerlo, per il semplice fatto che si vive qui, risucchiati nello stesso traffico di macchine e di avvenimenti, di clacson e di notiziari, di conoscenti che non ti interessano e di persone interessanti che non hai modo di conoscere. In un’altra situazione, forse, troverebbe la musica e si fermerebbe lì: le parole rimarrebbero in una dimensione privata, nelle pagine di un diario (pieno di divagazioni e quanto mai discontinuo) o più probabilmente nelle lettere a qualche amico o a qualche amore. Ma le canzoni esigono un testo. E a lui piace moltissimo cantare. E trovare qualcuno che scriva testi davvero belli è quasi impossibile: i parolieri di mestiere hanno più tecnica che cuore, i dilettanti il contrario. I poeti si tengono stretti i loro versi. I grandi cantautori pensano a se stessi, e ogni tanto alla Mannoia. Bersani, che pure aveva esordito ad appena vent’anni con Il mostro, non è tipo da scrivere di getto, ma ha idee inconsuete e una dedizione assoluta. Sembra osservare le parole con lo stesso atteggiamento con cui Ivano Fossati osserva gli accordi: non basta che stiano bene insieme e che piacciano agli altri; il loro fascino deve avere qualcosa di insolito, quasi di impervio; la loro armonia deve essere conquistata sul campo, correndo tutti i rischi del caso. Bisogna pensarci e ripensarci, prima di venirne a capo. Liberarsi di ciò che è banale. Avventurarsi dove le forme sono più complesse non per un esercizio di stile ma per un dovere di originalità.
È un lavoro maledettamente impegnativo. Maledettamente incerto. Come un corteggiamento in cui l’innamorato sei solo tu. Come individuare la strada che ti farà uscire dal labirinto, restituendo agli occhi e al cuore uno spazio aperto e ospitale, dopo tutti quei corridoi angusti e quelle svolte ingannevoli. Devi sforzare la memoria, per riuscirci. Non solo per ricordare il percorso che hai fatto e che ti ha portato fin qui – dove c’è così tanta gente e nessuno a cui chiedere – ma soprattutto per non dimenticare cosa c’era là fuori, prima che il mondo si trasformasse in un ipermercato. E la vita in un reality show.
Samuele Bersani ci prova. Conta i propri passi e osserva le tracce. Le sue e quelle degli altri. Ogni tanto scova qualcosa di interessante. Pensa “hey, guardate un po’ qua”. Gli vengono in mente delle parole. Le dispone accuratamente su una musica che ha già trovato e sistemato con tutta la cura di cui è capace. Scrive una canzone. Dice “hey, ascoltate un po’ qua”. Non è mai troppo sicuro che l’invito vada realmente a buon fine. Che venga raccolto davvero e fino in fondo. Le canzoni sono un ottimo sistema per richiamare l’attenzione su di sé. Ma l’attenzione e la comprensione non sono affatto la stessa cosa. La rima promette più di quel che mantiene: proprio come nelle canzoni, l’assonanza tra le parole prefigura un legame profondo che in molti casi non c’è.
«Mi annoio a fare due volte la stessa cosa. Ho i miei artisti di riferimento in Elvis Costello e Battiato, che non hanno paura di andare in direzioni diverse. Altrimenti è solo un’operazione rassicurante: entri in un negozio di dischi e compri sempre la stessa canzone. Non è il mio caso.»
È il suo nemico giurato, la superficialità. La teme come un virus, più che come un avversario in carne e ossa. Una minaccia incombente che può annidarsi ovunque e colpire quando meno te lo aspetti. Un virus mutante che si rigenera di continuo, in infinite variazioni del ceppo originario. Abitudine. Pigrizia. Generalizzazione. Questo dannato bisogno di semplificare tutto per renderlo immediatamente comprensibile. Questo dannato bisogno di standardizzare tutto per venderlo più facilmente. L’arte ridotta a psicofarmaco “da banco”. Il fai da te delle emozioni: come si diceva un tempo, ognuno è il miglior medico di se stesso. Come si vede oggi, il medico si è trasformato in spacciatore. E non ci pensa due volte a rifilarti di tutto.
Bersani gira al largo, per quanto gli è possibile. Da un lato non vorrebbe giudicare nessuno, per non precipitare nella presunzione. Dall’altro non è disposto a fare finta di nulla, sprofondando nell’acquiescenza. Dice cose anche dure, ma più come una riflessione personale che non come un proclama. Il suo vero “manifesto abusivo”, per restare al titolo del nuovo album, sarebbe probabilmente un grande foglio scritto a mano e realizzato in un solo esemplare. O tutt’al più in pochissime copie. Un testo pieno zeppo di parole, che non rientravano nelle intenzioni iniziali ma che non c’è stato verso di arrestare, via via che venivano a galla. Cambi di scena e di atmosfera. Interessante ma difficile. Da leggere un po’ per volta. Da rileggere a distanza di tempo. Niente a che vedere con Chicco e Spillo o con Coccodrilli. Musiche più frastagliate. Situazioni meno accattivanti. Emozioni da ragazzo e pensieri da adulto. La maturità dei quarant’anni che bussa alla porta. La giovinezza che un po’ fa finta di non sentire e un po’ ha un gran voglia di scoprire se “quella lì” viene solo a togliere, o anche a dare.
Samuele Bersani si sente innanzitutto un musicista, e infatti i testi li aggiunge solo in un secondo momento. Prima deve innamorarsi dei suoni, convincersi che non si tratta soltanto, al di là delle buoni intenzioni, dell’ennesimo riverbero dell’immaginario collettivo: luoghi comuni assorbiti senza volerlo, per il semplice fatto che si vive qui, risucchiati nello stesso traffico di macchine e di avvenimenti, di clacson e di notiziari, di conoscenti che non ti interessano e di persone interessanti che non hai modo di conoscere. In un’altra situazione, forse, troverebbe la musica e si fermerebbe lì: le parole rimarrebbero in una dimensione privata, nelle pagine di un diario (pieno di divagazioni e quanto mai discontinuo) o più probabilmente nelle lettere a qualche amico o a qualche amore. Ma le canzoni esigono un testo. E a lui piace moltissimo cantare. E trovare qualcuno che scriva testi davvero belli è quasi impossibile: i parolieri di mestiere hanno più tecnica che cuore, i dilettanti il contrario. I poeti si tengono stretti i loro versi. I grandi cantautori pensano a se stessi, e ogni tanto alla Mannoia. Bersani, che pure aveva esordito ad appena vent’anni con Il mostro, non è tipo da scrivere di getto, ma ha idee inconsuete e una dedizione assoluta. Sembra osservare le parole con lo stesso atteggiamento con cui Ivano Fossati osserva gli accordi: non basta che stiano bene insieme e che piacciano agli altri; il loro fascino deve avere qualcosa di insolito, quasi di impervio; la loro armonia deve essere conquistata sul campo, correndo tutti i rischi del caso. Bisogna pensarci e ripensarci, prima di venirne a capo. Liberarsi di ciò che è banale. Avventurarsi dove le forme sono più complesse non per un esercizio di stile ma per un dovere di originalità.
È un lavoro maledettamente impegnativo. Maledettamente incerto. Come un corteggiamento in cui l’innamorato sei solo tu. Come individuare la strada che ti farà uscire dal labirinto, restituendo agli occhi e al cuore uno spazio aperto e ospitale, dopo tutti quei corridoi angusti e quelle svolte ingannevoli. Devi sforzare la memoria, per riuscirci. Non solo per ricordare il percorso che hai fatto e che ti ha portato fin qui – dove c’è così tanta gente e nessuno a cui chiedere – ma soprattutto per non dimenticare cosa c’era là fuori, prima che il mondo si trasformasse in un ipermercato. E la vita in un reality show.
Samuele Bersani ci prova. Conta i propri passi e osserva le tracce. Le sue e quelle degli altri. Ogni tanto scova qualcosa di interessante. Pensa “hey, guardate un po’ qua”. Gli vengono in mente delle parole. Le dispone accuratamente su una musica che ha già trovato e sistemato con tutta la cura di cui è capace. Scrive una canzone. Dice “hey, ascoltate un po’ qua”. Non è mai troppo sicuro che l’invito vada realmente a buon fine. Che venga raccolto davvero e fino in fondo. Le canzoni sono un ottimo sistema per richiamare l’attenzione su di sé. Ma l’attenzione e la comprensione non sono affatto la stessa cosa. La rima promette più di quel che mantiene: proprio come nelle canzoni, l’assonanza tra le parole prefigura un legame profondo che in molti casi non c’è.
«Mi annoio a fare due volte la stessa cosa. Ho i miei artisti di riferimento in Elvis Costello e Battiato, che non hanno paura di andare in direzioni diverse. Altrimenti è solo un’operazione rassicurante: entri in un negozio di dischi e compri sempre la stessa canzone. Non è il mio caso.»
È il suo nemico giurato, la superficialità. La teme come un virus, più che come un avversario in carne e ossa. Una minaccia incombente che può annidarsi ovunque e colpire quando meno te lo aspetti. Un virus mutante che si rigenera di continuo, in infinite variazioni del ceppo originario. Abitudine. Pigrizia. Generalizzazione. Questo dannato bisogno di semplificare tutto per renderlo immediatamente comprensibile. Questo dannato bisogno di standardizzare tutto per venderlo più facilmente. L’arte ridotta a psicofarmaco “da banco”. Il fai da te delle emozioni: come si diceva un tempo, ognuno è il miglior medico di se stesso. Come si vede oggi, il medico si è trasformato in spacciatore. E non ci pensa due volte a rifilarti di tutto.
Bersani gira al largo, per quanto gli è possibile. Da un lato non vorrebbe giudicare nessuno, per non precipitare nella presunzione. Dall’altro non è disposto a fare finta di nulla, sprofondando nell’acquiescenza. Dice cose anche dure, ma più come una riflessione personale che non come un proclama. Il suo vero “manifesto abusivo”, per restare al titolo del nuovo album, sarebbe probabilmente un grande foglio scritto a mano e realizzato in un solo esemplare. O tutt’al più in pochissime copie. Un testo pieno zeppo di parole, che non rientravano nelle intenzioni iniziali ma che non c’è stato verso di arrestare, via via che venivano a galla. Cambi di scena e di atmosfera. Interessante ma difficile. Da leggere un po’ per volta. Da rileggere a distanza di tempo. Niente a che vedere con Chicco e Spillo o con Coccodrilli. Musiche più frastagliate. Situazioni meno accattivanti. Emozioni da ragazzo e pensieri da adulto. La maturità dei quarant’anni che bussa alla porta. La giovinezza che un po’ fa finta di non sentire e un po’ ha un gran voglia di scoprire se “quella lì” viene solo a togliere, o anche a dare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
9 commenti:
d'accordo sulla profondità leggera che samuele stimola... e crea, in questo simile all'inarrivabile bennato, ma più diagonale musicalmente.
d'accordo sulla sua unicità e sulla passione che traspare in ogni pezzo e anche sul coraggio di saper rischiare.
da approfondire il discorso con certa inafferrabilità melodica e alcuni gradini armonici che testimonierebbero un certo desiderio di completezza e equilibrio compositivo ed esecutivo che l'ambiente musicale "leggero"(termine utilizzato solo in italia) non può dargli, lui è molto più avanti.
l'ultimo salto coraggioso sarebbe quello di frequentare musicisti e autori nuovi, di altre aree produttive.
ma di questo sarebbe bello poterne parlare con lui.
Aspettavo quest'articolo, Federico. Perché io sono un di quelli che era alla Fnac il giorno dell'uscita di "Manifesto abusivo" e l'ho comprato a scatola chiusa. Bersani non è uno di quegli autori che mi scarico con leggerezza.
Che dire: concordo su tutto quanto hai scritto, forse avrei detto qualcosa in più sull'album in questione, che è come al solito sorprendente. Di quelli che più ascolti e meno ti annoiano. Musiche elaboratissime, eppure costruite su tempi abbastanza accattivanti che sembrano fare a pugni con i testi duri e mai banali. Come hai fatto notare anche tu, Bersani ormai sembra fare guerra alla rima baciata: costruisce una metrica basata sulle assonanze, ti spiazza magari mettendo poi la baciata dove non te l'aspetti. Grandi canzoni: "Pesce d'Aprile", l'amaro e umoristico omaggio a Bologna (una canzone da copogiro), "Ferragosto" (scritta per Cammariere), la titletrak (geniale trasformare un cigolio di freni in un assolo di Miles Davis), lo swing divertito e sconsolato di "Ragno" (di Giorgio Conte) "16-9"... Ma non ci sono canzoni brutte, in realtà.
In Italia, nel 2009, sono usciti almeno 2 album notevoli: questo e "Solo un uomo" di Niccolò Fabi. Fabi è meno giocoso di Bersani, forse a volte eccessivamente sentimentale o "minimalista", ma è forse l'autore che maggiormente sembra seguire Fossati nei "viaggi dell'anima". E poi è un album molto complesso anche il suo, sebbene meno perfetto (le ultime 2 canzoni poteva buttarle via).
Ciao.
Grazie a entrambi. Le osservazioni intelligenti sono la migliore ricompensa di chi scrive, almeno per me. In effetti questa volta l’articolo mi ha impegnato più del solito: via via che lo sviluppavo (che provavo a svilupparlo...) la difficoltà di trovare un filo conduttore diventava più evidente. Forse è proprio lui che non si presta a essere messo a fuoco in un ritratto definitivo, capace di spiegare in un sol colpo le cose del passato e quelle del presente. Forse ero io che non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Il risultato è quello che avete visto: ho parlato molto più del suo approccio artistico, e in qualche modo esistenziale, che non del nuovo album. D’altra parte – anche se probabilmente chi legge non se ne accorge affatto, come è naturale che sia – un problema ulteriore è quello di avere limiti di spazio rigidamente prefissati: per ragioni editoriali, infatti, i miei pezzi per il Secolo devono essere tutti della stessa, identica lunghezza. Il che mi costringe, più spesso di quanto vorrei, a privilegiare i discorsi di carattere generale rispetto alla vera e propria recensione. Una soluzione, magari, potrebbe essere quella di aggiungere, specificamente per il blog, un breve commento dei singoli brani, o quanto meno dei più significativi. Ammesso che Roberto sia d’accordo, e che io trovi il tempo... ci si può pensare.
Per quello che mi riguarda, ne sarei contento... tempo (il tuo) permettendo.
Grazie, anche per chi "gestisce" il blog i commenti rappresentano la migliore "ricompensa" e non è da tutti ospitare le risposte dell'autore. :)
Coreggo: "Ragno" è di Angelo Conte, non di Giorgio Conte (notoriamente fratello jazzista dell'avvocato astigiano).
Concordo con tutto :)
Dopo 3 anni più o meno dall’ultimo album (lui stesso ha spiegato che per scrivere bisogna vivere, per questo l'uscita del suo album è stata così tardiva), finalmente è tornato un buon Bersani, cantautore e con collaborazioni degne di nota (come “Ferragosto”, la cui musica è niente di meno che di Cammariere, o “Il Bombarolo”,tributo a De Andrè, accompagnata al piano da un grande del jazz italiano, Stefano Bollani…). L’ho visto anche ad Xfactor e consiglio di acquistare il nuovo cd (io l'ho fatto), in quanto credo sia sempre stato uno dei più talentuosi artisti italiani…(ma forse parlo troppo da fan :P ) Ho trovato un video amatoriale per “Ferragosto”
http://www.youtube.com/watch?v=cpq1CYRWx5Q
qualcuno sa quando uscirà il video ufficiale?^^
Si, probabilmente lo e
Si, probabilmente lo e
leggere l'intero blog, pretty good
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